di Antonello Ricci
[Si avvicina maggio e nel centro Italia i poeti-contadini tornano a contrastare in ottava rima. Per l’occasione proponiamo un articolo di Antonello Ricci sui compromessi dell’ottava negli anni del ventennio fascista. Ricci è un insegnante viterbese che conduce da anni una esplorazione rigorosa e brillante della realtà storica e antropologica del territorio dell’alto-Lazio, evitando sia la freddezza presuntuosa di certo racket accademico che le patetiche approssimazioni del ‘localismo’. A.P.]
In una ricerca condotta nel 1982 in alcuni paesi della provincia di Viterbo mi proponevo di ricostruire (soprattutto attraverso l’uso di fonti orali: interviste, storie di vita, barzellette, componimenti poetici) i rapporti tra regime fascista e contadinanze nei centri rurali dell’Alto Lazio, con particolare attenzione al formarsi d’una mitologia popolare intorno alla figura di Mussolini. Regime autoritario, propaganda, linguaggio ufficiale da un lato, classi subalterne, vita di paese, senso comune dall’altro: queste le coordinate entro cui esplorare la ricezione degli stereotipi egemoni da parte dei contadini viterbesi e, più in generale, la consistenza effettiva d’un consenso «dal basso» al fascismo.
A questo proposito mi proponevo, tra l’altro, di stabilire la rilevanza storico-antropologica delle ottave di argomento politico composte negli anni Trenta (ma anche successivamente) da poeti pastori e contadini della zona in indagine.
Esiste una vera e propria messe di componimenti celebrativi in ottava rima risalenti al Ventennio. Ogni estemporaneo sembra aver cantato, almeno occasionalmente, le glorie del Duce e le vicende di quegli anni. D’altronde proprio questa forma tendenzialmente narrativa (almeno nelle sue modalità individuali) e sovraccarica di registri aulico-celebrativi dovette presentarsi quale genere per antonomasia d’un consenso popolare in versi. Non a caso il fascismo monopolizzò il circuito delle gare d’improvvisazione poetica (al tempo assai diffuse), stabilendo temi di canto ad hoc: il Balilla, il Piccolo Avanguardista, i motti del Duce ecc. — incoraggiando una produzione di ottave nazionalpopolari (nel senso d’un populismo «in camicia nera») con la pubblicazione di fogli volanti e riconoscimenti pubblici e premi ai poeti. Evidentemente il regime non sottovalutò il carisma del poeta estemporaneo nell’orizzonte delle comunità rurali, il suo ruolo chiave di capillare mediatore linguistico.
Due ottave del cantore ischiano Virgilio Cento:
Onorevole egregio Mussolini
Duce del Fascio e Capo del Governo
volgi uno sguardo ad i tuoi cittadini
che si trovano in mezzo ad un inferno.
Eppur quand’eravamo sui confini
si combatteva con amor fraterno
all’Italia fu data onore e gloria
per portare la fulgida vittoria…
L’estero non credea che il nostro Duce
fosse acclamato da popolazione
Egli per far vedere quanto riluce
la fama sua per l’itala Nazione
i capi del fascismo vi riduce
al Gran Consiglio per nuove elezione
a ciò che sappi l’Europa intera
l’Italia avvolta in camicia nera…
La seconda, incipit d’un lungo poemetto encomiastico, fu composta dopo le minacce ricevute per il «detto» dell’altra (pare che l’avvertimento giungesse per bocca del podestà paesano). La distanza tra i «detti» delle due stanze è ovviamente riconducibile a una diretta, immediata necessità di sopravvivenza: «se la pubblichi te mandano al confino»; il «detto» della seconda cioè, con il suo voltafaccia, è imposto da una situazione d’emergenza. Ma quel che più interessa è l’esistenza stessa d’un ampio spazio tra i due «detti», o meglio: d’uno spazio tra «detto» e «non detto», visto che nella seconda ottava resta «non detto», omesso, cancellato, il «detto» della prima.2
L’esempio proposto appartiene in realtà a un’ampia casistica. Vorrei però andare oltre: sono infatti convinto che quello spazio tra «detto» e «non detto» non sia prerogativa di ottave e situazioni voltafaccia; effetto costante — invece — e inevitabile d’ogni ottava del consenso in quanto tale (consenso il più delle volte genuino, sia chiaro). E ciò proprio in ragione d’un quid congenito di «rigidità» connaturata al contenitore-ottava. Vorrei dimostrarlo.
