di Mauro Vanetti

LulaBush.jpgApertura brasiliana

Nel caro e dimenticato giorno dell’8 Marzo, Bush è arrivato a San Paolo. Ancora una volta, il Brasile è un paradosso; fu il Paese che, con la vittoria di Lula, segnalò al mondo che qualcosa stava cambiendo nel continente. All’epoca i brasiliani erano quasi tutti entusiasti e trasognanti quando parlavano del barbuto presidente ex operaio. A chi cercava di farli parlare di politica in termini concreti (ma cosa vi aspettate da questo nuovo governo? ma non vi sembra che si stia già mettendo un po’ troppo d’accordo con gli industriali?), rispondevano che chi non era brasiliano non poteva capire cosa significasse la vittoria di Lula, che c’era una speranza gigantesca in quel momento e che non era certo il caso di sollevare simili prosaiche polemiche pignole.

Oggi, il sogno è — almeno un po’ — finito e anche se Lula vince sempre, convince sempre meno, ma la cosa veramente paradossale è che proprio il Paese che ha aperto il corteo colorato e sbandierante che sta portando a sinistra tutta l’America Latina oggi sembri sempre più un gendarme che tiene d’occhio la situazione (come certi servizi d’ordine che se la intendono più con la polizia che coi manifestanti) facendo sovente rapporto ai digossini della Casa Bianca. Il fatto è che quella di Lula è una specie di strana socialdemocrazia, a tratti piuttosto sbiadita, a tratti con un’immagine decisamente radicale e operaia, installatasi al potere in un Paese enorme che nel contesto sudamericano (alcuni dicono anche mondiale, ma è forse un’esagerazione) è una potenza, e non ha molta intenzione di farsi coinvolgere in giochetti pericolosi.

In patria, questo è relativamente chiaro da tempo agli attivisti dei movimenti sociali e della sinistra più “dura”, anche se ovviamente c’è un’ampia gamma di opinioni al proposito; in genere, i gruppi più estremi parlano di un “bivio” a cui si trova il governo e che obbliga il PT al potere a scegliere una volta per tutte “da che parte stare”. L’incontro di Lula con Bush, per esempio, non è stato apprezzato per niente da questi gruppi e movimenti, che hanno dato vita a una protesta massiccia contro il disonore di essere scelti dall’imperatore come prima tappa dell’espugnazione del labirinto. Siamo talmente abituati che ogni spostamento dell’uomo politico più potente del mondo sia accompagnato da proteste di massa da non stupircene neppure più; ma si noti di passaggio che questa cosa non è poi così normale, anzi risulta praticamente priva di precedenti ed è un sintomo abbastanza eloquente di quanto grave sia la crisi del dominio USA sul pianeta.

Guardando dall’estero, tuttavia, sono serviti soprattutto alcuni eventi esemplari perché si chiarisse la situazione. Al Forum di Porto Alegre del 2005, alcuni dei presenti fischiarono Lula (certo, non tutti, ma anche gli altri sembravano freddini e quest’accoglienza non passò inosservata, soprattutto in contrasto con quella riservata a Chávez). Nel 2005, le truppe brasiliane sbarcarono insieme a quelle di diversi altri Paesi (tra cui i sospettissimi USA e Francia) ad Haiti, nel quadro dell’ennesima missione umanitaria dall’inquietante sigla MINUSTAH (appropriato però per l’isola del voodoo). Il 1° Maggio 2006, Morales annunciò la nazionalizzazione degli idrocarburi boliviani: la compagnia petrolifera brasiliana “di bandiera”, Petrobras, controllata dal governo, fu una delle multinazionali che più duramente si opposero a questa misura. Insomma, siamo di fronte a un’altra mutazione genetica, ma di tipo diverso e certo più consueto: la sinistra contaminata. Quanto la faccenda sia grave e come e da chi possa esser curata, lo si può lasciare al dibattito.

I due mutanti molto diversi, dunque, si incontrano e ne nasce qualcosa, anche se il parto è piuttosto faticoso e gli attriti non mancano. Non sarà però un caso se proprio la settimana dopo si sia avuto un incidente diplomatico tra l’ambasciata venezuelana e il ministro brasiliano delle Comunicazioni che, parlando della creazione di una TV pubblica, ha detto sprezzantemente che ovviamente non la vorranno fare “mica come a Cuba o in Venezuela”.

E dunque cosa esce dall’incontro della sinistra contaminata con il capo degli RGM? Sicuramente qualche pensata piuttosto originale, come è in effetti l’idea del rilancio dei biocombustibili.

Defossilizzazione?

