La prima edizione di questo libro è datata 1970. Fu scritto in occasione di una scadenza accademica e sottoposto al giudizio di una commissione di colleghi universitari. Si era nel periodo immediatamente successivo al Sessantotto; personalmente ero conosciuto come un professore che aveva preso le parti del movimento studentesco; inoltre tutta la mia produzione degli anni ’60 era stata improntata all’analisi dei movimenti politici degli operai e all’approfondimento critico del marxismo. Il libro sorprese sia gli accademici per la scelta del tema (che cosa ne avrebbe fatto un marxista di Descartes?), sia i compagni del movimento (perché mai Negri perde tempo su Descartes?). La spiegazione che allora diedi, ai primi come ai secondi, la posso ripetere oggi a coloro che volessero chiedermi perché, dopo più di trent’anni, permetto che questo libro sia ripubblicato.
La risposta consiste in tre osservazioni e in una conclusione.
La prima osservazione è che, come han ben mostrato Machiavelli, Spinoza e Marx (e dopo di loro ha stabilito l’ampio consenso filosofico che si forma tra Nietzsche e Foucault/Derrida) ogni metafisica è in qualche modo un’ontologia politica. Nella fattispecie, lo studio del pensiero cartesiano presentava un’eccezionale occasione di dimostrare questa tesi poiché, per la sua originalità e radicalità, il pensiero politico di Descartes si oppone da un lato alla continuità teologico-politica della filosofia medioevale, dall’altro alle teorie meccaniciste e assolutiste à la Hobbes, in quel momento di crisi storica e politica che segna la nascita della modernità. Esso fonda un’ontologia politica non solo nuova ma diversa: è un’ontologia della mediazione, non dialettica ma temporale, progressiva, intesa alla costruzione dell’egemonia di una classe sociale. Essa, per così dire, aggiunge alle ragioni costitutive del politico moderno (che si presenta nella figura dello Stato assoluto) un progetto evolutivo per l’egemonia culturale e il dominio borghese sulla società.
La seconda osservazione consiste nel sottolineare che la continuità di un pensiero filosofico (e la fortuna di Descartes fu lunga) è essa stessa legata alla potenza del dispositivo politico implicito nell’ontologia dell’autore. In ciò e solo in ciò, cioè nella durata del dispositivo che l’ontologia comprende, sta la ragione dell’eventuale efficacia storica di una metafisica. La fedeltà come i tradimenti, la continuità come le discontinuità, le crisi come le trasformazioni articolano una catena di idee sempre commisurata all’essere dell’origine. Altrettanto si può dire quando la forza di un pensiero si disperde o scompare: se un’archeologia vivente nutre genealogie creative, nuove condizioni storiche e politiche possono di contro illuderci con archeologie defunte. Il cartesianesimo, nel suo sviluppo francese e nelle sue diramazioni europee, costituisce un modello particolarmente efficace di questa figura storica della metafisica: nella durata teorica e poi nella continuità rivoluzionaria del cartesianesimo risaltavano i caratteri critici, radicalmente innovativi della sua origine. Di qui l’utilità dello studio dell’ontologia politica originaria di Descartes e di come essa s’era formata e sviluppata. Essa ci permette di descrivere, attraverso diversi dispositivi, diagrammi articolati e disegni costitutivi, qualche successivo secolo di storia del pensiero e dell’evoluzione del potere borghese e capitalistico — nel segno dell’egemonia.
La terza osservazione muove dal riconoscimento del fatto che la considerazione archeologica di un pensiero filosofico può essere attraversata da diverse genealogie, e cioè che (sempre) un pensiero si costituisce e si definisce attraverso scelte e rotture — ed esso è tanto più significativo quanto più controlla e sussume le diverse e talora contraddittorie articolazioni storiche di un’epoca e il movimento dei soggetti che in quest’epoca cercarono e/o costruirono egemonia. Per argomentare questa tesi di metodo, basti soffermarsi sulle caratteristiche fondamentali dei conflitti e delle alternative che abbiamo definito alla base di quest’analisi del pensiero politico di Descartes (eravamo alla fine degli anni ’60). A partire da un inventario del pensiero politico in Francia nella prima metà del ‘600 avevamo allora tentato di mostrare — ricollegandoci all’opera di Borkenau e ad alcuni suggerimenti di L. Febvre — come la «filosofia della manifattura» fosse tutt’altro che un blocco unitario; come, invece, gli elementi strutturali della trasformazione produttiva del mondo, le forze rivoluzionare che, a partire dal ‘300 in Italia e nelle Fiandre, dalla Rinascenza ovunque in Europa, si liberano, trovassero nel ‘600, in maniera definitiva, un vasto campo di alternative ideologiche, cioè di diverse possibilità politiche (Antonio Negri, Problemi di storia dello Stato moderno. Francia: 1610-1650, in «Rivista critica di storia della filosofia», 1967, n.2, pp.182 segg.; A. Negri, Manifattura ed ideologia, in P. Schiera (a cura di), Manifattura, società borghese, ideologia, saggi di F. Borkenau, H. Grossmann, A. Negri, Savelli, Roma, 1978; A. Negri, Prefazione a C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi, Milano, 1973). È a fronte di queste alternative che si afferma la costruzione cartesiana di un ordine politico ragionevole — forte tentativo di rappresentare un egemonico sviluppo della borghesia all’interno della formazione dello Stato assoluto.