Intanto, due domande: A) Perché, al di là d’ogni personale opportunismo, tende a formarsi lo spazio di cui andiamo parlando? B) Che cosa esso accoglie ed esprime?
A) Tre paiono, in libera interazione, i fattori che determinano esistenza e variabilità della terra di mezzo tra «detto» e «non detto» (in relazione alla «rigidità» delle ottave del consenso): il tratto di occasionalità e celebrazione tipico dell’ottava; l’esser-forma della stessa in quanto modulo poetico; il suo carattere pubblico automaticamente esposto a censura. Vediamo.
A un poeta che volesse cantare il proprio consenso al regime doveva presentarsi immediata la «scusa» dell’Occasione poetica: per meglio dire, la tendenza a eleggere un avvenimento eccezionale, irripetibile (Avvento del Fascismo, Attentato al Duce, Plebiscito, Concordato ecc.), rispetto al prosaico continuum della quotidianità (tanto più che parlare della vita d’ogni giorno avrebbe portato a rimarcare la perduranza di miseria e sofferenze: ad ammettere cioè il mancato avvento d’una Nuova Italia): da cui la scontata rimozione di certi argomenti, reintrodotti tutt’al più sub specie propagandistica.
C’era poi la scelta nell’ambito delle possibilità espressive: dove — per l’influenza operante e oberante dell’indiscussa tradizione classicista — finivano scartati lessico familiare e registri colloquiali: l’ottava produce i suoi «detti» attraverso l’organizzarsi stesso della forma, e le esigenze metriche, l’abitudine a certe rime, formule emistichiali, gruppi sintattici, soluzioni retoriche, condizionano con forza il prodotto finale (non casualmente erano proprio certe ottave del dissenso ad abbandonare i toni più aulici, cercando un linguaggio più diretto). Miti e formule della propaganda ufficiale, insomma, erano puntualmente riletti dal poeta popolare attraverso il setaccio della grande tradizione italiana.
L’ottava, infine, proprio in quanto «detta» (scritta o cantata, non importa) era in qualche modo «atto pubblico»: e in quanto tale sottoposta a un controllo dall’alto (magari indotto sotto forme di pura e semplice autocensura) che si sovrapponeva a quello tradizionale dal basso.
B) Ciò che resta «taciuto». Geologia più profonda (e ricca d’implicazioni) rispetto al puro «non detto», esplorabile con maggiori difficoltà — spesso solo grazie alla sponda offerta da un altro testo che accetti di fra-intendersi col «detto» in versi.
Per esempio: di questa ottava del poeta tolfetano Giacomo Belloni
Evviva quel Benito Mussolini
che il giardino d’Italia l’ha salvato
ha seminato tanti fiorellini
pe’ spargere l’odore in ogni stato.
Garofoli, viole, gelsomini
che per tutta l’Italia ha infiorato.
Evviva quel Benito Mussolini
salva l’Italia in mezzo alle rovine.
