Il discorso sarà lungo, perciò è bene richiamarne la premessa concreta, che coincide con il finale. A Milano, dal 3 al 5 maggio, alla storica Palazzina Liberty, si tiene un festival di cultura che ruota intorno alla letteratura: scrittori che leggono inediti, cineasti e storici e docenti universitari e giornalisti che discutono di temi fondamentali del nostro tempo. Si chiama OFFICINA ITALIA, questa tre giorni che spacca l’inedia del panorama culturale milanese, e la specificità non risiede soltanto nell’altissima qualità degli interventi, ma soprattutto nell’organizzazione: due scrittori, due intellettuali, entrambi nati nel ’69, hanno mobilitato forze che, dai tempi di Alfabeta non si ravvisavano operare in questa specie di Baskerville col Duomo. Sono Antonio Scurati, vincitore del Campiello due anni fa e ormai conosciutissimo opinionista (vedremo poi di che tipo), e Alessandro Bertante, romanziere con un fondamentale saggio in uscita, un testo che farà discutere perché mette a nudo le contraddizioni della generazione al potere, quella che esce dal ’68 e lo usa come scudo per i motivi opposti a quelli della contestazione. Grazie a Scurati e Bertante, Milano vede una breccia nel suo cielo cupo: OFFICINA ITALIA è di fatto l’occasione maggiore capitata in questi ultimi anni per riprendere un discorso interrotto e suturare un tessuto sconnesso.
Sia chiaro: non intendo compiere un discorso locale. C’è una dinamica, ormai più che secolare, che si avvicina allo statuto di una legge della storia italiana: quello che càpita a Milano, nel giro di pochi anni càpita a tutta Italia. Se da anni si va constatando, con sufficienti prove nemmeno indiziarie, il crollo di una società culturale milanese e la destrutturazione di un sistema che faceva cultura globale, sarà il caso di osservare cosa sia successo in Italia a seguito di questa decadenza. E se Scurati e Bertante invertono la marcia di una città, affannandosi contro le inerzie delle macchine istituzionali e riuscendo a rimediare sponsor e sede prestigiosa per allestire un programma altrettanto prestigioso, sarà il caso di ipotizzare cosa ne possa uscire, quali siano i differenziali per cui faccio di OFFICINA ITALIA un discrimine storico, non soltanto per la città in cui ho vissuto e vivo, ma direi per il Paese tutto, che attualmente sembra quello di Alice: sta al di là di uno specchio.
1. Un sistema organico di cultura: Milano capitale morale d’Italia
Bisogna risalire al sindaco Greppi all’indomani della Liberazione? Ricordare che enunciò che Milano aveva bisogno di “pane e cultura”? Di quale cultura si stava parlando? Non sarà necessario. Bisogna invece riprendere le file dalla stagione di Strehler, di Grassi, di Feltrinelli, di Sereni, di Rizzoli, della sede Rai di Milano, di Mattioli, di Mattei: tra i Cinquanta e i Settanta c’è un capitale che investe in cultura e lo fa eleggendo i propri protagonisti, che restituiscono poi (interessi compresi) tutto quanto la città ha dato loro. Imprenditoria illuminata: un vanto per la capitale morale d’Italia, nella cui Università insegna gente come Dal Pra, Geymonat, Paci, e dove la Fondazione Corrente fornisce un flusso di dibattito artistico e filosofico continuo al pari della Casa della Cultura, con Musatti e Spinella a propalare un modello di visione del mondo che è quello psicoanalitico, in momenti in cui la resistenza è potente e l’interiore rischierebbe lo sfascio di fronte all’operosità capitalista, se non ci fosse un contrappeso che dà la misura e contiene le dinamiche finanziarie in un binario umano. Nel 1963 viene messa in scena la Vita di Galileo di Bertolt Brecht per la regia di Strehler, e a fine spettacolo (tutto esaurito) sono proprio Strehler e Geymonat a intavolare un pubblico dialogo, altissimo e memorabile, a cui assiste il giovane Giulio Giorello (ma anche il giovane padre del sottoscritto, che si beve come miele la cronaca di quel leggendario incontro). Sempre giovani, Umberto Eco e Antonio Porta passano di centro sociale in centro sociale (i centri sociali di zona erano locali in cui si praticavano teatro, letteratura, musica e arti, autorganizzati grazie all’opera di volontariato e milizia culturale di certi abitanti della zona stessa). La stagione d’oro dell’editoria, con le sue dinamiche interne fatte di meschineria e piccineria e cattiveria esattamente come oggi, sintetizza l’incontro tra capitalismo illuminato e cultura: Rizzoli popolarizza la letteratura con la BUR, ed è un boom devastante; Mondadori lancia gli Oscar e i classici, indistintamente, raggiungono le case di chiunque, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza. Melotti, Fontana e il gruppo milanese rinnovano i protocolli delle arti plastiche. Le officine Falck sterminano operai, come Breda o Alfa: non è che si stia tracciando il ritratto edenico di una terra del Bengodi – le contraddizioni ci sono, sono evidenti e infatti esplodono.