La mia conclusione è infine che un’ontologia politica del passato (nel caso quella cartesiana) può essere utilmente confrontata all’attualità, per comprendere o per rinnovare l’immagine del presente. Ciò è tanto più evidente quando il presente, e l’epoca nella quale era stata concepita l’opera con la quale ci si confronta, si assomigliano. Non c’è ingenuità nel dir questo, il senso della differenza e della singolarità del pensiero e dell’evento è pur sempre in noi fortissimo e la nostra pedagogia non pretende in nessun caso di produrre quella «isoformità» tanto cara ai cultori della relazione «sovra-sottostrutturale» — semmai qui corrono un po’ d’ironia e molti paradossi. Eppure…
Per avvicinare alla realtà queste osservazioni metodologiche, cominciamo dalla conclusione (ad 4) sottolineando cioè le eventuali somiglianze fra ieri ed oggi. Quando Descartes sviluppa la sua filosofia si è, come si è detto, nel mezzo di quel periodo di transizione sociale e politica che forma la modernità. È a questa transizione che Descartes commisura la sua opera. Ebbene, anche oggi navighiamo nel mezzo di una grande transizione che sta formando la postmodernità. Allora la borghesia, oggi il proletariato globale (la moltitudine) si confronta con il potere. Ma la similitudine non si ferma qui — il processo registrato da Descartes si dà nella continuità di alternative di volta in volta sperimentate, dissolte o vincenti. Il disorientamento, il dubbio agitano le coscienze. In profundo gurgite siamo dibattuti. Dal di dentro Descartes ci illustra un processo di crisi, ben analogo a quello odierno. Anche oggi siamo infatti dentro un interregno tra le antiche forme di governo capitalistico e quelle nuove di una governance globale che stanno cercando una definizione efficace, nel bel mezzo cioè di una grande transizione sociale e politica, apertasi dopo il Sessantotto e non ancora giunta a definirsi in un equilibrio conclusivo: essa ha visto e vede opporsi, ai movimenti rinnovatori, reazioni politiche fortissime. Il periodo storico vissuto da Descartes, lo chiamiamo epoca della costruzione dello Stato moderno, e va dalla crisi del Rinascimento e delle forme originarie del governo borghese alla definizione dello Stato assoluto. Allora il processo rivoluzionario della borghesia, come oggi quello del proletariato globale, della moltitudine, conobbe una grande crisi: la «guerra dei Trent’anni» sta alla base della reazione assolutista contro la borghesia rivoluzionaria, così come oggi la «guerra preventiva» sta alla base della reazione capitalista contro la rivoluzione del proletariato globale, ed entrambi questi periodi sono attraversati da processi di reazione sociale e politica, allora di «rifeudalizzazione», oggi di «privatizzazione» dei beni comuni. In entrambe le epoche si assiste al crollo del modello ideologico che aveva nutrito le prime insorgenze rivoluzionarie, nel permanere tuttavia di un’incontenibile e irreversibile forza produttiva e sociale dei nuovi soggetti storici: di qui la crisi.
