[Questo articolo narrativo è stato pubblicato sull’ultimo numero di Vanity Fair, in relazione all’uscita nelle sale italiane del film Un ponte per Terabithia, un fantasy prodotto dalle stesse major che hanno realizzato le Cronache di Narnia. gg]
Aprile 1981: l’anno in cui Alfredino tinse di nero atrabiliare l’intera nazione. Io ho undici anni, sono all’angolo tra via Etruschi e viale Molise, a Milano. Via Etruschi non è una via: è un dotto biliare, un colon disumano. Le case popolari — popolate invero da piccioni postatomici e unti, oltre che da drop out e criminali e pazienti psichiatrici — sono enormi condilomi architettonici.
Sono su quell’angolo squallido, nell’aprile ’81, indosso una tuta verde con le toppe ai pantaloni che distrattamente ho messo al contrario, l’ombrello in mano perché poteva piovere e invece irradia un sole afoso, ai piedi mocassini di cuoio e in un sacchetto del supermercato un paio di finte Superga: sto andando alla ginnastica correttiva. Ho la scoliosi. Sono magro all’esasperazione. Ho la piena coscienza di essere, a undici anni, uno sfigato.
Pressappoco come i protagonisti undicenni di Un ponte per Terabithia, il bestseller fantasy di Katherine Paterson, che Disney e Walden Media, già produttori delle Cronache di Narnia, portano ora su grande schermo, con lodi sperticate perfino del rigoroso New York Times, che di rado esprime giudizi tanto definitivi: “Un film di una profondità che emoziona, e che riporta gli adulti a un passato in cui le paure potevano influenzare il corso delle loro esistenze”. Paure che possono mutare il corso di un’esistenza. Quali paure?
Torniamo a quell’incrocio milanese, squallido. Torniamo a me, ragazzino semianoressico coi pantaloni della tuta al contrario. Pochi minuti prima, Franchino e i suoi, i bulli di quartiere, mi hanno rubato diecimila lire. Venti anni dopo, Franchino si lancerà dal balcone di casa sua, urlando come un ossesso: appena tornato dalla Colombia, nell’intestino trasportava “uova” piene di cocaina e uno gli si era rotto provocando un’emorragia. Ma in quel momento, nell’81, il re dell’anti-Terabithia, cioè il padrone della realtà, è lui: il suo volto slavo, quasi mongolico, la sua pelle gitana, i suoi capelli bisunti, le sue mani già callose, il coltello sventolatomi sotto il naso, l’ordine di dargli i soldi, che io consegno insieme alla mia integralità. Avverto rabbia per la pavidità, l’inazione e l’impossibile reazione alla prepotenza: sono reso più magro da questa autocrocifissione, sono moralmente magro. Mi sento azzerato ed è soltanto uno dei punti su un continuum puberale fatto di vuoto, di malessere corporeo e famigliare e sociale. Mi difendo. Da subito, annusato il pericolo, io ho reagito con la stessa mossa di jujitsu spirituale che, Leslie e Jess, i due undicenni protagonisti di Un ponte per Terabithia, hanno eseguito: loro si inventano un regno immaginario dove sono re e regina, e dominano su troll e giganti e alberi semoventi — e io ho creato un mondo fantastico, a parte, un luogo di immersione che possa incantarmi e proteggermi, un universo dove nulla possa interrompermi e, soprattutto, come accade in tutto il fantasy, l’elemento umano sia assente. La mia difesa si chiama H.P. Lovecraft. Per chi non lo conosce, è in pratica il papà putativo di Stephen King e il figlio degenere di Edgar Allan Poe. Questo scrittore (che più che un uomo pareva l’allucinazione di un primate antropoide) creò universi paralleli inquietanti, da accapponare la pelle: dimensioni aliene occulte, pronte a riemergere da passati remotissimi, quando ancora l’umano non abitava la terra; oppure creature amorfe che popolano mondi paralleli ma incombenti, esplorabili attraverso porte magiche, aperture verso l’orrore sacro e primario. C’era un’antologia di Lovecraft, a casa mia, curata da Fruttero & Lucentini, i primi a importare in Italia questo genio del terrore. L’antologia si intitolava I mostri all’angolo della strada e in copertina l’illustrazione era opera di un Escher invasato: scale che terminano nel proprio inizio, palazzi che non possono esistere secondo le leggi della geometria euclidea, e tutto questo era popolato da figure minuscole ma mostruose, un inferno di Bosch ridotto a cover editoriale. Ecco dove fuggivo io. Lì è nato lo scrittore Giuseppe Genna. E’ nato nel fantastico, questa potenza che fa dire a Victor Hugo che “nessuno sa mantenere un segreto meglio di un bambino” — poiché il segreto fa sognare ed esserne messi a parte fa trasvolare verso dimensioni che la fisica quantistica afferma esistere davvero. Terabithia è vera. E’ vero che Hugo asserisce anche che “sono i libri che un uomo legge, quelli che lo accusano maggiormente”, ma i libri che un bambino legge sono quelli che maggiormente lo scagionano, poiché lo proiettano verso latitudini aliene, che risolvono, terapeutizzano, suturano ferite. L’incantesimo: ecco la forza della narrazione, di qualunque narrazione si tratti. Il racconto è visione: esseri fantastici e realissimi popolano l’immaginario umano dai graffiti di Lascaux all’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, all’ultimo film di David Lynch, all’ultima puntata di Lost. La Terabithia che salva il bambino è l’arte che salva l’uomo. Il medium e lo sciamano: questi due pontefici eterni della nostra specie — ecco i narratori. Chi sogna non subisce: agisce, cresce, sorpassa ogni trauma.
