di Alessandra Daniele
Sembra cominciare come una semplice influenza l’apocalittica pandemia che sterminerà l’umanità, trasformando i superstiti in zombie, e vampiri, nel capolavoro più celebrato di Richard Matheson Io sono leggenda (“I am legend”, 1954). Ancora ignari dell’entità del pericolo, il protagonista e la moglie ne discutono a colazione durante la routine di quella che credono una mattina qualunque, in un flashback che è un esempio perfetto dell’arte di Matheson dell’evocare l’orrore più profondo e disperante in agguato dietro la fragile facciata del quotidiano. Quella cucina così simile alla nostra è già l’anticamera dell’inferno, l’amata moglie di Neville si trasformerà presto in uno zombie insieme a milioni di altri, lasciandolo unico sopravvissuto dell’estinta razza umana, tormentato interiormente quanto assediato dall’esterno, e per il quale è l’orrore a essere diventato routine quotidiana.
Fin dal suo straordinaro racconto d’esordio, Nato di uomo e donna (“Born of Man and Woman” , 1950) l’innovativa e potentissima cifra distintiva di Matheson è abbandonare cripte, castelli e ogni cascame goticheggiante, per individuare invece con stile scarno e tagliente l’orrore indicibile nascosto dietro le porte serrate delle semplici villette unifamiliari, o tra le ombre degli anonimi appartamenti di città, cioè proprio alle nostre spalle. “Attenti, siete nelle mani di uno scrittore che non concede pietà” avverte Stephen King, a proposito di Richard Matheson, riconoscendolo come il suo principale maestro.
Infatti, come difficilmente i suoi protagonisti hanno scampo una volta raggiunti dalla loro nemesi, altrettanto implacabile e ineludibile è l’angoscia primaria che la sua narrativa è in grado di trasfondere ai lettori. Leggere Matheson significa ritrovarsi a guardare il più familiare degli angoli di casa sapendo che proprio lì potrebbe nascondersi qualcosa. Venuto per prendere noi. O tutta l’umanità. E avere come ulteriore elemento di inquietudine la consapevolezza che potremmo aver fatto qualcosa per meritarci l’oscura fine che ci aspetta, magari solo un piccolo gesto, ma espressione d’un male interiore che in realtà già ci mina dalle fondamenta. Come la rabbiosa frustrazione del protagonista de La casa impazzita (“Mad house”, 1952) che la sua abitazione “assorbirà” per ritorcergliela contro, trasformandosi in una sadica trappola mortale; o come l’ipocrisia del marito infedele di Eliminazione lenta (“Disappearing act”, 1953) che gli costerà la progressiva sparizione prima di quella parte della sua doppia vita che negava mentendo, e poi della sua intera esistenza, inesorabilmente inghiottita dal nulla.
Lo stesso annientamento fisico e metaforico che minaccia il protagonista del romanzo Tre millimetri al giorno (“The incredible shrinking man”, 1956), condannato a rimpicciolire progressivamente, fino a scoprire con terrore – in un inquietante rispecchiarsi di macrocosmo e microcosmo – l’inferno nascosto in ogni granello di polvere. Lo stesso terrore inflitto al medium inconsapevole di Io sono Helen Driscoll (“A stir of echoes”, 1958) costretto a percepire e rivivere l’agonia della vittima d’un crimine terribile, e ancora una volta celato dietro il sipario della normalità.
Letteratura fantastica senza etichette, testi perfetti che sono già anche perfette sceneggiature. Richard Matheson diventa infatti l’anima principale di uno dei più grandi cult serial di tutti i tempi: Ai confini della realtà, “The Twilight Zone”, che farà scuola in tutti i campi della comunicazione impostando le coordinate del gotico moderno. Successivamente la narrativa di Matheson approda anche al cinema, con varie trasposizioni di Io sono leggenda, una struggente con Vincent Price, L’ultimo uomo della terra (Italia, 1964), una urban-cristologica con Charlton Heston, 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra (“The Omega man”, 1971) nonché l’implicitamente ispirato La notte dei morti viventi (“Night of the living dead”, 1968) con tutta l’epopea zombie che ne è derivata.
Il racconto La preda (“Prey”, 1969) diventa l’episodio Amelie della Trilogia del terrore (“Trilogy of Terror”, 1975) mantenendo intatta la sua forza d’impatto grazie anche all’interpretazione d’una stupenda Karen Black, mentre il tv-movie tratto dal racconto Duel (1971) segna il debutto alla regia di Steven Spielberg. Echi Mortali (“Stir of echos”, 1999) da Io sono Helen Driscoll rilancia il thriller soprannaturale, e i visionari aldilà soggettivi di Al di là dei sogni (“What dreams may come”, 1978) si guadagnano l’Oscar 1999 per gli effetti speciali.
La collaborazione di Matheson con tv e cinema non si limita però alla trasposizione dei suoi lavori letterari: oltre alle sceneggiature originali per film ed episodi di svariate altre serie di culto come Star Trek (TOS), e Alfred Hitchcock presenta, nei primi anni ’60 firma una rilettura sarcastico-psichedelica dei classici di Edgar Allan Poe (con un tocco di Lovecraft) per la fiammeggiante regia di Roger Corman, e la magistrale interpretazione di Vincent Price.
Ritrovandosi proprio fra quelle quinte gotico-ottocentesche dalle quali aveva liberato la narrazione horror, Matheson stavolta le decostruisce esasperandone beffardamente le caratteristiche più teatrali, finché la cartapesta non si sgrana – tra sbavate e fluorescenti colorizzazioni alla Andy Wharol – svelando l’autentica fonte dell’orrore in tutta la sua primaria brutalità.
Oggi Matheson si diverte a spaziare un po’ in tutti i campi della sceneggiatura e della letteratura cosiddette “di genere”, thriller, mistery, western, ghost story, ma senza mai abbandonare quel fantastico (“Come figures, come shadows”, 1970 racconto – 2003 romanzo) che da maestro ha saputo rendere tanto difficile da definire, quanto impossibile da dimenticare.