Il mio problema, allora (quando scrissi la Ragionevole ideologia) come oggi, è quello di interpretare la crisi dal punto di vista del marxismo critico. Ora, il marxismo critico è tutto tranne che determinista. Lo scontro fra forze produttive e rapporti capitalistici di produzione, nella realtà come nella rappresentazione (teorica e metafisica, scientifica e storiografica), è sempre legato agli eventi, ai rapporti di forza, alla capacità creativa dei soggetti storici. Se oggi questo è del tutto evidente, non lo è meno nel grande dramma filosofico della modernità. Descartes come Hobbes, Spinoza come Leibniz, Kant come Hegel, non sono fantasmi del pensiero (di un vario rincorrersi storico di passioni sempre irresolute) ma alternative concrete nella realtà di epoche storiche singolari. Perciò li amiamo o li odiamo, li consideriamo carne della vita oppure, di contro, scheletri che impacciano il nostro pensiero — in un’alternativa che è significativa delle diverse virtualità di cui è capace, e in cui consiste, la potenza del processo storico. Quella rivoluzione teorica del marxismo e quella ridefinizione della sua funzione critica che, negli anni ’60, passarono attraverso l’operaismo italiano e il poststrutturalismo francese, ebbero come suggello di verità la forza di questa relazione vivente col pensiero filosofico, in generale, e conseguentemente il privilegio di una capacità di interpretazione immanente al divenire soggettivo della modernità. Questo punto di vista è presente nel mio Descartes politico. La soggettivazione delle forze produttive non è infatti un processo che deve attendere la postmodernità, ovvero l’apparire del General Intellect, per apparire nella sua pienezza — essa è piuttosto sempre implicita, virtualmente presente, violentemente attiva nella configurazione dei sistemi ideologici del potere, capace tanto di condizionarli quanto, eventualmente, di metterli in crisi. Quando si parla di Descartes, si è interamente dentro questa macchina.
Ma ritorniamo a noi. Chiediamoci dunque come Descartes abbia reagito a quella crisi che definisce la genesi della modernità. L’ipotesi di Descartes consistette nella proposta di una «ragionevole ideologia». Si trattava per lui, da un lato, di confermare, dal punto di vista metafisico, la potenza nascente della borghesia, il potenziale rivoluzionario della sua azione, la decisione dell’autonomia della ragione borghese: l’«Io penso» rappresenta questa determinazione. Ma, d’altra parte, si trattava per lui di piegare l’assolutezza della posizione originaria alla concretezza di un progetto politico, storicamente sostenibile: di qui la ragionevolezza del suo disegno. Ora, l’idea di libertà, introdotta dalla rivoluzione umanistica, era insidiata, oltre che dalla prepotenza delle aristocrazie regnanti e dalla continuità dell’ordine regale (patrimoniale e carismatico) anche e soprattutto dalle sommosse e dalle rivoluzioni delle nuove moltitudini contadine e artigiane. Queste rappresentavano la base materiale e il motore produttivo di quel progetto di appropriazione del valore che la borghesia stava costruendo. Se la borghesia si presentava come classe egemone, capace della costruzione di una nuova civiltà, era perché essa aveva riconosciuto, alla base di questa, una nuova forza produttiva — quella del lavoro. Trattenere e sfruttare la nuova forza-lavoro e, al tempo stesso, rispondere al pericolo che rappresentano le sommosse della moltitudine e configurare uno spazio che, nell’alleanza con l’ancien régime (poiché, fuori dalla trascendenza, era allora impossibile definire l’autorità), permettesse alla borghesia di svilupparsi: questo è il ragionevole progetto di Descartes. Un progetto aperto e riformista che permetterà alla borghesia di sviluppare l’idea di progresso e di allargare mano a mano la sua egemonia all’interno delle nuove strutture dello Stato assoluto (conseguentemente, di elaborare teorie non teologiche e pratiche materiali adeguate ad una nuova definizione di autorità). Un progetto, d’altra parte, chiuso e coscientemente opportunista, perché consapevole dei limiti dell’azione borghese, della minaccia delle rivoluzioni della moltitudine e quindi alla ricerca di una temporalità e di forme di potere adeguate alla gestione di un progetto efficace di riforma della società e dello Stato. La filosofia di Descartes può essere letta in questa chiave: come ideologia (ideologia in senso proprio, rappresentazione «di parte» della realtà, cioè affermazione della verità di classe della borghesia egemonica) e come ragionevole ideologia, piantata nella consapevolezza dei rapporti di forza attuali e delle possibilità progressive, eventualmente aperte a quel nuovo corpo sociale e a quella verità.
