di Nevio Galeati
“E quando l’agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz’ora. E vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio, e furon loro date sette trombe… E il primo angelo diede fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue e furono gettati sopra la terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa tutta l’erba verdeggiante. E il secondo angelo diede fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata dal mare, e la terza parte del mare diventò sangue… E il terzo angelo diede fiato alla sua tromba. E dal cielo cadde una stella grande, ardente come la fiaccola”. Una voce fuori campo legge questi versi dell’Apocalisse di San Giovanni, ventisettesimo e ultimo tra gli scritti del Nuovo Testamento. Il libro scritto di dentro e di fuori e sigillato con sette sigilli.
“Il libro consisteva in fogli di pergamena avvolti l’uno dopo l’altro intorno a un bastoncino e sigillati, in modo che non fossero letti. È il libro che contiene l’avvenire e che sarà letto dall’Agnello, cioè Cristo, ‘Un agnello con sette corna e sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio spediti per tutta la terra’. Le corna significano l’onnipotenza, gli occhi l’onniscienza, gli spiriti gli esecutori dei suoi ordini. Il primo sigillo rivela la conquista, il secondo la guerra, il terzo la fame, il quarto la morte, il quinto i martiri, il sesto gli sconvolgimenti universali, il settimo il tragico finale della visione apocalittica. ‘E quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz’ora’: l’uomo viene a conoscenza dei misteri della vita in questa mezz’ora? Allo stesso modo, il cavaliere che procrastina la morte sfidandola a scacchi, per un’ultima azione che abbia un senso, riesce a dare un significato alla sua esistenza?”. Così scrive Ingmar Bergman nella sceneggiatura di uno fra i suoi film più celebri, quello che egli stesso dice di avere amato di più, appunto Il settimo sigillo, girato nel 1956 (Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, trad. di Alberto Criscuolo, Milano, 1999, quinta edizione). Un’opera fondamentalmente centrata sulla paura della morte; e su come questa sia l’unica essenza di Dio.
Ma se Antonius Block, protagonista del film, inganna, o meglio distrae, la Grande mietitrice, a volte è lei stessa a decidere di sospendere la propria ‘attività’. “Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale”, scrive José Saramago nel romanzo Le intermittenze della morte (Einaudi, 2005). Ma l’eternità che si instaura un 31 dicembre in un paese senza nome, dopo i primi sentimenti di giubilo, provoca un’apocalisse alla rovescia. Soprattutto nella chiesa perché senza morte non c’è resurrezione, e senza resurrezione appunto non c’è più ‘bisogno’ della chiesa. La morte, naturalmente una donna, riprenderà a colpire, ma inviando il ‘preavviso’ della propria venuta, una lettera con busta viola; fino a quando non conoscerà un musicista, che riesce incredibilmente a sfuggirle. Fino a quando “La morte tornò a letto, si abbracciò all’uomo e, senza capire quel che stava succedendo, lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre”.
Ironia e sarcasmo nel premio Nobel per la letteratura; drammatica visione (luterana) del mondo della fede nel grande regista svedese. E sono in fondo queste le strade attraverso le quali la letteratura, in primo luogo quella di fantascienza ma non solo, ha affrontato, e affronta ancora, i temi dell’apocalisse, della fine del mondo e della vita dopo catastrofi che hanno risparmiato qualcuno. Quasi sempre utilizzando lo strumento della metafora. L’apocalisse letteraria cerca di completare l’impresa di Antonius Block, vincendo quella partita a scacchi; prova a sedurre la morte e a fermarla. Può indicare strade di sopravvivenza, ‘dopo la morte’. O, semplicemente narra cosa potrebbe accadere ‘il giorno dopo’.
