di Girolamo De Michele
1. IL DIO NASCOSTO DI ROBERTA DE MONTICELLI
Se due delle menti più lucide del momento – il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e la filosofa Roberta De Monticelli [a destra] – prendono posizione nella battaglia delle idee sui rapporti tra fede, ragione e relativismo, vuol dire che non è questione da prendere sotto gamba. Può darsi, allora, che queste voci aiutino a comprendere la gravità e l’ampiezza del tema: la difesa della laicità dello Stato. Dopo aver richiamato alla fermezza i governanti – «ci sono questioni sulle quali anche da parte di uno Stato democratico dovrebbero essere detti dei non possumus [qui], Zagrebelsky ha indicato la democrazia – «quell’unico regime che dà spazio e riconosce a tutti la possibilità di potere» – come luogo di ricerca di un’intesa tra i diversi possumus delle parti.
A fronte del sottile tentativo di delegittimazione della democrazia operato dagli editorialisti dell’Avvenire (D’Agostino e Possenti in particolare), che coinciderebbe con la dittatura della maggioranza ove non fondasse i propri principi sui valori cristiani, Zagrebelsky [a sinistra] ricorda che il relativismo per le istituzioni è una virtù: «dire a una persona “tu sei un relativista”, significa qualcosa di molto simile al dirgli “tu sei un nichilista, tu non credi in nulla”. Ma dire che le istituzioni democratiche devono essere relativiste significa che devono sostanzialmente rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano espandersi» (Laicità. Pericolosi non possumus, riprodotto qui). Siamo all’opposto della tesi, logicamente insussistente, della tirannia del relativismo: è chiaro che Zagrebelsky riconosce alla democrazia la possibilità di rintracciare (come direbbe Robert Nozik) valori non soggetti al principio di maggioranza attraverso l’uso della ragione. In che modo ciò è possibile, all’interno di un possibile incontro tra credenti e laici? È ciò che prova per altre vie ad argomentare De Monticelli nel suo Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani (Baldini Castoldi Dalai, 2007). Un libro che, seguendo il precedente Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, persegue, con voce pacata ma ferma e precisa – «come si fa a parlare del bene e del male, e in generale delle cose dell’anima, se non con la più inesauribile aspirazione alla precisione?» – il tentativo di distinguere fede e ragione come due ambiti complementari, ciascuno dei quali libero senza per questo pretendere di signoreggiare sull’altro. De Monticelli affronta molti temi, e meriterebbe una discussione ben più ampia di quella che qui facciamo cercando di rispondere all’offerta di dialogo laddove il quotidiano della CEI, con una stizzita (e scorretta) recensione sull’Avvenire di Adriano Fabris rimprovera all’autrice di aver pubblicato questo libro: vedano i lettori se tale recensione è frutto dei limiti dell’esegeta o dell’esegesi). Ciò che qui ci interessa è la proposta, dichiaratamente neoplatonica, di separare la fede dalla ragione: «Di fronte alla trascendenza del divino rispetto ai nostri concetti, uno ha due possibilità: o dire che la fede è contro la ragione, o dir che non è contro la ragione – ma naturalmente oltre la ragione». De Monticelli non nasconde la sua propensione verso il dio nascosto che si cela alla ragione, e così facendo libera per un verso la fede dal gravame di farsi religione civile e strumento del potere, in contrasto con la più genuina verità evangelica che consiste nella «liberazione dalla volontà auto-affermativa, di cui Cristo è modello»; e per altro indica alla ragione un luogo al di là dei suoi limiti, negandole la pretesa totalizzante. Ora, il deus absconditus è un dio che tace, misteriosamente muto al chiamare del fedele. Ma il silenzio di dio è anche la dimensione esistenziale del non credente, giacché non c’è alcun dio, né alcun cielo. Uno degli assunti della monumentale Legittimità dell’età moderna di Hans Blumenberg, dal quale segue l’autoaffermazione umana come inizio della modernità, è proprio l’equivalenza pratica del dio nascosto e del dio assente. Se nessuna voce parla di cieli, non resta che rintracciare un senso all’esistenza con gli strumenti di cui disponiamo, per limitati e fallibili che siano. Per dirla con un esempio, una volta rintracciati i principi fondanti del vivere comune, chi può affermare che detti principi siano stati precedentemente posti da un dio nella natura piuttosto che istituiti dalla volontà positiva dei costituenti, ovvero maturati nel corso della storia dell’umanità? Se la ragione fosse così debole e incapace di guidare l’uomo, come potrebbe vedere