Quanto ho appena scritto non è vero: è vero anche il contrario. Ecco la maledizione dello scrittore. In Un ponte per Terabithia, il regno immaginario che protegge i due ragazzini dalle scosse col reale ha un valore terapeutico accertato. Jess e Leslie, entrambi undicenni, non vivono però nei dintorni di via degli Etruschi. La mia prima autentica esperienza letteraria è scolastica: un tema in forma di racconto per un concorso nazionale lanciato da una casa produttrice di modelli giocattolo di automobili. Chiunque vince. Scrivo il resoconto della mia Terabithia. Il giorno della premiazione non è tale. Arriva in classe un enorme contenitore: chiunque abbia scritto il racconto vince il suo Maggiolino, le confezioni sono nominali, a ogni allievo una macchinina. Attendo che venga chiamato il mio nome. A scatolone vuoto, Giuseppe Genna è lì, magro e scoliotico, senza il suo Maggiolino. Un errore, dev’essere saltato il mio nome, la scatola è incompleta. E’ umano. Tutto è umano: che mi vengano le lacrime agli occhi, che l’operaio non abbia infilato nella scatola la confezione destinata a me, che il Maggiolino mancante non arrivi mai. Era il racconto a garantirmi il premio e sono l’unico a non avere un premio. Torno muto a casa, sotto l’occhio vitreo di una sfiga che ha per me le sembianze di una Medusa. La mia prima prova letteraria mi ha lanciato addosso una profezia: la letteratura non salva, cura i traumi ma le tragedie accadono comunque. E’ all’incirca quanto capita nel film a Jess: è introverso, strapieno di problemi, e riesce a liberarsi soltanto disegnando e correndo come un Carl Lewis in erba. Leslie, una ragazzina appena trasferitasi nella cittadina dove vive Jess, si traveste da ragazzino e straccia Jess nell’annuale corsa a cui lui sembrava destinato.
Il New York Times ha còlto alla perfezione la particolarità del film, affermando che gli spettatori adulti saranno risucchiati nei propri ricordi d’infanzia: quei timori e tremori per cui, se mi obbligassero a tornare undicenne in via degli Etruschi, per tutta risposta chiederei di spararmi un colpo alla tempia all’istante. Che sia felice o infelice (la seconda che ho detto, quanto a me), l’adolescenza determina una zona minata in cui pare di esplodere a ogni passo. Si è privi di mappa, il piede è incerto e, a furia di incappare in esperienze disastrose, diventa certo: di sicuro calpesterà una mina. Di fronte a questo sisma continuo, chiunque si difende come può: il futuro scrittore con la letteratura, che a undici anni è il ponte per Terabithia.
Gli induisti, i buddhisti, i maestri zen, gli iniziati alla Cabbala ebraica, i sufi, gli alchimisti: tutti costoro osservano che, quando il bambino non è più bambino, Terabithia tende ad avvizzirsi. Babbo Natale ha un’anagrafe limitatissima. Uno strabismo umano: da un lato, queste fantasmagorie salvifiche conquistano l’eternità (Tolkien è eterno) e dall’altro sfumano, per ogni adulto, in un oblio da cui chiedono disperatamente di essere recuperate. E’ il motivo per cui Un ponte per Terabithia sarà un successo mondiale, come tutti i film fantasy che l’hanno preceduto. Ed è la ragione per cui io persisto a scrivere: i miei mostri continuano ad attendere all’angolo della strada.