Ma, si è detto, l’ipotesi di Descartes può essere oggi confrontata ad una situazione analoga. Che la situazione sia analoga è difficilmente dubitabile. Dopo il Sessantotto, dopo l’Ottantanove, dopo cioè l’insurrezione del General Intellect, del lavoro immateriale e intellettuale, proletario e sfruttato, e dopo la fine della strozzatura socialista-sovietica del comunismo, le moltitudini hanno riaperto una possibilità egemonica e affermato un progetto per la liberazione del lavoro. La risposta della classi dominanti si è ripetuta come controrivoluzione e come reazione sociale e politica. È una restaurazione feroce, una ripetizione del Seicento, è un vero Barocco, quello che si è aperto davanti ai nostri occhi. Contro lo sviluppo globale delle moltitudini si è infatti scatenata la crisi, si è cioè data una risposta capitalistica di stabilizzazione regressiva. In questa nuova situazione di crisi, l’ipotesi di Descartes si presenterebbe oggi formalmente come proposta di una «alleanza ragionevole» fra nuovi strati del lavoro intellettuale multitudinario e vecchie forze borghesi del potere, come ipotesi riformista nel nuovo quadro del postmoderno. Non si può tuttavia non riconoscere, dinanzi ad un’ipotesi così formulata, che se la situazione è analoga, l’ipotesi cartesiana è irripetibile. Oggi le forme statali del capitalismo e quelle viventi del «capitale collettivo» non riescono infatti più ad esercitare la mediazione che il vecchio Stato assoluto aveva con qualche successo determinato fra insorgenze borghesi, continuità dello Stato regale-patrimoniale e necessità di dominare le sommosse e le insurrezioni proletarie. Oggi, dov’è più possibile identificare una funzione di mediazione? La dialettica, anche quella raffigurata dal cartesianesimo, come impresa di lunga durata, di Aufhebung nella prospettiva dell’infinito metafisico, è inattuale: non esiste più un Terzo Stato, un corpo di robins, di amministratori, radicato nell’interesse della mediazione statale dello sfruttamento — che possa creare o gestire la dialettica. Ma di questo più tardi.
Su queste basi consideriamo nuovamente le osservazioni proposte all’inizio, per verificare se la letteratura prodotta in ambito storico e filosofico dopo il 1970, ci proponga la necessità di modificare, in maniera più o meno sostanziale, le nostre ipotesi interpretative. Ora, a me sembra che, ripercorrendo il dibattito svoltosi in questi anni, ne venga piuttosto fuori una riconferma delle tesi allora presentate e una dimostrazione ulteriore della loro verità.
Cominciamo dalle osservazioni di cui al punto 2), di quelle cioè riguardanti la continuità del pensiero cartesiano e le alternative che in essa si sono date. Se assumiamo i due testi che sembrano costituire la sintesi definitiva degli studi (François Azouvi, Descartes et la France: Histoire d’une passion nationale, Paris, Fayard, 2001 e Stéphane Van Damme, Descartes: Essai d’histoire culturelle d’une grandeur philosophique, Paris, Presses de Sciences Po, 2003), abbiamo una nuova dimostrazione di quanto il cartesianesimo abbia tessuto in profondità le trame e le alternative del pensiero francese fino, certamente, alla Rivoluzione. La grande potenza del pensiero cartesiano è studiata (in queste due opere) in relazione all’intero arco sociale sul quale gli effetti di un pensiero innovatore possono darsi. Azouvi e Van Damme hanno approcci molto diversi: da un lato una storia filosofica che puntualizza i passaggi essenziali della progressiva trasformazione del cartesianesimo in mito e la cospirazione ideale e politica che vi sta dietro; dall’altro, una storia che coglie le forme dell’innovazione culturale e della vita intellettuale che costituiscono, nel corso del XVII e del XVIII secolo, la «grande» figura di Descartes. Certo, tutto questo non è sufficiente: questi sono pezzi di storia filosofica e culturale che vanno piuttosto mescolati ai più profondi passaggi della storia sociale. Chiariscono tuttavia come la ragionevole ideologia di Cartesio si estenda dall’età classica all’illuminismo fino alla rivoluzione. La Rivoluzione, per così dire, ne completa il disegno. Come questo avvenga, come, da un lato, la storia e i rapporti sociali che in essa si modificano, si incarichino di togliere di mezzo gli elementi mistico-spirituali (e la continuità della scolastica medioevale) che stavano alla base di una prima raffigurazione della razionalità filosofica moderna; e come, d’altra parte, queste tendenze possano svilupparsi e radicalizzarsi nel corso dell’Illuminismo, è stato recentemente anche descritto da J. Israel (Radical Enlightenment: Philosophy and the Making of Modernity, 1650-1750, Oxford University Press, 2000) e da Erica Harth (Cartesian Women: Versions and Subversions of Rational Discourse in the Old Regime, Ithaca, Cornell University Press, 1992). È così che la continuità del cartesianesimo diventa una rete (capace di chiudere nella sua trama molte delle espressioni spirituali del secolo) ed è così che si tende quell’arco che conclude appunto, come abbiamo detto, nella rivoluzione francese.