Il repertorio degli esempi è corposo, a partire da L’ultimo uomo, romanzo scritto nel 1826 da Mary Wollstonecraft Shelley, proprio l’autrice di Frankenstein o il moderno Prometeo. La fantascienza ancora ‘non esisteva’ anche se in numerosi romanzi fantastici si parlava di culture ‘aliene’ o di viaggi sulla Luna. Mary Shelley nel 1826 narra lo sterminio dell’umanità nel ventunesimo secolo; immagina il pianeta devastato dalla peste come conseguenza di un mondo che si è auto distrutto a causa degli ideali perpetuati dalla maggioranza degli uomini che si sono dimostrati incapaci di mantenere quei principi morali ed etici necessari per la salvaguardia e per il progresso della società. La peste serve da metafora per spiegare il fallimento degli ideali radicali difesi per tutta la vita dal padre di Mary, William Goldwin; dal marito Percy B. Shelley e dall’amico George Gordon Byron. Un romanzo rimasto sconosciuto in Italia fino al 1996 e che, invece, possiede contenuti e significati più importanti di quelli del più celebre Frankenstein.
Il tema della sopravvivenza di un ‘solo uomo’ in un mondo colpito da un catalogo di cataclismi infiniti, resta fra i più percorsi dalla narrativa che, per comodità, si può definire ‘apocalittica’ (anche perché, ‘narrativamente’, qualcuno deve… restare vivo per raccontare gli effetti dell’Armageddon). Uscendo dai territori della fantascienza, va segnalato per l’analogo assunto iniziale, l’ultima opera di un importante scrittore italiano, Guido Morselli, Dissipatio H.G. (Adelphi, 1977). I suoi romanzi furono sempre rifiutati dalle case editrici che li presero in considerazione solo dopo il suicidio nel 1973; il successo di critica e popolarità che invece ottennero ‘postumi’ rende ancora oggi inesplicabili le precedenti incomprensioni.
Dissipatio H.G., dunque, e le lettere puntate stanno per ‘humanis generis’. “Di corpi, sotto la pioggerella di giugno, non c’è traccia a Crisopoli. Rimane ciò che pur essendo corporeo, non era organico… Rimane anche quello che è organico e vivente, ma non umano”: questo lo scenario che si prospetta al protagonista, ex giornalista, di ritorno dalla caverna in cui avrebbe voluto uccidersi: palazzi, scatole vuote di sigarette, “il minuto lordume delle vie”, ma anche “la geometria dei tulipani davanti all’Hotel Esplanade”, o “I corvi sul frontone del Teatro nazionale, i gatti, a frotte, sulle gradinate del Crédit Financier e della Diskonto”. Viene in mente una canzone di Francesco De Gregori, Titanic, e il passaggio: “E tirano certe bombe che nessuno se le aspettava, / in questa notte storica senza lapilli / e senza lava e tirano certe bombe / che sembrano dei giocattoli / che ammazzano le persone e risparmiano gli scoiattoli”. Bombe, dunque, guerra devastante. Per Morselli invece il genere umano è misteriosamente ‘evaporato’; c’è appunto un unico sopravvissuto, ‘the last man’, come recitava il titolo del romanzo di Mary Shelley. Ma non si tratta dell’uomo (degli uomini) che voleva ‘cambiare il mondo’ e che ha fallito, come nella scrittrice inglese: si è di fronte all’essere umano che aveva cercato di interrompere la propria vita prima del termine e che si è trovato di fronte agli esiti di una particolare apocalisse.
“Con uno di quei suoi straordinari salti fantastici che hanno un gelo mentale matematico, Morselli ha rovesciato i termini di una corrispondenza cosmica. Il suicida è vivo, i vivi sono, non già ‘morti’, ma ‘la morte’. Morselli scrisse questo romanzo nello stesso anno in cui si tolse la vita. E forse mai era giunto ad una così calma gestione del suo astratto e lucido gioco intellettuale. Un gioco mortale e tuttavia capace di una intima grazia, oserei dire letizia”, commentò un altro genio della letteratura italiana, Giorgio Manganelli.
Si tratta di due casi, quindi, solo apparentemente simili. Nel primo, L’ultimo uomo, ci si trova di fronte alla metafora di un fallimento ‘politico’; il romanzo di Morselli narra la nostalgia dell’uomo per l’uomo, che è appunto ‘scomparso’. E il protagonista rievoca il medico che lo ha curato da una neurosi ossessiva, fino a immaginare un nuovo incontro: “In tasca tengo, per lui, un pacchetto di gauloises”.