Dal ’68 in poi, con la stagione plumbea che a Milano è meno colorata e apparentemente meno inventiva di altre, la cultura diffusa non viene meno. Lo sperimentalismo nasce qui. Proprio alla Palazzina Liberty, nel frattempo occupata da Dario Fo e dalla sua compagnia, gli Area di Demetrio Stratos invitano John Cage e la cooperativa Intrapresa di Gianni Sassi inizia a mulinare il suo lavoro di esapansione di un’avanguardia che non è storica, perché va davvero al buio, fino a partorire, in tempi in cui dello slow food non fregava niente a nessuno, La Gola, e Alfabeta, e le riunioni a cui partecipavano da Leonetti a Formenti allo stesso Antonio Porta, fino a MilanoPoesia, autentico motore culturale della città che sta cambiando, che già da anni lascia intravvedere un sordido destino.
Siamo alle soglie del crollo e non basta osservarlo: bisogna capire cosa accade dopo il crollo.
2. Il crollo: Milano capitale immorale d’Italia
Il crollo è dovuto a una connessione perversa tra il capitale e la politica di Milano. Quando si parla di politica milanese viene convocata un’espressione che, apparentemente topica e marginalizzata ai tempi, ha un tale successo nei trent’annni successivi, da partorire oggi quello che ha preso il nome di Partito Democratico. L’espressione chiamata in causa è “laboratorio migliorista”: il peggio del compromesso tra comunisti riformisti dell’ala destra, il socialismo craxiano e pillitteriano, e settori della Dc. E’ grazie a questa connessione politica se il capitale è in grado di evolversi verso ciò che un antico amico chiamò “teratocapitalismo”: un capitalismo mostruoso, modificato nemmeno geneticamente, perché in questa fase mostra il fenotipo del suo genoma autentico. Tutto accade contemporaneamente: concresce il brodo di coltura della sottocultura berlusconiana, si sperimentano le arditezze più oscure e deflagranti di una finanza che si sgancia dalla produzione reale, si dismettono realtà industriali lasciando a casa migliaia di operai, ci si lancia nell’ebbrezza del fragilissimo terziario avanzato, si passa (nell’85) alla pratica delle collaborazioni coordinate continuative e quindi del precariato, si teratomorfizza anche l’editoria con l’espulsione degli intellettuali dai corpi delle case editrici mediante consulenza e si abbandona la politica del “doppio binario” (il bestseller finanzia la raccolta di poesie), si chiudono i battenti produttivi della sede milanese della Rai… Il resto viene da sé, è politica nazionale. O internazionale: cade il Muro e il collasso del sistema partitico ha inizio a Milano, Gardini (l’uomo della finanza finanziarizzata per eccellenza, “il Pirata”) si uccide a Milano, la “nuova politica” riparte da Milano, il craxismo va a destra e nel frattempo esorbita e contamina la sinistra, Cuccia e la sua cosca che tiene le file del capitalismo familistico italiano muore e Mediobanca diviene una banca…