Ciò dato, è certo che il ritorno riflessivo sul cammino percorso (dalla razionalità normalizzatrice) ci mette sulla via di una storia di Francia (e dell’intera modernità) molto differente dalla «storia classica» che voleva vedere Marx (M. Gauchet, in A. de Becque, Pour ou contre la révolution, Bayard, Paris, 2002, p. VII). Ma questo è solo parzialmente vero: inoltre in quella summa del revisionismo furetiano (che è la raccolta di de Becque), si rischia davvero di non comprendere come la ragionevole ideologia di Descartes abbia potuto costruire (e far durare) un pensiero radicale e soprattutto una soggettività radicale. Dobbiamo piuttosto riconoscere che questi passaggi non sono stati facili e che mentre il XVII secolo soffre dell’umanità come una somma di contrasti (l’amas de contradictions que nous sommes) e cerca di scoprire l’uomo, di coordinarlo, di riconoscere le forme, il XVIII cerca piuttosto di dimenticare quello che sappiamo della natura dell’uomo per adattarla alla sua utopia (Nietzsche, Volontà di potenza, I, p. 27). Dire questo significa allora riconoscere che quei passaggi e quelle rivoluzioni dello spirito si sono date con molta forza. Altri revisionisti storici aggiungono: il dispositivo della «ragionevole ideologia» può svilupparsi in utopia. Bene. Ma non è allora, appunto, a partire da questa consapevolezza, che dobbiamo riconoscere il processo storico che sta dietro a questa trasformazione? Se nel 1978 François Furet poteva dire «la rivoluzione francese è terminata», con ciò non avrebbe potuto chiudere quella dialettica storica che la «ragionevole ideologia» aveva, a modo suo, interpretato; e se proprio allora si doveva concludere che, nel questionamento metafisico sui principi fondamentali della società, né l’interrogativo politico sulla natura e il funzionamento dei sistemi di libertà, né la questione sociale su quale giustizia una comunità deve ai suoi membri, potevano essere risolti in termini univoci, tanto più occorrerà scavare, cioè approfondire allora l’analisi e identificare così, proprio attorno a queste alternative, la genesi delle contraddizioni e dei presupposti rivoluzionari (che sono l’unico prodotto certo delle forze intellettuali da Descartes messe al lavoro). È quello che lo studio della «ragionevole ideologia» cartesiana ci permette di fare, è questa la base drammatica di un’archeologia della ragione che una genealogia flessibile e indeterminata ci ha fatto ereditare.
Se ora veniamo alla terza osservazione fatta (supra al punto 3) e torniamo quindi al contesto storico nel quale, e a confronto del quale, si sviluppa il pensiero politico cartesiano, anche in questo caso dovremo chiederci se dal 1970 a oggi il grande lavoro di approfondimento storico sulla natura dello Stato assoluto moderno abbia comportato modificazioni essenziali, tali da impedirci di continuare a sostenere la tesi della «ragionevole ideologia». Grande è stato infatti il lavoro storico sull’origine dello Stato moderno che si è sviluppato in questi trent’anni: e tuttavia gli approfondimenti della storia interdisciplinare, gli allargamenti delle analisi sociologiche ed economiche, le specializzazioni culturali messe all’opera non son riuscite a modificare il quadro che sulla linea di «pensiero Max Weber-Otto Hintze» si era determinato. Lo Stato moderno (se non è propriamente definito quale «Stato-impresa» o «Stato-macchina», come quelli volevano) lo diviene, rappresenta comunque un processo di unità e centralizzazione funzionale. Paolo Prodi (Introduzione allo studio della storia moderna, Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 68 segg.) insiste su questa continuità storiografica. Egli nota come, rispetto ai temi relativi alla genesi e allo sviluppo dello Stato moderno, restino fondamentali le risultanze della storiografia otto-novecentesca. Esse vanno riarticolate, talora messe in subbuglio, certo, ma i tre temi della razionalizzazione strutturale (amministrativa) alla Maravall, della laicizzazione del potere alla Kantorowicz e della specializzazione biopolitica alla Foucault — bene, queste determinazioni non mutano, semmai si approfondiscono su una linea continua e consolidata di interpretazione storica.