i principi antropologici ed etici di cui postula l’esistenza la fede? In realtà, dietro gli attacchi alla ragione (e alla scienza) c’è «la precisa affermazione che l’uomo, il quale non abbia il privilegio di star saldo nella fede, e faccia uso solo della sua povera ragione umana, è virtualmente un nichilista, uno scientista, un idolatra della tecnica, e infine, dunque, un violento, almeno potenziale. E per questo vanno posti paletti, limitazioni che abbiano forza di legge, alle possibili derive della volontà individuale». L’etica, come già Platone insegnava nell’Eutifrone, non può che essere laica: ma, aggiungiamo noi, questa laicità sottoposta a fallibilità e ad errore in un mondo complesso e a malapena governabile, ma non più pianificabile, non genera sicurezza. Il mondo è incerto e insicuro: accettarlo com’è è una strategia di attribuzione di senso – ma può esservene un’altra. In altre parole, è qui all’opera un potere pastorale che si propone come risposta rassicurante alle patologie della post-modernità: una voce paterna e autoritaria che chiede deresponsabilizzazione e rinuncia alla ragion critica in cambio di una parvenza di sicurezza, generata dalla riduzione della complessità dell’orizzonte sociale. Questo potere pastorale suggerisce «che sia la ragione a predicare Iddio e lo Stato l’ascolti e faccia leggi non per tutelare l’ultima libertà di scelta dell’individuo in materie moralmente controverse, ma al contrario per sceglier al suo posto». A rafforzare questa vecchia e nuova religione civile occorre quella velata forma di disonestà intellettuale che nega la possibilità di valori condivisi affermando che un mondo senza dio non conosce la differenza tra bene e male: «ma perché se Dio non c’è le cose non dovrebbero avere qualità di valore, positive o negative? Evidentemente, solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio». Lo spirito democratico è sicuramente accostabile all’idea evangelica di amore e fratellanza; ma è presente, con uguale forza, anche in costituzioni le cui radici religiose e culturali sono ben altre, come quella dell’India o quella degli Irochesi del 1142 (come ci ricordano i Wu Ming in Manituana): non è questo ciò che, per vie convergenti, ci dicono Zagrebelsky e De Monticelli?
Un ultimo appunto, questa volta critico. Ambedue i pensatori sembrano considerare “relativismo” come sinonimo di “indifferenza morale”: in particolare, De Monticelli è convinta che l’affermazione di una verità, per quanto non autoevidente e necessitante di una ricerca interminabile (com’è, a ben vedere, nel platonismo), sia un indispensabile requisito alla capacità di discernere tra bene e male. Noi vorremmo suggerire che non necessariamente il relativismo coincide con l’indifferenza, ossia l’arbitrio assoluto. Relativisti radicali era il Camus partigiano della Lettera a un amico tedesco che affermava il dovere di «proclamare la giustizia per lottare contro l’eterna ingiustizia», e i pragmatisti americani (da William James [a destra] a W.E.B. Du Bois che si opponevano al nascente imperialismo statunitense e proponevano il Melting Pot contro i teorici della società-orchestra univocamente arrangiata. Ma di nuovo, questa discussione è possibile anche grazie al terreno che De Monticelli e Zagrebelsky sanno indicarci.
2. SOLIDARIETÀ
Mi è capitato, pochi giorni or sono, di presenziare a un funerale: un gesto non usuale, che ho vissuto col disagio di chi, non credente (in verità non cristiano) assieme ad altri partecipanti, condivide un’esperienza con altri credenti. Diciamo che ad accomunarci non era la fede, ma un dolore umano. Di questo si è fatto interprete il prete che officiava: un uomo, mi è sembrato, semplice, sin troppo umano. Di parole comuni, a volte impacciate: insomma, un uomo come tanti in mezzo ai tanti, in difficoltà in una chiesa che non riusciva a contenere i partecipanti, quasi tutti giovani. Giovani venuti con le felpe e i giubbotti di tutti i giorni: io che mi ero scapicollato per cambiarmi la cravatta, notavo che non c’erano quasi cravatte. C’erano orecchini, dreadlook, rasature più da sabato sera che da messa solenne: fossi un moralista di quelli che non ci sono più i valori di una volta, c’era di che fare una concione sui “giovani d’oggi” che non sanno neanche come ci si veste per un funerale. Per fortuna moralista non sono, o almeno spero di non esserlo. Ho osservato, ascoltato, pensato. Sul momento non capivo perché l’omelia mi piacesse, ma certo era che mi aveva avvinto: dev’essere un brav’uomo questo prete, ho pensato. L’ho capito qualche giorno dopo, leggendo alcuni scritti di due pensatori – il costituzionalista