E la cultura? L’altra sera, a una cena d’élite editoriale in quel di Bologna, mi sono trovato accanto a una sorta di defensor fidei feltrinelliana, una donna che ne ha viste e vissute a Milano: ha vissuto esattamente la stagione d’oro e la stagione di piombo e poi questa stagione di Big Babol. Per lei, ultrasessantenne, non c’è nulla di cui scandalizzarsi: semplicemente, ai privati non interessa più investire in cultura. Così, dopo la scomparsa di Antonio Porta (nello stesso anno della scomparsa del Muro di Berlino), Milano diventa un fenomeno estetico, di flattanza estetica: moda, immagine, grafica, pubblicità e poi pr, counseling e bolla Web. L’attempata interlocutrice inneggiava alla globalizzazione: i giovani vanno a lavorare a Parigi, a New York, è bello, Milano dopotutto è più piccola di Lione… E’ che a lavorarae a Goldman&Sachs all’estero ci vanno quelli ricchi, mentre il tessuto sociale è lasciato senza chance alternative. Per la feltrinelliana de fero, però, il tessuto milanese è essenzialmente brianzolo, cioè privo di attrazione per il valore della cultura – e figurarsi della letteratura.
L’analisi fornita dalla matura signora è completamente sballata. I suoi giovani “creativi” che girano per le capitali del mondo, con tanto di laurea in economia o master in design, certificano un’omologazione delle classi alte, che nemmeno sono più tali: ormai sono caste. Sia chiaro: oggi la lotta di classe è trasformata in lotta di casta. I paria, però, non sono affatto brianzoli. Vada, chi sostiene questa sprezzante menzogna verso il popolo minuto, a fare una lettura o una presentazione in periferia: poi ne parliamo (reading strapieni, lo scrittore che si stupisce perché viene rispettato in quanto scrittore, domande che nelle librerie Feltrinelli non provengono dal pubblico raggelato e che invece a Lorenteggio fioriscono a decine). L’atteggiamento di questa generazione che ha vissuto tutto l’arco della vita culturale ed economica milanese è l’emblema del crollo stesso. Peccato che, quelle parole, vengano pronunciate in un salotto d’élite e che la generazione emergente sia messa in condizioni di mendicare una legittimazione all’esistenza da un blocco generazionale che, ormai, se ne strafotte dei processi di cambiamento epocale, che non si riducono certo all’aumento del precariato, ma hanno un sintomo evidente nel boom psicofarmacologico, che ha cause molto più complesse. Ammesso, ormai, che la generazione emergente chieda legittimazione: è dimostrato, grazie alla rete innanzitutto e quindi a quel che ne segue, che la legittimazione non è un problema: chi ragiona, scrive, pensa profondamente, indaga e divulga c’è. I salotti non conoscono nulla di una simile realtà, che ha costituito un infernale underground di solitudine per i propri protagonisti e adesso emerge in overground. Saltano le liste di parquet.