potremmo pensare che — da una parte — aderisce in pieno al luogo comune del fascismo e del duce suo seminatore (vedi la metafora agraria) come «salvatori» della patria (distico finale), mentre — dall’altra — utilizza un linguaggio celebrativo «dimezzato», che ricorda piuttosto le poesiole che si studiavano sui libri di testo delle scuola elementari (con implicito rifiuto, dunque, del Mussolini superuomo imposto dalla propaganda ufficiale). Potremmo. Se non ci fosse invece il testo di un’intervista a Pompilio Tagliani (n. 1923), altro poeta della Tolfa, a rammentarci in che occasione l’ottava era stata composta — svelando così un essenziale «taciuto» non altrimenti esperibile:
Perché qquesto era un zovverzivo, inzomma, cioè, era un rosso, era un communista, allora i fascista le menaveno, era uno che stava sempre fòri, ciaveva ‘n podere e vveniva a Ttolfa ogni quindici venti ggiorni, ‘st’òmo, anziano, ‘n omettino ccosì e lo pijjavano, quelli ch’erano fascisti e lo menavano, hai capito? Senti che rrazza di ‘stuzzia, eh!, d’ingegno! Questo era inalfabbeto proprio, non sapeva né llegge’ né scrive’, guarda! [sta sfogliando il libretto su cui l’ottava è trascritta] Questa è la sera che le menavano. La sera questo veniva sempre dalla campagna, verso tardi, no?, col bastoncello, camminava. Te lo pijjano, te lo strascinano ggiù, arriva ‘l capo, dice «Fermatevi! — dice — Perché le menate a ‘st’ometto?» e qquello dice «Ch’avrò ffatto!» Mó qquesto, se chiamava Angelo, [declama l’ottava], jje fa ‘st’ottava a ‘sto capo delle fascista, dicendo ch’era ‘n bel dittatore, e ddice «Mannatelo a ccasa!»
Più che l’inadeguatezza (come altri ha voluto pensare; vedi MÜLLER 1975) a cantare i fasti del regime attraverso il «roboante e fanfaronesco linguaggio dell’epica fascista», «taciuto» in questo caso resta il creativo lavorìo di demistificazione e manomissione parodistica dei simboli del potere messo in opera da un poeta popolare.
Un altro esempio: un poemetto in 21 stanze, segnato «Piansano 4-11-25» (datazione poco credibile), composto dal poeta Angelo Eusepi (n. 1899) e intitolato Attentato a Benito Mussolini Capo del Governo, pare perfettamente rispondere, anche sotto il profilo strettamente linguistico, agli stereotipi propalati dalla cosiddetta «Fabbrica del Duce». Basterà confrontare le due ottave che seguono
Il popolo italiano è assai contento
che incatenato sia ogni malfattore
e salvo il Duce e pieno di talento
l’uomo che a Italia dà forza ed onore
di grande scienza di molto alimento
che il mondo tutto ammira con ardore
e detta leggi giuste e trionfali
qual mai fu degno l’italo stivale.
Questo è un Governo soprannaturale
guidato con sapienza ed intelletto;
giovani forti che non hanno uguale
il vero sangue d’Italia chiude in petto.
Ammirano i governi il trionfale
Duce supremo Mussolini detto
che d’illustre sapienza ha pieno il cuore
e dotto di senno e di molto valore.
con ciò che dopo l’attentato L’Osservatore commentava: «Si voleva abbattere un uomo e lo si esalta. Si voleva, colpendo il suo Duce, sgominare un partito e la nazione acclama al pericolo scampato dalla sua guida».
In realtà tutto il componimento è frutto di un’operazione mitizzante condotta — certo in buona fede — dal poeta Eusepi sull’uomo Eusepi: col secondo ridóttosi da sé (per opera del primo, voglio dire) a significante vuoto, deprivato d’ogni concretezza storica, culturale, umana e perciò disponibile a ricevere nuova, ulteriore «significazione» (a livello del mito, per dirla con Barthes). Tocchiamo con mano, insomma, quel laboratorio linguistico attraverso cui il regime volle legittimarsi s’un piano metastorico, come «geografia» eterna e naturale.