Zagrebelsky e la filosofa De Monticelli – che ultimamente sono un mio personale punto di riferimento, cosa di quel semplice parroco di paese mi era entrato nell’orecchio per non più uscirne. Non starò qui a riassumere quello che, negli ultimi tempi, i due pensatori che citavo hanno scritto: il tema che in questi giorni li accomuna è la ricerca di un terreno d’intesa tra credenti e non credenti in nome di una ragionevole difesa della laicità dello Stato. In luogo dei contrapposti non possumus, quali possumus possiamo reciprocamente pensare e praticare? A me sembra di averne trovati due in comune tra il mio sentire e quello del semplice prete che citavo. Il primo è un tema drammaticamente enunciato dallo stesso papa Woytila: il silenzio di Dio. Citava, il prete, la resurrezione di Lazzaro. E ricordava commosso, come attorno al letto d’ospedale del ragazzo che spirava invano i suoi amici e i suoi cari avessero, forse inconsapevolmente, rivolto al morente la stessa invocazione di Cristo: alzati e cammina. Non c’è stata risposta. Per il non credente la risposta non può esserci, perché nessuna voce, nessun cielo sovrastano la nostra coscienza. Per il credente c’è un cielo e c’è un dio: che però tace. Ecco cosa ci accomuna: che il dio resti nascosto nel suo silenzio o non esista, per noi che calpestiamo il suolo terreno l’esito è lo stesso. Il senso della vita non ci viene chiarito dall’alto, i valori non discendono dal cielo scritti in tavole di pietra: non restano che le nostre coscienze, i nostri cuori, le nostre intelligenze, per dare senso e valore al nostro esistere. E una volta che lo abbiamo concordemente rintracciato, chi può sapere se è stato creato ex novo o scoperto là dove qualcuno lo aveva nascosto?
Ma se, da un punto di vista pratico, non si ode la voce di un’autorità trascendente che ci guidi, come orientarci nel mondo? E chi dice che solo un’autorità trascendente possa operare il miracolo di un’attribuzione di senso al mondo? Più di qualcuno, purtroppo. Ciò che accomuna questi venditori di apocalissi è lo svilimento della ragione, il disprezzo verso le potenzialità dell’umano, verso ciò che può un corpo, direbbe Spinoza – l’antiumanesimo che degrada la persona umana, direbbe Maritain, il maestro filosofico di papa Montini (ma oggi, purtroppo, ben altri, e di ben altra levatura intellettuale sembrano essere gli interlocutori del pontefice: non Maritain, ma Marcello Pera; non La Pira, ma Paola Binetti…)
Qui, di nuovo, mi tornano in mente le parole del parroco che, guardandosi intorno, ha pronunciato una parola importante, laica ed evangelica al tempo stesso: solidarietà. La solidarietà tra i convenuti, ha detto, è il dono più grande che il ragazzo che salutavamo ci ha lasciato. Non lo ha detto dall’alto di un pulpito, ma ponendosi allo stesso livello dei presenti: senza gerarchia, senza superiorità, senza superbia. Una solidarietà che non nasce dall’essere sottomessi a un’autorità che pretende di pensare in noi e per noi, ma dallo scoprirsi dotati di eguale dignità e di eguali ragioni. Al silenzio che viene dall’alto corrispondono le mani che si stringono qui, in basso. Se su questo siamo d’accordo, il messaggio di uguaglianza fra soggetti dotati di diritti inalienabili scritto nella Costituzione coincide con la fratellanza che proviene dal Vangelo. Sulla solidarietà possono essere costruite molteplici forme di rapporti, relazioni, aggregazioni tra esseri umani: unioni sociali, politiche, amichevoli, affettive, progetti, piccole società che, inserendosi nello spazio tra il singolo e lo Stato, evitano il duplice pericolo dell’atomismo egoistico e dello Stato come totalità.
Questo, e non altro, era l’intento dei nostri Costituenti, e su questo non ci fu iato tra credenti e non credenti. Oggi invece assistiamo al triste scenario di chi pretende di giudicare e imporre uno stile di vita sulla base del proprio stile, magari ignorando l’ipocrita trave nel proprio occhio nel mentre blatera di pagliuzze altrui; di chi si arroga il diritto di limitare o ridurre, invece che ampliare, le forme in cui la solidarietà si manifesta, di chi considera i diritti una merce di scambio: come se i diritti fossero oggetti che, per essere attribuiti a qualcuno, devono necessariamente essere tolti a qualcun altro, e non qualcosa che arricchisce l’altro, che ne ha bisogno, senza che io ne venga privato. Quanto sia, prima ancora che inumana, sciocca e irragionevole questa pretesa, basta il semplice discorso di un modesto parroco di paese a mostrarlo.
[i due interventi qui riprodotti sono stati pubblicati rispettivamente su Liberazione del 7 aprile 2007 e su CronacaComune]