Fa parte dell’essenza del cliché dei Bush lo stivale texano e la sete di petrolio, à la J. R. di Dallas. Bush Jr è quello che si tenne la penna in tasca al momento di firmare il trattato di Kyoto, esponendosi senza pudore di fronte a sei miliardi di persone all’accusa di egoismo e di voler avere il diritto di scaricare nell’atmosfera di tutti le proprie emissioni pericolose, senza nemmeno il leggero rossore che colora le guance dell’areofago in ascensore. Un comportamento certo ben poco geneticamente modificato, in questo caso: ecco un reazionario bell’e buono, vecchio stampo, che dichiara che il proprio Paese, essendo quello che più consuma al mondo, non può certo accettare di fare sforzi per rendere il suo pattern di sviluppo più ragionevole! Sembra di sentire un ottocentesco industriale delle ferriere lamentarsi della giornata di dieci ore perché lui ha le sue esigenze mondane e non può permettersi di rinunciare a certi lussi che per uno del suo status sono dei veri e propri doveri sociali.

Ecco, lo stesso Bush che non firma a Kyoto, con totale noncuranza annuncia nel 2007 di essere molto preoccupato per l’esaurimento delle risorse petrolifere e per il surriscaldamento del pianeta e dichiara improrogabile l’esigenza di sviluppare combustibili alternativi basati sui prodotti agricoli. La preoccupazione sul petrolio è giusta, non solo per la fine delle riserve e per gli effetti sul clima ma più a breve termine perché nel mercato del greggio la bilancia sta pendendo a tutto sfavore dell’Occidente e a favore dei Paesi produttori; l’aumento del prezzo del petrolio non è principalmente dovuto al fatto che i pozzi stanno sputacchiando fuori le ultime scatarrate nere, ma ad una serie di elementi come il rafforzamento del Venezuela e della Bolivia nelle Americhe, l’industrializzazione cinese (vorace di combustibili — e di acciaio), l’incapacità degli occupanti nel tenere sotto controllo l’Iraq e il conseguente corroborarsi della stretta iraniana sulla Mesopotamia. Tutti questi fattori possono essere chiamati con un solo nome: il declino degli Stati Uniti d’America.

Ecco dunque che lo stesso ottuso arrogante che prosegue dritto per la sua strada suicida a Baghdad, a Kyoto e a Kabul, a San Paolo fa però uno scarto laterale e propone di fare a meno del petrolio usando un linguaggio da attivista ambientalista. Ovviamente questa conversione dell’economia dal petrolio all’etanolo andrebbe secondo il texano incoraggiata con cospicue sovvenzioni statali e con adeguate misure di tipo doganale, e almeno su questo Brasilia solleva critiche nette. Il Brasile non sarà mica come Cuba o il Venezuela, ma non è neppure Porto Rico — il problema degli USA in questa fase è precisamente che devono guardarsi non solo dagli avversari, ma anche dai concorrenti, e il Brasile del PT è per l’appunto una via di mezzo tra un avversario e un concorrente.

Il movimento contadino dei Sem Terra (ho avuto in mano un loro “sussidiario”, pieno di immagini colorate e molto didattico, dove spiegano la storia delle lotte contadine, sembrava la sintesi di un manuale di agronomia e del kit del perfetto organizzatore di jacquerie) ha sollevato quattro obiezioni alla dottrina imperiale sugli agrocombustibili (la prima obiezione è proprio sull’uso del prefisso bio – e su questo accodiamoci subito e volentieri). La seconda obiezione dice che gli agrocombustibili possono anche essere più ecologici degli idrocarburi fossili, ma il problema resta il consumo irrazionale e impari delle risorse del pianeta. In realtà non è neppure vero che gli agrocombustibili siano sempre più ecologici, per esempio si è calcolato che, se nell’impatto ecologico del carburante derivato dall’olio di palma (uno dei più economici, per produrre il quale si sta per esempio deforestizzando l’Indonesia) si contassero anche le foreste incendiate per far spazio alle coltivazioni, il bilancio climatico sarebbe negativo anche rispetto ai combustibili fossili. La quarta obiezione dice che in ogni caso la produzione degli agrocombustibili fatta alla maniera di lorsignori continuerà a produrre diseguaglianze e sfruttamento — e in effetti già si parla di 200mila semischiavi utilizzati in Brasile come tagliatori di canne da zucchero per la produzione del cosiddetto “bioetanolo”. La terza obiezione mi sembra la più interessante e dice che i Sem Terra sono contrari all’uso di cibo per produrre carburante. Va bene quindi produrre etanolo dagli scarti agricoli (ma pare che l’efficienza energetica del processo sia troppo bassa), ma qui si parla di farlo con ciò che capita, ed è chiaro che ci si butterà su tutto ciò che possa bruciare bene, con l’unico criterio del profitto a breve termine.

