di Danilo Arona
La vita segreta delle parole
Devo ringraziare un’amica, Chiara Bordoni, finissima scrittrice e illustratrice, per quel che ha scritto di un mio libro che s’intitola Black Magic Woman. Il farlo in questa rubrica non è fine a se stesso. Perché nelle “Cronache di Bassavilla” quasi sempre parliamo d’altro, anzi d’Altro. Per dare un senso a quest’interazione con Chiara, sono costretto a riportare il suo pensiero. Credetemi (e se non mi credete, pazienza), non lo faccio per comunicare al mondo quanto sono bravo. Seguiteci e tenterò di farmi capire.
La parola a Chiara.
Pakistan: test per nuovo missile; Catania: strangolata e chiusa in una valigia; Lettonia: rogo in ospizio, 26 morti; Cina: tigre uccide bambina in uno zoo; ucciso con ascia e sega nel catanese; bambino di 6 mesi accoltellato dalla madre. Nessuno, e dico nessuno, ha mai pensato che tra tutti questi eventi ci fosse un nesso, un filo nero non ancora giunto al termine. O meglio, uno c’è. La linea nera è stata seguita, passo passo, da una tenace linea blu inchiostro. Frutto di una folle intuizione, forse Danilo Arona ha colto l’oltre/altro da noi e dal mondo, ha ascoltato quello che la terra può dire e ce l’ha raccontato. A modo suo.
Il primo che lessi di Danilo Arona, La Stazione del Dio del Suono, mi aveva lasciato orfana di emozioni: sapevo che c’era qualcosa che non ero stata in grado di cogliere. Poi mi sono scontrata (non in ordine) con Palo Mayombe, e allora sì che il mio piede è finito in una oscura melma. Lì si sentiva forte e chiara la puzza di un aldilà sulfureo e minaccioso, che in questo suo nuovo lavoro ha prepotentemente strappato il velo della realtà. In Black Magic Woman tutto comincia ad avere un senso, il confine tra realtà e fantasia non è più così netto. Uno scritto che induce violentemente a filtrare il reale con il senso che suggerisce il suo autore, non è fine a se stesso.
Credo. Certo, non è un trattato di ontologia metafisica, ma non è poi così estraneo a una visione della realtà alternativa: dà una spiegazione, una tra le tante plausibili; la offre a chi è disposto ad aprire gli occhi e la mente, a chi è disposto ad ascoltare.
Grazie, Chiara. Il fatto è che – con le tua lettura in assoluta profondità – sei tu che apri gli occhi a me. In realtà, quando uno ne scrive, non ci pensa su tanto. Libera le viscere, inseguendo la “folle intuizione” sul fatto che troppe cose, se non tutte in questo mostruoso pianeta vivente, siano collegate. Che so, ad esempio che il surriscaldamento del pianeta c’entri – e come – con il massacro di Erba. La sfida implicita, nel tentativo di decifrazione della linea nera, dovrebbe essere quella di evidenziare scientificamente la natura del confine. Sì, perché tu ci becchi proprio e magari, senza saperlo, colpisci dritto nel cuore dell’irrisolto problema quando evidenzi che la realtà possiede un “velo” e che la terra (la Terra) ci sta raccontando da un sacco di tempo, inascoltata, di quello che si trova al di là. Di quello che ogni tanto alcuni – una minoranza di cui tu e io magari facciamo inconsapevolmente parte – percepiscono al di qua senza capire bene la sostanza della visione. Dalle allucinazioni telecomandate dell’11 settembre 2001 a una realtà sociale sempre più distorta, ricca com’è di ab-normal beauty.
Non siamo soli, come ho detto. E per fortuna, vorrei aggiungere. Anche perché la compagnia è delle migliori che si possano immaginare. Ecco quel che scrive Tullio Avoledo, uno scrittore che non ha bisogno di presentazioni sulla seconda di copertina del libro di Valter Binaghi I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano (Sironi Editore), opera che vi consiglio spassionatamente se solo condividete un po’ con me la visione “bassavilliana” della vita e sulla quale tornerò presto in modo circostanziato.
Nel 2006 ho scoperto di avere un fratello gemello. A rivelarmelo è stata una lettera di Valter Binaghi, uno scrittore che non conoscevo, nato come me nel 1957. Dopo avere letto Lo stato dell’unione mi mandava un suo romanzo, dicendo che pensava potesse piacermi. Quando l’ho letto ho capito perché. Era come leggere un altro me stesso. E non era solo questione di stile: di dialoghi, per dire, o di ritmo. Era anche questo, ma c’era qualcosa di più profondo. Era il fatto che Valter e io, come Abraham Van Helsing, siamo rabdomanti del Male. Il Male che è nel mondo e che solo a volte emerge, squarciando clamorosamente il silenzio, dalle pagine dei quotidiani o sugli schermi televisivi, mentre di solito è un fiume sommerso di cui percepiamo però il rumore sotterraneo, le vibrazioni. Il Male che può annidarsi in un condominio o in una banca, in un libro dimenticato o nel codice sorgente di un videogame: insomma, in uno dei tanti mondi alieni nascosti in questa terra, in questo tempo che ci ostiniamo a credere normali.