Ancora una volta, come spesso accade nella letteratura di genere a partire dai ‘gialli’, si ripropone il confine fra romanzi ‘rassicuranti’ e romanzi in grado di provocare corto circuiti; fra trame che puntano a ristabilire un ordine ‘dato’, non importa quale; e altre che partono dalla constatazione di come non esista più alcun ‘ordine’ da ristabilire e, anche senza scoprirne le cause, se ne debbano esclusivamente declinare le conseguenze. Istillando il dubbio (la speranza?) che qualcosa si possa ancora cambiare, di fronte a un mondo che ‘storicamente’ ha bruciato gran parte delle proprie possibilità di migliorare.
A questo proposito non si può che citare un classico della letteratura fantastica, Io sono leggenda di Richard Matheson. Romanzo pubblicato per la prima volta nel 1953, tradotto in Italia con un titolo infelice, I vampiri (Classici Urania, n,143, 1989), racconta la vita dell’ultimo uomo sopravvissuto, Robert Neville, a un’epidemia che ha trasformato l’umanità in vampiri (consigliabile l’edizione della casa editrice Fanucci, del 2003, con l’ottima traduzione di Simona Fefè e postfazione di Valerio Evangelisti). Un romanzo folgorante, dove l’ultimo uomo (di nuovo) è diventato una creatura unica e leggendaria, che colpisce durante il sonno senza pietà i ‘mostri’, come una volta facevano i vampiri nelle leggende. Solo che ora la leggenda è lui… Viene poi immediato il collegamento con un episodio della serie televisiva The Twiling Zone, intitolato Time enough at last (Il tempo di leggere), in cui un unico uomo è sopravvissuto al disastro nucleare perché si è nascosto in una cassaforte per leggere in pace; quando si trova ad avere a disposizione tutto il ‘tempo’ e tutti i libri del mondo per la propria passione, rompe gli occhiali e non c’è nessuno che glieli possa riparare. La serie, creata da Rod Serling, poteva avvalersi nella prima stagione di sceneggiatori straordinari, Ray Bradbury e, appunto, Richard Matheson.
Ma il maestro assoluto in questo campo, che in realtà sfugge a ogni etichetta, è James G. Ballard. Un autore che può scrivere una frase di questo genere: “Il futuro è morto e noi siamo sonnambuli in un incubo” (James G. Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, 2006). Nella sua vasta produzione anche di fantascienza spicca il ciclo di romanzi che raccontano la distruzione del mondo attraverso i quattro elementi fondamentali della fisica antica: l’aria, Vento dal nulla (The wind from nowhere, 1962); l’acqua, Deserto d’acqua (The drowned world, 1962); il fuoco, Terra bruciata (The burning world, 1964); la terra, Foresta di cristallo (The crystal world, 1966). Probabilmente il primo è quello che ancora oggi desta il maggior stupore: fra gli innumerevoli flagelli che possono colpire il nostro pianeta, dal diluvio al fuoco atomico, fino a quel romanzo mancava il vento. Ma basta porsi il problema per capire che anche il vento potrebbe essere un nemico mortale per l’umanità. Su questa ipotesi semplice e terrificante l’autore ha costruito questo naufragio del mondo in una tempesta di straordinario realismo. Ed è soprattutto il dato del vento ‘dal nulla’ che crea l’angoscia maggiore. Deserto d’acqua parla, con oltre quarant’anni d’anticipo, di effetto serra, con l’intero mondo, zone artiche escluse, trasformato in una gigantesca laguna tropicale, con zanzare grosse come libellule e la civiltà distrutta da gigantesche e mostruose forme animali e vegetali. Due anni dopo Ballard rovescia la prospettiva: da troppa acqua alla siccità perenne. In Terra bruciata vi sono riferimenti al ciclo di Dune (il primo romanzo di Frank Herbert è del 1965) con deserti sterminati di sabbia e sale, con ladri d’acqua, cannibali, navi in secca e superstiti che si dibattono fra la polvere. Infine il terrificante Foresta di cristallo dove ogni materia, vivente o no, si trasforma in cosa inanimata, si cristallizza appunto. Ma la catastrofe, e sta qui la genialità di Ballard, riguarda anche la psiche e così ci sono personaggi che si rassegnano a una forma minerale di immortalità. La fine di un mondo, quindi, può essere l’inizio di un altro che sorge dalle macerie del primo.
