di Gian Andrea Franchi
Luce Giard, allieva, collaboratrice e responsabile dell’edizione critica delle opere di Michel de Certeau (1925-1986), inizia la presentazione di questa raccolta da lei curata dicendo che «niente sembrava predisporre Michel de Certeau a sentirsi in sintonia con gli eventi del maggio 1968» (Presentazione, in Michel de Certeau, La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma 2007 (1994), p. 9). Che di profonda sintonia si tratti è detto in poche righe che mostrano la pienezza dell’ascolto che questo raffinatissimo intellettuale gesuita storico antropologo teologo psicanalista, tra i fondatori dell’Ecole freudienne de Paris di Jacques Lacan seppe dare di quella breve intensa fase di vita sociale e politica, ascolto tanto più vivo di quello di molti che lo vissero e teorizzarono.
Qualcosa ci è successo. Dentro di noi qualcosa ha cominciato a muoversi. Voci mai sentite ci hanno trasformato originate in un luogo ignoto, a riempire improvvisamente le strade e le fabbriche, a circolare tra noi, a diventare nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate. (37-38)
Io non conosco parole più intense sul ’68, nel coro discorde che la vicinanza dell’anniversario intensifica. Michel de Certeau era uno che sapeva ascoltare la voce dell’altro. Non aveva pre-giudizi da difendere neanche di tipo religioso ma un appassionato desiderio di comprensione. Atteggiamento, assai raro, d’autentico pensiero, cui l’ascolto è intrinseco. Sapeva che ogni attività valida comporta il rapporto con un’alterità, pena la sua insignificanza, la sua riduzione a retorica. Lo dimostrano i suoi studi sulla mistica, su fenomeni di alterità sociale come quelli religiosi extraecclesiali del XVII secolo, dei nativi americani nei confronti dei colonizzatori, su ciò che veniva a suo tempo chiamato «possessione diabolica».[1] Aveva tutta la strumentazione intellettuale necessaria, esperto anche di società complesse e diverse come quelle del Sud e del Nord America dove soggiornò e insegnò per anni. Ma, da sola, non sarebbe bastata.
Si è smosso qualcosa di silenzioso, qualcosa che invalida lo strumentario mentale elaborato in funzione di una condizione di stabilità. […] Una certa idea di uomo abitava l’immenso apparato che organizzava la società. Questa regola segreta implicitamente riconosciuta o accettata, è stata strappata dall’ombra da dove determinava un ordine […] non credo che si possa parlare di rivoluzione compiuta [ma di] rivoluzione simbolica […] sia per il fatto che essa significa più di quanto metta in atto, sia perché contesta delle relazioni (sociali e storiche) per crearne altre di autentiche. Allo stesso modo il ‘simbolo’ è l’indice che marca tutto il movimento nella sua pratica come nella sua teoria. La parola, dall’inizio alla fine, ha giocato il ruolo decisivo. (28-30)
Il valore simbolico di un atto, nel caso di un atto che si vuole politico, è la messa in crisi della simbologia su cui si regge un determinato potere. Ciò implica che il potere in una società è sempre e prima di tutto giocato sul piano simbolico, cioè sull’egemonia culturale, aiutato certo dal monopolio della forza, che è indispensabile ma solo come coadiuvante di ciò che, se manca, essa non può supplire. È un vecchio assioma che nessun potere può reggersi a lungo sulla mera costrizione fisica. Così nessuna azione di forza di per se stessa può instaurare un nuovo ordine l’ordine è sempre prima di tutto simbolico.
Le manifestazioni hanno creato una rete di simboli appropriandosi dei segni di una società per invertirne il senso. […] Segno dei segni nemmeno le barricate possono essere apprezzate misurandole sulla loro efficacia militare. Certo, hanno avuto un ruolo politico nella misura in cui hanno costretto l’enorme macchina governativa alla pericolosa alternativa tra il capitolare davanti a queste ondate di sassi o il trasformare gli ‘arrabbiati’ in martiri innocenti due modi per perdere la faccia. Ma, in un senso più profondo, esse hanno trasformato la paura del gendarme in un’azione collettiva; infrangevano l’aura di un’autorità, volgevano un’atomizzazione paralizzante in un’esperienza gioiosa di trasgressione creatice di comunità, disincantavano un’organizzazione sociale rivelando fragilità dove si supponeva ci fosse forza, e rendendo possibile un potere dove regnava un senso d’impotenza. (32)
Il simbolico governa il rapporto fra possibile ed impossibile: è questo il cuore di ogni potere. Non si tratta di convincere che un determinato assetto di potere sia giusto, ma che sia l’unico possibile in quel contesto. Da questo discende la convinzione che sia il meno peggiore, perché se l’alternativa non è possibile, c’è il caos, che è sempre il peggio. La più grande forza di un potere sta nell’innescare degli automatismi del legame sociale che diventano naturali come l’aria che si respira. Per questo il Capitale è così forte: più di ogni altro sistema sociale ha saputo innescare automatismi, al punto che nessuno può più controllarli anche quando hanno effetti deleteri per le basi biologiche della vita. Nello stesso tempo il potere gioca sulla straordinaria adattabilità dell’animale culturale. L’aria è inquinata? Pazienza! Intanto tiriamo avanti, poi si vedrà.