“Rabdomanti del Male” è un’immagine potente che, con il permesso di Tullio e Valter, ruberei per individuare il bandolo della matassa attorno al quale le parole corrono il rischio di avvitarsi e implodere. Un’immagine che in primo luogo ci permette di scoprire chi siamo, noi – oscuri o famosi, in ogni caso compagni di percorso – che condividiamo invisibili antenne in grado di captare intermittenti frequenze maligne dai “mondi alieni” definiti da Avoledo. Non siamo pochi e, guarda caso, come personaggi usciti dalla mente di un Lovecraft contemporaneo, siamo quelli che seguono la realtà e i suoi segni con un occhio e un orecchio diverso. E in questo Avoledo fornisce il senso, la “vita segreta della parola” quando scrive che il Male emerge dalle pagine dei quotidiani o, alla Matheson di Su dai canali, dagli schermi televisivi. Sta proprio qui la folle intuizione che forse percepiamo tutti noi, quelli delle antenne. E forse è la cronaca stessa che sta diventando un trattato di ontologia metafisica.
Sono stato spesso accusato, bonariamente, di sfruttare nei miei plot degli elementi desunti da autentici fatti di cronaca. Ho sempre risposto, scherzando, che non ho tanta immaginazione da riuscire a imitare la realtà. Qui il genere letterario cui sovente mi si associa, l’horror, non c’entra proprio per nulla. Qui c’entra un reale “dispercepito” le cui distorsioni sono ormai predigerite dalla gente come il panino che si consuma al bar intorno all’una del pomeriggio. Come spiegare la normalità percettiva di qualche centinaio di morti dilaniati al giorno, in diretta da quell’altro mondo che si chiama Iraq, stretti fra una sfilata di moda e le crociate oscurantiste della CEI? L’autentica “vita segreta delle parole” sta, forse, nell’ipotesi che sia questa “realtà” ormai a guardare noi, e non il contrario, come dovrebbe essere.
Vi fornirò un esempio, folle e non proprio corretto, di dove potrebbe andare a parare un discorso del genere. Negli ultimi tempi ho “indagato” su una zona abbastanza precisa dell’autostrada A21, il tratto di percorso che va dal casello di Casteggio a quello di Broni, una dozzina di chilometri all’interno dei quali da anni fioccano le testimonianze su quei fenomeni classificati all’americana come Spooky Highway Lights. Sono stati in tanti nel 2006 ad avermi segnalato, soprattutto dopo avere letto le Cronache di Bassavilla (il libro), che in certe notti l’autostrada sembra diventare viva, con delle “cose” spettrali fuoriuscenti dal buio, facce e figure appena abbozzate che sembrano venire incontro alla macchina dalla nebbia o dalla penombra. A volte si manifestano come ombre umane, persone che non appartengono alla nostra epoca, a volte sono facce fluttuanti, quasi una trasmissione involontaria di immagini che provengono da sintonie sbagliate. Qualche automobilista si è pure fermato, tentando di rendersi conto. Chi è sceso, si è sentito sfiorare da bavose ragnatele con un concerto condiviso di sibili e suoni ancora una volta distorti, fuori sintonia. E l’occhio ha faticato a mettere a fuoco quelli che potremmo definire comne ologrammi, sembianze che si sgranano al centro strada mentre un automezzo, magari, ci passa attraverso. Come se gli atomi di queste trasmissioni, quelle che giungono da “oltre il velo”, si disgregassero. Una mia amica di nome Lorenza, il 13 settembre del 2002, ha fermato la macchina in corsia d’emergenza e ha visto, appena scesa, “un morbido tocco di luce sfiorarle il braccio, una cosa giallastra che poi si è gradualmente trasformata in una gigantesca, pelosa, zampa di ragno”. Era notte. Lorenza non si trovava da sola in auto. Sono scappati in tre, con una sgommata furibonda.
Mentre stavo appunto tentando di dare corpo alle varie suggestioni e ai tanti brandelli d’informazioni, mi è giunta la seguente notizia dalla mailing list di RadioGold, emittente locale della provincia di Alessandria. Più o meno a fine marzo, ma le date precise non rivestono in questo contesto alcuna importanza.
Girandola di incidenti ieri in provincia. Sulla A21, nei pressi di casteggio Broni, una ragazza ha perso la vita probabilmente per un colpo di sonno mentre era alla guida di una Rover 200. Il mezzo ha superato il guard-rail ed è terminato in un campo. Melissa Frigoni, questo il suo nome, abitava nel piacentino, ma aveva residenza a Scaldasole. Aveva 23 anni.
Si chiamava Melissa, pure lei, e non l’ho inventata. Peraltro neppure quell’altra l’avevo inventata. E la sensazione che, oltre quel velo, ci sia qualcosa che ci guarda e nel contempo ci odia, giocando con noi e con le nostre antenne, dilaga, tentando di darsi una forma sempre più concreta. Come mi raccontò un giorno Quirino (Principe, sublimatosi poi in Calderone in un paio di miei romanzi), “come se attorno a noi, nel cosmo, siano presenti realtà spaventose, rispetto alle quali noi non siamo altro che incidenti che tentano invano di razionalizzare quel che è irrazionale per definizione.”
Rabdomanti del Male: in quanti siamo? Chi siamo? Quirino, Genna, Avoledo e Binaghi, Antonella Beccaria e Chiara Bordoni, Gian Maria Panizza… Chi ci vuole stare in quest’elenco? Chi non vuole farne parte?
Ecco, oggi forse ho esagerato. E adesso mi tocca aspettare le reazioni dell’Altro. O dell’Altra.