Una speranza che non si poteva trovare nel precedente L’ultima spiaggia di Nevil Shute (On the Beach, 1957), perché se le ‘prime’ apocalissi di Ballard hanno origini misteriose, in questo romanzo si sa da dove arriva il disastro; e si sa che è inarrestabile: si tratta di esplosioni atomiche, e la causa è quindi umana. Ogni forma di vita è stata già distrutta; ora i venti stanno spingendo le radiazioni verso il luogo in cui restano gli ultimi superstiti, l’Australia. La fine arriva rapidamente e sul mondo cala il silenzio. Dal romanzo nel 1959 venne tratto un film diretto da Stanley Kramer, con una grande interpretazione di Fred Astaire senza scarpe da tip-tap. Il dipartimento della difesa degli Usa e la Marina militare rifiutarono di collaborare alla produzione. Troppe colpe erano ancora vicine e la denuncia di Kramer era decisamente esplicita.
Gli effetti della guerra nucleare sono anche la ragione che trasforma la terra ne Il pianeta delle scimmie, romanzo in realtà poco noto di Pierre Boulle, reso celebre dal film omonimo di Franklin J. Schaffner, interpretato da Charlton Heston (per altro interprete anche di una versione, mediocre, di Io sono leggenda, con l’improbabile titolo di The Omega Man e, in italiano, dell’assurdo Occhi bianchi sul pianeta terra del 1971). La trama del primo film della serie (in totale i film furono cinque, senza contare le due serie televisive) è notissima: tre astronauti ibernati precipitano con la loro navetta in un lago di un pianeta nell’anno 3978. Scopriranno un mondo in cui gli umani sono schiavi usati per esperimenti scientifici e invece scimmie, gorilla, scimpanzè, oranghi, sono la specie dominante. Ma lo scarto del romanzo è nella scoperta di come quel pianeta sia in realtà la Terra del futuro, con il genere umano sterminato dalle guerre nucleari. Resta l’interrogativo di come invece i primati, gli altri animali e parte degli uomini siano riusciti a sopravvivere. Ma la fantascienza è soprattutto questo: organizzare una situazione impossibile e svilupparne le conseguenze.
In questa digressione non poteva mancare Philip K.Dick, autore insuperato e rivalutato appieno solo negli ultimi anni. Nel 1963 scrisse il romanzo Cronache del dopobomba (Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb); fu pubblicato solo due anni più tardi, citando il titolo del celebre film di Stanley Kubrick, Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (del 1964). Ci si trova di nuovo di fronte all’olocausto atomico. In fondo le bombe che avevano devastato il Giappone erano ancora molto vicine e lo spettro della guerra fredda, con il rischio dell’apocalisse, soffiava all’angolo della strada. A partire dalla crisi di Cuba del 1962. Dick propone due personaggi: un astronauta mandato su Marte che, dopo l’esplosione delle bombe atomiche, è costretto a ruotare intorno alla Terra; vive quindi ‘in cielo’ e coordina le informazioni che arrivano dai sopravvissuti. E un focomelico, al quale le esplosioni hanno rafforzato le facoltà mentali. Due personaggi-divinità, che semplicisticamente potrebbero rappresentare il bene e il male, entrambi venerati dai sopravvissuti.
Ma sopravvivere può non essere la… soluzione migliore. Lo dimostra, in un romanzo insuperato, lo scrittore Damon Knight nel 1955 con Il pianeta dei superstiti, pubblicato per la prima volta da Urania nel 1963 (titolo originale, The Sun Saboteurs). I reietti della Terra vivono in un altro pianeta dominato da esseri insettiformi; sono ritenuti ‘pericolosi’ perché hanno devastato il proprio mondo. Qualcuno tenta di ridare la ‘libertà’ agli uomini, ma ricade negli stessi errori compiuti per secoli: guerre, devastazioni, razzie. L’intera comunità dovrà vivere un’ultima diaspora: “Se l’umanità fosse mai riuscita a salite tanto in alto di nuovo da toccare le stelle con le sue dita insanguinate, i cittadini della galassia sarebbero stati pronti”.