L’inespresso, il «taciuto» emerge anche in questo caso da un’intervista. Fu Eusepi stesso a narrarmi la sua storia di vita. Il poeta era stato uno dei quotisti beneficiari della cooperativa di ex-combattenti piansanesi, nel 1920. Facile immaginare la sua successiva conversione al fascismo:
[dopo un litigio in osteria tra fascisti ed ex-combattenti] Mó io, me toccava stà llimitato, che cciavevo ‘l mi’ poro bbabbo ch’era ‘nziano, eccetera, e la paura e «Ffijjo», e qquello, e «’N do’ te vai a ‘ntricà!» «Nnavete paura ch’io non m’entrico!» E allora non volevano e ppoi io andetti a ccasa — mi’ padre dice «Oh!, va’ lletto!» e io presi e mme ne andiedi a ddormì, perché ppoi c’era, a ‘n certo punto, c’era ‘n concorso ‘n Comune, e io volevo concorre’. Eravamo nel Ventotto.
È questo testo a restituire «elasticità» alle ottave celebrative di Eusepi, rigide all’anagrafe e biograficamente poco veraci. I versi non dicono, ad esempio, il groviglio di motivi (estremamente concreti: terra e impiego) che favorirono la piuttosto tardiva adesione del poeta al fascismo: non vi si parla, infatti, delle sue iniziali simpatie socialiste (tornato dal fronte egli prese a leggere L’Avanti, divenne «simpaticante»), né degli attriti tra ex-combattenti e fascisti della «prima ora» o della distribuzione delle quote, né, infine, del concorso che alcuni anni dopo gli permise di entrare come impiegato nell’Amministrazione Comunale.
D’altra parte non c’è traccia — in queste ottave — di numerose altre cose. Ad esempio, del senso d’incolmabile distanza del Regime, del Governo, della Politica dal vissuto quotidiano delle masse contadine. Oppure del contraddittorio rapporto di queste ultime con l’aspetto più lontano e irraggiungibile del Potere stesso: il demagogo Mussolini, primo dei politici — nella breve e precaria storia dell’Italia unita — a rivolgersi direttamente alle classi popolari (per ammansirle con populismo loro comprensibile), esibendo con orgoglio le proprie radici contadine, lasciandosi fotografare in sella a un trattore o — a torso nudo — durante la trebbiatura. Mussolini uomo forte da una parte — re taumaturgo, principe buono dall’altra (semmai ingannato da cattivi consiglieri, plagiato da una donna, malfatato da Hitler).
Qualunque contraddizione scompare, insomma, dalle ottave del consenso: via ogni segnale di storia vissuta, di conflitto sociale, di contesto culturale; via ogni traccia del percorso ideologico che doveva trasformare il contadino reale nel rurale-mito in camicia nera.
[L’articolo è estratto da una raccolta del Ricci dedicata all’ottava rima, dal titolo Stoffa forte maremmana. La foto di corredo si riferisce a un poeta in ottava che fu un antifascista inflessibile, il socialista Antonio Gamberi. La proponiamo in questo articolo per rendere onore a quei minatori e braccianti che non si piegarono al potere di turno: invece di cantare le lodi del duce, andarono a contrastare contro di lui nelle miniere del Belgio, in esilio, come ebbe in sorte lo stesso Gamberi. A.P.]
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
MÜLLER M. 1975, Il canto a poeta nel Lazio: esperienze di ricerca a Tolfa, «Il Nuovo Canzoniere Italiano»
RICCI A. 1984, Parlare fascista: la ricezione della propaganda mussoliniana nel Viterbese, Facoltà di Lettere e Filosofia — Università degli Studi di Roma-La Sapienza, a.a. 1983-1984 (tesi di laurea; ampi stralci ne sono stati poi pubblicati in IDEM 2003, Mezz’al duce e mezz’al fascio. Mito mussoliniano e consenso al regime nella memoria contadina dell’Alto Lazio, Malavoglia, Viterbo)
IDEM 1990, La guerra la terra: testimonianze di contadini viterbesi nel primo conflitto mondiale in Aa.Vv., «Società, opinione pubblica, economia a Viterbo e nella Tuscia durante la Prima Guerra Mondiale», atti del Quarto Convegno di Storia del Risorgimento, Viterbo 4-6 novembre 1988, [Viterbo]