Ricordiamoci che ci si trova in un labirinto pieno di botole e muri girevoli: premi per sbaglio un mattone sporgente e si apre un varco quattro corridoi più in là. Se in Brasile si usa soprattutto la canna da zucchero, un’altra delle materie prime usate altrove per l’agrocombustibile a base di etanolo (il piano di Bush prevede che per alcune di queste merci venga creato un mercato internazionale simile a quello del greggio) è il granoturco. Siccome negli ultimi anni le pannocchie (ma anche il frumento) cominciano a essere usate non solo come combustibile per gli esseri umani ma anche come combustibile per gli autoveicoli, persone e macchine entrano “in competizione per il cibo”, come scrisse su The Guardian George Monbiot, che di recente ha commentato: “Le persone necessariamente perderanno: chi si può permettere di guidare è, per definizione, più ricco di chi rischia di morire di fame”. Un uomo dice al suo psicanalista, in una geniale vignetta di Bucchi su La Repubblica: “Alla mia vecchia macchina sto pagando gli alimenti”.

Allucinazioni pessimiste? Pare di no. In Messico, col mais si fa la tortilla, una specie di piadina, che nei nostri ristoranti tex-mex viene riempita di carne, verdure, salse e arrotolata (i più abili sanno anche il trucco di ripiegarne in dentro un’estremità, per evitare straripamenti dal lato sbagliato), ma in Messico è usata in mille modi, praticamente come il pane in Europa. Il mais, nato grosso modo ad Oaxaca, pianta fondante della quasi omonima civiltà maya secondo cui l’Uomo era nato da un impasto di acqua e mais (da noi si è sempre detto, invece, sputo e argilla; polentoni contro terroni?), viene così espropriata per farne la nuova base della civiltà del motore a scoppio. Le automobili cominciano a mettersi in coda ai supermercati, vogliono le loro tortilla; il prezzo del mais comincia a salire, le macchine sgomitano e scavalcano i messicani in coda. La tortilla più che raddoppia di prezzo, inevitabilmente scoppia una rivolta (degli esseri umani); nonostante in Messico non manchino i Bava-Beccaris, questa insurrezione per il pane con l’adesione di milioni di persone ha un esito meno sanguinoso: il presidente Calderón ha paura e applica misure di emergenza non propriamente in linea con l’ideologia del libero mercato, come il calmieramento dei prezzi.
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Chiosa di Chávez: “Nella società capitalista alimentare un’auto è più importante che alimentare un uomo”. Come nelle partite di baseball che amavano fare insieme prima della malattia di Fidel, il presidente di Cuba colpisce duro la palla lanciata dal venezuelano: sebbene da diversi mesi sia stato impegnato a curarsi più che a rilasciare dichiarazioni politiche, Castro è intervenuto sul tema con un articolo ben documentato su Granma, profetizzando un vero e proprio genocidio mondiale, realizzato per via alimentare, se questi piani verranno portati avanti.

Si potrebbe giudicare tutta la storia umana dal punto di vista energetico; servirebbe anche a inserirla meglio nella storia biologica del pianeta, a sbrecciare il muro ideologico tra l’umanità e il suo contesto naturale (uno dei tanti muri — oltre ai tanti tra uomo e uomo — che proprio chi si vantava di aver abbattuto il muro di Berlino si diverte oggi a innalzare). Limitiamoci a notare che ci fu un periodo nella storia del pianeta in cui il surplus di biomassa prodotto dal mondo vegetale (che aveva appena introdotto l’innovazione epocale della corteccia) era così immenso da sfuggire alla capacità di degradazione degli organismi decompositori; tonnellate e tonnellate di vegetali morti si accumulavano in ciclopiche torbiere che non riuscivano a consumarsi e per milioni di anni sprofondarono nelle profondità della terra. In quel periodo di foreste rigogliose e paludi sconfinate, il livello del mare si era fortemente abbassato (altri tempi…) rispetto al Devoniano. Dissolvenza, milioni di anni dopo: la società umana estende le coltivazioni, aumenta la biomassa e il riuso dell’energia chimica per decine di millenni. Botola, passaggio segreto: gli idrocarburi d’avanzo prodotti trecento milioni di anni fa vengono proiettati attraverso enormi pompe di metallo fino ai secoli decimonono, ventesimo, ventunesimo; l’enorme riserva accumulata in milioni di anni viene bruciata in un soffio di poche generazioni.