3. Specificità di OFFICINA ITALIA: Milano sblocca il blocco generazionale.
Intanto Berlusconi non è Berlusconi: è Veltroni, è tutto il Partito Democratico, è il moccismo, è il gigantismo dell’evento a scapito della qualità dell’evento, è il gossip atmosferico, è il tabloid che deve avere i colori e anche gli errori di sintassi, è l’urlo di Pappalardo, è la meccanica con cui si pensa al format tv. E’ la scomparsa dell’intellettuale a tutto tondo. E’ la flatulenza di un sistema in chiara necrosi intestinale, che non si è nutrito e quindi espelle solo aria. Questo sistema non si è nutrito perché non ha nutrito. Una sorta di disneyzzazione forzata, di cui il Festival della letteratura di Mantova mi pare il simbolo più maturo, equipara verso l’alto, verso successi clamorosi quanto difficilmente ripetibili, nomi facce corpi – ma non idee. Da anni le idee circolano tra due, tre, dieci individui al massimo, confinati negli specifici delle loro discipline, facendo una fatica inenarrabile a spaccare le barriere, a fottersene delle legittimazioni altrui. L’Italia ha realizzato in grande stile la germinazione batterica che venticinque anni fa aveva il suo brodo primordiale proprio a Milano. L’esperienza di una partecipazione a un festival internazionale di prestigio, come quello del Cinema a Venezia, è stata rivelatrice per lo scrivente: l’Italia, semplicemente, non esiste, non c’è. Sia trovato un regista italiano che sappia affrontare temi profondi dalla prospettiva filosofica, da quella macro e microfisica, da quella neuroscientifica, da quella geopolitica, da quella teologica, da quella storica, essendosi formato su testi internazionalmente riconosciuti: semplicemente non c’è. C’è il regista, che però non è un intellettuale. E questo, a parte poche e luminosissime eccezioni, vale anche per le altre discipline, culturali e scientifiche. Uno dei massimi esperti italiani di sistema immunitario non è in grado di connettere le sue competenze con quelle neopsicologiche: e dovrebbe, perché l’epoca della complessità lo richiede. Quanto agli intellettuali, questo sarebbe l’abc.
Dunque ecco la specificità di OFFICINA ITALIA e l’idea che si tratti di un discrimine storico da cui possono aprirsi nuove possibilità (ma, questo, lo dirà il futuro): due scrittori, Scurati e Bertante, che sono al tempo stesso intellettuali, perché oltre che della tradizione letteraria sanno di semiotica e di storia e di comunicazione e di filosofia e di sociologia (si tenga conto di questo quando si osserva lo Scurati opinionista), riescono a spingere le istituzioni a organizzare una manifestazione in cui il discorso sia motivatamente alto, sia a tutto tondo. Non è che Luciano Canfora conosca solo la storia greco-latina. Non è che Lucarelli sappia solo di Scerbanenco. Piperno non è che sia la scimmia di Roth, e chi lo pensa vada a leggersi il suo saggio (di prossima uscita) su Baudelaire e Proust. Ho fatto volutamente tre nomi non milanesi, per sottolineare la disposizione alla convocazione in Milano, che non coincide con il vieto stereotipo di “Milano città ospitale” (recentemente Giulio Giorello raccomandava una visita in via Corelli, al “centro d’ospitalità” per immigrati, al fine di verificare come il linguaggio sia stato disgregato e riconfigurato secondo strategie alienative). A Milano si viene, si torna a venire per una tre giorni che è alta nella discussione dei temi, gli scrittori sono vincolati a leggere un inedito (il che non avviene in altre occasioni), i partecipanti del pubblico non sono spettatori e sono chiamati ad ascoltare cose che non corrispondono a un video di Tiziano Ferro né si trovano di fronte Braz parlanti – bamboleggianti, letteralmente.
Non serviva organizzare un megaevento di una settimana e passa, con premi Pulitzer, per discutere su cosa sta accadendo al reportage e al suo bruciante contatto con la letteratura. Non serviva David Lynch per discutere di rapporti tra cinema, arti visive e letteratura. E non serviva il compianto Joachim Fest per affrontare il tema del revisionismo (un revisionismo che si è allargato a ogni attività di ripensamento del passato, come recita la tesi del dibattito, definendo la nostra epoca “età del revisionismo”). Serviva il giusto necessario per rimettere in moto la discussione, per sfidare chi guarda dall’esterno a constatare una scommessa che si fa, tutti insieme: cioè che molte persone sono interessate a questo genere di proposta. Poiché siano chiare due cose: chi è stato invitato condivide in toto l’impostazione coraggiosa che Scurati e Bertante hanno dato alla manifestazione, e sente che è il tempo è vicino per un salto, anagrafico e culturale e geografico; e chi guarda da fuori, cioè quel capitalismo che una volta fu a Milano “illuminato”, dovrebbe tornare a dotarsi di tungsteno per fare esprimere i watt di una città che si è spenta.