Dalla natura che si rivolta all’uomo devastatore; all’uomo che spezza, prima del tempo, il ‘settimo sigillo’. Lo sguardo della letteratura è critico, purtroppo profetico se si scorrono le cronache contemporanee. Un nuovo scarto arriva da un autore italiano conosciuto quasi esclusivamente, e purtroppo, solo dai lettori di fantascienza: Lino Aldani. Nel 1979 scrive Eclissi 2000, romanzo pubblicato in Francia, Germania, Bulgaria, Polonia e Romania da case editrici ‘normali’, mentre in Italia è stato letto appunto solo dai fedelissimi di piccole collane di fantascienza, con una tardiva apertura a un pubblico più vasto nella serie Urania Collezione (purtroppo solo da edicola) nel 2006. Ci si trova davanti a un apologo sul potere e sul suo mantenimento, in un plot ‘apocalittico’: l’umanità sta viaggiando verso non si sa dove sull’astronave ‘Terra madre’. Qualcuno, da una generazione all’altra, mette in dubbio che il ‘viaggio’ si stia compiendo davvero. C’è il sospetto che l’astronave non esista, che si tratti di un ‘simulacro’ fermo da qualche parte, nella realtà di un mondo devastato da ‘qualcosa’. Un uomo e una donna cercheranno la verità. Perdendo la vita. “Il genio di Mègal il Terzo risolse il problema… trasformò la verità in una favola, fece credere a tutti che il nostro rifugio atomico fosse una mega astronave diretta verso le stelle… Mègal non mentì a nessuno: dire che al di là della barriera c’è la morte del vuoto sidereo, anziché la morte per radiazioni non è mentire”.
A questo punto si potrebbero citare romanzi come La morte di megalopoli di Roberto Vacca (1974), dove un banale incidente provoca una reazione a catena che porta alla distruzione del mondo; Conan il ragazzo del futuro di Alexander Kay (1970), anche questo post apocalittico; o Il simbolo della rinascita di David Brin (pubblicato anche con il titolo L’uomo del giorno dopo) del 1985; fino ai ‘meteo thriller’ di Alessio Grosso, editi da Mursia (Apocalisse bianca del 2004, Apocalisse rossa del 2005 e Apocalisse nera del 2006). Per chiudere il percorso, quasi un’istigazione a catalogare tutte le apocalissi letterarie per esorcizzare lo spettro dei sette angeli, vanno citate due ultime opere. In primo luogo L’ombra dello scorpione di Stephen King (The Stand, 1978). Quasi tutta la popolazione dell’America settentrionale e, si immagina, del mondo, è stata distrutta dalla dispersione di un’arma batteriologica; il 99,4 per cento della popolazione può contrarre il virus e il tasso di mortalità è totale: chi si ammala muore. Ma cosa può succedere a quello 0,6 per cento di donne e uomini ‘immuni’? Sono profughi che, quando sapranno l’uno dell’esistenza dell’altro, temeranno per la propria sopravvivenza. King naturalmente non poteva evitare di inserire un elemento soprannaturale: appare il suo anti-eroe per eccellenza, Randall Flag, l’uomo nero protagonista di altri romanzi, da Gli occhi del drago a La torre nera. Randall Flag punisce chi non lo segue con tormenti indicibili, fino alla crocifissione. E il conflitto finale verrà risolto con un’esplosione nucleare. E i sopravvissuti, davvero gli ultimi, diranno: “Pensi… pensi che la gente impari mai qualcosa?”. Non c’è che una risposta possibile: “Non lo so”.
Infine, per alleggerire la cappa di piombo, vale la pena cercare e leggere L’apocalisse può attendere di Vittorio Curtoni, uno fra i migliori autori di fantascienza. Pubblicato nel 1997, il racconto ha vinto il Premio Italia nel 1998. E’ la storia del lancio pubblicitario dell’Armageddon, un numero verde per parlare con il ‘cielo’, fra angeli e arcangeli, per capire quando arriverà l’apocalisse e ‘come’ arriverà. Con un finale straordinario.
“Lo fate o no questo Armageddon?”
“Sono davvero spiacente di comunicarle che l’Apocalisse è rimandata al febbraio del 3001”
“3001? E io come ci arrivo secondo lei?”
“Temo si tratti di problemi rigorosamente suoi”.
Parola dell’operatore Arcangelo Gabriele. E se non se ne intende lui…