La riserva avrebbe potuto essere usata come un volano: facciamoci dare una spintarella dal Carbonifero per organizzarci un attimo, mettere a posto alcuni vecchi problemi (fame, miseria, guerre, malattie, divisione in classi) e poi reggerci sulle nostre gambe (energie rinnovabili, sfruttamento razionale dell’ambiente, organizzazione democratica del lavoro e dell’assetto internazionale, superamento della dicotomia città-campagna ecc.).

Oppure, ecco un altro modo di dissipare le fortune di famiglia: dopo oltre un secolo di capitalismo trionfante e sempre più efficiente, il meccanismo si inceppa, si apre l’era buia e convulsa delle due guerre mondiali, dei crolli di Borsa, delle rivoluzioni sociali; ma inizia anche il mondo delle automobili e del petrolio, i padroni del pianeta si aggrappano alle riserve fossili, usandole sempre più intensamente quante meno ne sono rimaste a disposizione, per mantenere una crescita artificiale, pompata e drogata da una trasfusione di sangue nero (oltre che di rossissimo sangue umano), che faccia credere a tutti di assistere ancora alle danze ottimiste e positiviste dell’Ottocento. Cosa è capace di fare davvero il mercato mondiale al netto della dissipazione dissennata delle riserve fossili? La società capitalista è probabilmente niente più che un parassita della Terra da quasi cent’anni.

Il parassitismo, in fondo, è un modo di organizzare i flussi di energia che ha una sua dignità in natura; non esiste mica solo la simbiosi. Il problema è che i parassiti distruggono i propri ospiti. L’essenza del capitalismo decadente è il latifondo, una plutocrazia costruita sui campi incolti, o meglio ancora la mafia, un apparente “ostacolo allo sviluppo” ma di fatto la forma stessa di uno sviluppo parassitario. Finché c’è da mangiar qualcosa, il verme solitario se ne mangia la gran parte, ma anche il malato sopravvive; cosa succede se il malato, stremato dalla fame, smette di lavorare e non ha più di che nutrirsi? il verme può provare a divorargli l’intestino dall’interno, ma il destino di entrambi è segnato (l’unica è liberarsi della tenia, e badando bene di espellerne la testa).

In una sua frase molto cupa, Karl Marx scrisse che il capitale, lavoro morto, è come un vampiro che resta in vita solo succhiando il sangue al lavoro vivo. Il vampirismo di cui si dice qui è però un altro, che ne è il complemento e la conseguenza: il capitale è così assetato, che ha cominciato ad affondare i canini nel terreno. Se il capitalismo decadente non avrà però più nemmeno i margini di manovra datigli dalle riserve di energia fossile (che, in quanto pasto gratis, non può essere veramente sostituito in modo indolore da niente), i suoi limiti nel sostenere la vita dell’umanità emergeranno violentemente e getterano le basi per una furibonda lotta per la sopravvivenza sociale, anche nella forma estrema di una lotta per il pane (o la tortilla). Se ci sapremo liberare della tenia, quel giorno non bisognerà dimenticarsi di espellerne la testa.

Ma mentre, come al solito, si perde tempo in digressioni, Chávez è arrivato in Argentina.

L’Argentina e la partita truccata

In tutta l’America Latina si vive una messa in discussione dell’ideologia della democrazia parlamentare basata sul libero mercato. Questo vale nei periodi in cui prevale una linea politica moderata e neoliberista, durante i quali vediamo una piazza che si trova a scontrarsi più e più volte con quelli che in teoria dovrebbero essere i propri rappresentanti politici, delegittimandoli totalmente al punto da far cadere un governo dietro l’altro in sommovimenti di massa. Questo però vale anche quando, come in Bolivia, in Venezuela o in Ecuador, prende forma una politica alternativa, che acutizza lo scontro sociale spingendo la destra a utilizzare dei metodi extraparlamentari e di fatto svuotando di contenuto le istituzioni ufficiali (in genere a prescindere dalle intenzioni stesse dei governi di sinistra).

L’Argentina è un buon esempio del primo caso. Il 2001-2002 fu l’anno in cui ci furono quattro governi, perché uno dopo l’altro vennero travolti dalle lotte di piazza in seguito al collasso del sistema economico argentino. Non c’è che dire, un ottimo risultato per le ricette economiche liberiste quando nel giro di una notte milioni di persone si sono trovati senza possibilità di ritirare i propri risparmi dalla banca e con un salario reale decurtato anche della metà. Lo stallo politico creato da questa situazione infernale ha trovato come soluzione temporanea il risultato elettorale del 2003, con la vittoria del “peronista di sinistra” Nestor Kirchner. Il peronismo nelle sue molte varianti è un’altra storia tutta argentina di mutazioni genetiche, i cui ambigui effetti persistono tuttora.