4. Le possibilità
Viene convocato un network che non lo sembra, poichè il network è sostituito da un primato, conferito a una sensazione del tempo che si vive, senza che questa sensazione sia etichettata in poetiche necessariamente comuni o in percorsi esistenziali coincidenti. A Massenzio non càpita, a Mantova non càpita, alla Milanesiana non càpita. Se in tre giorni risorse il Cristo, con tre giorni si può risorgere. Il resto è apostolato.
Questo apostolato è difforme dai precedenti apostolati culturali. Non si può ringraziare tanto e lasciare soli Scurati e Bertante: bisogna sostenere la cosa che hanno offerto a tutti, come dono – bisogna ridare il dono.
La sfida sulla terapia alla città che si auspica va esportata in tutta Italia, ma se è cominciata davvero, è cominciata a Milano e a Milano va potenziata. E’ un involontario simbolo del paradosso che Scurati e Bertante mettono a nudo con OFFICINA ITALIA il fatto che, a cinquanta metri dalla Palazzina Liberty, siano ferme le ruspe che dovevano procedere alla costruzione della Biblioteca Europea milanese, ferma per mancanza di fondi, e che doveva emulare le gigantesche quattro torri parigine della biblioteca Mitterrand. Questo paradosso va sciolto e non è giusto chiedere all’intellettuale di scioglierlo praticamente. Bisogna che istituzioni e privati ci mettano del loro. A Milano operano: Rizzoli (con Bompiani, Fabbri, etc.) col Corriere della Sera, Mondadori con annessi e connessi, il gruppo Condé Nast, Feltrinelli con la sua Fondazione, Adelphi, il Gruppo Saggiatore, Baldini Castoldi Dalai con tanto di corollario, il gruppo Longanesi (il che significa anche Guanda e Ponte alle Grazie), uno tsunami di piccola editoria, società che fanno free press, l’azienda istituzionale più grande d’Italia (che è il Comune) e la maggior parte del capitale bancario e finanziario e imprenditoriale, la sede Rai, tutta Mediaset, oltre che Università Statale, Bicocca, Bocconi e IULM. La proposta è che, convocati da intellettuali, questi soggetti formino un organismo preposto non a creare un osservatorio, bensì a rendere stabile una politica culturale che, da Milano, con uno stile ben preciso che Scurati e Bertante hanno lucidamente individuato, è matematico che si riverserà sul tessuto sociale, muovendo ingranaggi che sono arrugginiti da tanto tempo. Siamo noi intellettuali a dovere impartire questa elementare lezione di mercato? Questo è sempre stato il modello Milano, che ha bilanciato frivolezze e tendenze alla mimesi stravolta poi nel resto del Paese. E’ sul modello Milano che i soggetti che fanno Milano devono intervenire: devono dare risorse e possibilità.
Se questo non accadrà, sarà un peccato – ma non è che l’intellettuale non abbia potenza per smuovere da solo, pur con immensa fatica, comunità intere, come dimostra il lavoro culturale compiuto in Rete in questi anni da poche persone e allargatosi a dismisura. Si darà fondo alle energie residue. Però bisogna stare attenti ad avere in casa l’intellettuale che verga il libro nero o si mette contro. Quando Burroughs diceva: “Lo scrittore è potente. Pensate a quanti jeans ha fatto vendere Kerouac”, il vecchio Bill ineriva ironicamente a ben altro tipo di potenza. OFFICINA ITALIA, credo, grazie ad Antonio Scurati e Alessandro Bertante, ribadisce che quel genere di potenza al momento è solo occasionalmente latente. E’ a un bivio: o esplode o rimane ancora latente. Ciò non toglie che possa passare all’atto nel momento più imprevisto.