Altrettanto vale se osserviamo l’ambiente storiografico che s’agglutina attorno alle posizioni di Braudel (in proposito vedi Early Modern History and the Social Sciences. Testing the Limits of Braudel’s Mediterranean, ed. by John A. Marino, Truman State University Press, Kirksville, 2002). Si osserva qui che l’allargamento e la «diseconomizzazione» della lettura della genesi dello Stato moderno, da parte di molti storici revisionisti, apre comunque alla «sorpresa» di dover ammettere che l’espansione e la nuova intensità delle tecniche e delle figure ermeneutiche (che hanno trovato grande insistenza nell’analisi degli elementi linguistici, geografici, culturali e archivistici nella «nuova storia») non mettono in discussione la base critica dell’economismo braudeliano; anzi, rinnovando da questi nuovi punti di vista l’analisi, confermano la natura conflittuale dell’ideologia del moderno, scoprendo e insistendo su altre lotte popolari e di classe che attraversano l’epoca. Insomma il tema della ragionevole ideologia può essere, nella prospettiva storiografica, senz’altro confermato. Il contenuto contraddittorio del moderno è semmai accentuato e l’intensità delle grandi crisi che lo attraversano, è approfondita. Quando, fra gli anni ’70 e gli anni ’80, ho nuovamente attraversato quest’epoca nel mio L’anomalia selvaggia. Potere e potenza nella filosofia di Spinoza (Feltrinelli, Milano, 1981) ero arrivato anch’io a conclusioni analoghe.
Di qui delle riserve che mi sembra necessario sollevare su alcune interpretazioni di questo periodo filosofico, collegate, in terra anglosassone, alla cosiddetta «Scuola di Popkin». Anche recentemente le indicazioni di questo grande storico dello scetticismo moderno hanno trovato continuità in opere importanti che hanno toccato temi cartesiani (Tad M. Schmaltz, Radical Cartesianism: The French Reception of Descartes, Cambridge University Press, 2002; Richard A. Watson, Cogito, Ergo, Sum: the Life of René Descartes, Jaffrey, N.H.: David R. Godine, 2002). Che cosa c’è che non va in queste letture e in generale nei presupposti della «scuola di Popkin»? Queste interpretazioni mi sembrano, per così dire, «molli»: si allungano nello studiare la continuità delle tendenze filosofiche senza tuttavia identificarne la funzione ideologica, si stendono sull’orizzontalità storica dei processi senza comprendere il nesso che lega il pensiero agli eventi, alla materialità delle relazioni di potere, in maniera verticale, secondo relazioni storicamente contingenti eppure ideologicamente rilevanti. Scavano, ad esempio, nella scolastica tardomedievale per ritrovarvi continuità linguistiche, incapaci tuttavia di evidenziare il nuovo del moderno. Non sanno leggere la rivoluzione che matura nei presupposti di questa trasformazione epocale del pensiero, non sanno cogliere le grandi alternative e le disperate tensioni progressiste che il pensiero moderno nutre (fin dall’inizio) al suo interno. Per esempio, l’alternativa Descartes/Spinoza/Pascal risulta assorbita e mediata nel clima teorico e nei linguaggi metafisici dell’epoca — piuttosto che, proprio in riferimento alle differenze storiche concrete, essere messa in risalto nella sua irriducibilità: eppure il grande libro di Lucien Goldmann sul giansenismo (L. Goldmann, Le Dieu caché, Gallimard, Paris, 1970) avrebbe potuto, a questo proposito, essere risolutivo. Il problema non è quello di collegare, alla maniera marxista, e cioè esclusiva, filosofia e congiuntura, e neppure quello di legare (come troppe volte è stato fatto in maniera grossolana in una tradizione storiografica che speriamo consunta) struttura e sovrastruttura: il problema è quello di vivere la storia della filosofia dentro queste relazioni, come l’hanno vissuta i filosofi, come l’hanno vissuta i soggetti storici che di volta in volta hanno cercato produzione di pensiero, affermazione di potenza ed egemonia. La storia politica assume significato quando si impianta nell’ontologia e la dipana, e così la filosofia politica dà voce all’ontologia.
Possiamo già qui cominciare a parlare di biopolitica?