Che degli studenti possano occupare le poltrone dei professori, che un linguaggio comune possa intrecciarsi sopra la separazione tra intellettuali e lavoratori manuali, o che un’iniziativa collettiva possa contrapporsi ai rappresentanti di un sistema onnipotente, ecco che viene modificato il codice, tacitamente ‘ricevuto’, che divide possibile e impossibile, lecito e proibito. L’azione esemplare apre la breccia non certo per un’efficacia propria, ma perché spiazza una legge tanto più potente perché confinata nell’impensato. È decisiva, contagiosa e pericolosa perché tocca quella zona oscura che ogni sistema postula e che non saprebbe giustificare. E nondimeno resta […] un ‘luogo simbolico’, non cambia nulla, crea delle possibilità relative alle impossibilità fino ad allora assunte e non chiarite. Io vedo un fenomeno socio-culturale nuovo e importante in questo impatto dell’espressione che arriva a manifestare una disarticolazione tra il detto e il non-detto […] [l’azione simbolica] ci riporta a quel che è forse il tratto essenziale e più enigmatico di una ‘rivoluzione’ caratterizzata dalla volontà di articolarsi in ‘luoghi di parola’, luoghi che contestano le forme di accettazione tacita […] «disvelamento di qualcosa d’insopportabile».[2] (33)
Ecco la prise de parole in tutta la straordinaria intensità storico-sociale del suo significato:
Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. […] Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona, tra questi due simboli vi è una differenza essenziale che marca l’evento del 3 maggio 1968. Oggi è la parola ad essere stata liberata. In tal modo si afferma, feroce, irreprimibile, un nuovo diritto, venuto a coincidere con il diritto di essere uomo e non più un cliente destinato al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima della società. […] «Qua tutti hanno il diritto di parlare». Ma questo diritto era riconosciuto soltanto a chi parlava a nome proprio, dato che l’assemblea si rifiutava di ascoltare chi si identificava con una funzione o chi interveniva in nome di un gruppo nascosto dietro le parole di un suo membro. (37)
Oso dire che la presa della parola la presa della parola degli operai in fabbrica, della gente nelle strade, nelle piazze è più importante della presa della Bastiglia, che ha dato luogo ad un nuovo potere, che ha creato l’illusione per cui, preso il Palazzo d’inverno, il più è fatto, mentre ora sappiamo che è da farsi, se non addirittura compromesso. Verrà Kronstadt, infatti, e molto altro.
Vi è un fatto che è più importante che è più importante delle rivendicazioni o della contestazione stessa, che non facevano che esprimerlo nei termini pre-evento: un fatto positivo, uno stile d’esperienza. Un’esperienza creatrice, cioè poetica. «Il poeta ha schiodato la parola», annunciava un volantino alla Sorbona. […] [Ciò] apriva a ciascuno discussioni che oltrepassavano, al contempo, la barriera degli specialismi e quella degli ambienti sociali, e che trasformavano gli spettatori in attori, il faccia a faccia in dialogo, l’informazione o l’apprendimento di ‘conoscenze’ in discussioni appassionate su opzioni che rigurdavano direttamente l’esistenza. Questa esperienza è accaduta. È inafferrabile. (39)
Se la presa della parola si è rivelata fragile, precaria dopo sono venuti i ‘gruppi’, dopo è venuto il gesto muto e retorico della lotta armata ha tuttavia insegnato qualcosa che non può essere dimenticato, che ognuno può provarsi a fare in prima persona, sempre, in piccolissime e grandi occasioni, che è il sale di qualunque politica che voglia essere, non solo dirsi, di liberazione, che è il sale della vita stessa. Questo fatto eminentemente collettivo oggi, anzi sempre, terrorizza ogni potere. Ma oggi più che mai, nell’epoca di un totalitarismo (se è ancora utilizzabile la categoria arendtiana) che si deve chiamare democratico. È questo che il totalitarismo democratico intende con terrorismo, credo, assai più che l’uso delle armi, che sa, prima o poi, come rintuzzare.
Michel de Certeau ci aiuta a pensare e non sento per nulla retorico quest’enunciato che nulla è perduto ma tutto è davanti a noi.
Non esiste altra risposta se non il rischio assunto in nome di una certezza. Ma proprio in tale rischio vi è uno strato irriducibile che ha già smosso il linguaggio, un’affermazione che, nella sua insufficienza, dice, o pretende di dire, il necessario: non sarebbe più vivere un vivere che alienasse la propria parola, come non sarebbe più esistere un esistere che rinunciasse alla tentazione di creare. (51)