Il fatto è che l’attuale governo è in qualche modo una fotografia della situazione politica e sociale di quel Paese, dove l’establishment non può ristabilire la normalità ma dove i movimenti di massa e la sinistra non riescono a imporre una propria alternativa. La non-soluzione trovata è il barcamenarsi di Kirchner, che certo non collabora con le occupazioni di fabbriche come fa il Ministero del Lavoro venezuelano, ma d’altro canto si trova costretto a conviverci in una logica di bastone e carota. L’exit strategy elaborata dal governo Kirchner rispetto al problema del debito estero è pure un elemento di contraddizione forte rispetto alle aspettative delle istituzioni finanziarie internazionali. Inoltre, le mosse incisive fatte dall’esecutivo a riguardo dei responsabili della dittatura militare stridono fastidiosamente con l’atteggiamento cedevole e vigliacco dei socialisti cileni rispetto a Pinochet e ai suoi scagnozzi.

L’Argentina è così uno degli anelli più deboli della catena, su cui si scaricano molte delle tensioni contrapposte che agitano il continente. L’andamento della prima tappa della controtournée chavista è rappresentativo di questa situazione; la delegazione venezuelana è stata ricevuta con tutti gli onori dal governo e poche ore dopo Chávez era in uno stadio a parlare in un atto pubblico organizzato dalle organizzazioni di sinistra (parecchie delle quali stanno comunque all’opposizione rispetto a Kirchner!). Chávez infatti è stato chiamato a porsi alla testa di un corteo gigantesco che si è tenuto a Buenos Aires proprio contro la gira di Bush attraverso l’America Latina.

Si noti la differenza con la sinistra nostrana: in Italia si considera scandaloso che un capopartito di sinistra esprima la propria opinione politica se è difforme con quella del capo del governo e addirittura ai suoi parlamentari si chiede di non partecipare a manifestazioni politiche (i politici di sinistra possono fare politica finché sono degli sconosciuti, quando diventano parlamentari sono stati ammessi in una casta speciale che non deve più palesare l’esistenza di opinioni individuali), per non parlare delle numerosissime “figure istituzionali” a cui è pelosamente proibito schierarsi in un dibattito politico in quanto devono incarnare un’impossibile e soffocante neutralità di Stato. Chávez invece (che è il presidente di una repubblica) regge uno striscione in un corteo nella capitale di un Paese straniero contro il capo del governo di un altro Paese straniero! Non stupisce che una sinistra di questo tipo, che appare rivoltante alla sinistra per bene che ogni giorno si fa cantar messa da La Repubblica, raccolga ben altri entusiasmi che la nostra. Perlomeno si intravede dietro le sue mosse il tentativo di giocare una partita con un obiettivo definito; il gioco a cui gioca una sinistra come quella italiana invece è 1-2-3-stella: mette la faccia contro un muro e aspetta, si gira solo dopo aver annunciato che sta per farlo e cerca di frenare chi corre troppo avanti, ma in fondo il suo destino è prestabilito, non può vincere, l’avversario anche se sarà stato un po’ rallentato arriverà sicuramente a toccare il muro.

L’Espresso (corazzata della flotta de La Repubblica) ha pubblicato una rivelatrice traduzione di un tremendo articolo di un certo Moises Naim, intitolandolo Aiuti canaglia. Una frase dell’articolo è stata messa in rilievo dal redattore: “Stati come Cina, Iran e Venezuela vogliono trasformare il mondo in un posto più assolutistico e corrotto”. Questo articolo cerca di dimostrare (ma fornisce esempi concreti solo riguardo alla Cina e all’Iran) che ci sono gli aiuti allo sviluppo buoni, fatti dai Paesi democratici occidentali sotto l’occhio vigile della Banca Mondiale, e ci sono gli “aiuti canaglia” fatti dagli Stati canaglia a qualche derelitto Paese di straccioni per i loro canaglieschi scopi geopolitici. Per quel che riguarda il Venezuela, l’accusa è di fare una politica estera con lo scopo di scompigliare la scacchiera internazionale, una cosa che si presume possano fare solo i Paesi per bene del Nord America e dell’Europa Occidentale, il Giappone e l’Australia. È sempre la stessa logica: si vorrebbe che la sinistra giocasse solo in difesa, come in 1-2-3-stella; si vorrebbe che la partita continuasse a essere sempre truccata.

(…CONTINUA…)