SIAMO GLI AUTONOMI, SIAMO I PIU’ DURI…
di Valerio Evangelisti
[E’ il trentennale del ’77 e gli interventi in merito si moltiplicano. Spesso provengono da gente che, di quel movimento, non sa nulla e non ha ancora capito nulla. Specie se il tema è l’ “autonomia operaia”, l’ala più estremista. Il mio pezzo che propongo, già apparso su Alias, è compreso nell’antologia Gli Autonomi (Derive/Approdi, 2007, pp. 506, € 25,00; primo di tre volumi). Seguiranno estratti da Paolo Pozzi, Insurrezione, un romanzo estremamente realistico e sincero appena uscito presso lo stesso editore.]
Se degli autonomi bolognesi della fine degli anni ’70 si è molto parlato e scritto, pochissimo si è detto di quelli dei primi anni ’80. Certo, non costituivano più un movimento di massa. Quello era stato distrutto dalla repressione seguita al rapimento e all’uccisione di Moro, dalla sfiducia generalizzata, dal diffondersi dell’eroina, dal ripiegamento di molti sulla propria vita privata. Tuttavia qualcosa era sopravvissuto, e non si trattava di un fenomeno folcloristico o marginale.
Non c’erano più i collettivi universitari, né quelli di quartiere; le esperienze di auto-organizzazione dei giovani lavoratori, specie precari, proseguivano, però con connotazioni politiche via via meno marcate, e slegate da tutto il resto.
“Il resto” consisteva in un aggregato di alcune centinaia di giovani, che continuavano a riunirsi nelle sedi “storiche” di piazza Verdi e a frequentare i bar della zona. Si trattava in prevalenza di studenti fuorisede, quasi tutti provenienti dal meridione e con curricula studiorum tra i più travagliati, perché interrotti da brevi periodi lavorativi. C’erano poi alcuni (rari) autonomi di antica militanza, e gente che, come me, proveniva dalla diaspora della vecchia sinistra parlamentare. C’erano giovani anarchici e giovanissimi liceali. Esistevano anche, in posizione minoritaria, figure eccentriche e poco inquadrabili.
Ricordo in particolare “Bidellus”, un laureando in astronomia che viveva come un vero e proprio barbone: girava con una bottiglia di vino nascosta in un sacchetto di carta, chiedeva l’elemosina (lui chiamava la faccenda “fare la colletta”). Politicamente era però lucidissimo. Anni dopo si sarebbe laureato al Dams e avrebbe avuto un’immediata proposta di lavoro da parte di Mediaset. Rifiutata, naturalmente, a beneficio della vita di strada, che continua tuttora.
Un altro dei freak, Lele, si faceva vivo solo di tanto in tanto. Si trattava di un ladro di professione che entrava e usciva di galera, protagonista non secondario del movimento del ’77. Capeggiava anche un gruppo di ultrà allo stadio. Era di una simpatia trascinante, ogni sua frase era una battuta. Capitava a trovarci e a impartirci insegnamenti, tra una girandola di aneddoti, poi spariva di nuovo. Più tardi fu allontanato perché aveva rapporti troppo stretti con alcuni funzionari di polizia. Tentò di spiegare che ciò faceva parte del suo mestiere, ma non fu creduto. Invece, probabilmente, stava dicendo la verità.
Sono forse all’origine, sia pure in via indiretta, dell’avvicinamento all’autonomia bolognese di una componente prima di allora estranea. Nell’estate del 1980 ero stato a Londra. Al ritorno, incontrai in Piazza Verdi “Pelo”, uno dei miei migliori amici di quegli anni.
«I punk non sono affatto i fascisti che noi crediamo» gli dico. «Li ho visti in Hyde Park: una folla. Manifestavano contro il razzismo.»
«E le svastiche?» chiede lui.
«Le portavano solo i Sex Pistols, adesso non le porta più nessuno. E i Clash sono compagni al cento per cento.»
«Io un punk lo conosco. Domani gli vado a parlare.»
Cominciò così l’alleanza, difficile ma prolungata, tra punk, skinhead e autonomi. Ebbe inizio in un’osteria di via Belle Arti, allora gestita da un altro settantasettino, Maurizio, e da Patrizia, la sua bella compagna. Entrambi leggendari, entrambi provenienti dalle fila di Rosso. Un grosso numero di punk, quasi tutti poco più che adolescenti, era difficile da “gestire”. Si ubriacavano con facilità, pisciavano e vomitavano in strada. Maurizio e Patrizia avevano i loro problemi, la notte, a tenere a bada quella masnada.
Per fortuna, però, esistevano anche i punk molto politicizzati. Si ispiravano ai Clash e alla band anarchica inglese dei Crass. I gruppi di punta erano al tempo stesso politici e musicali. C’erano i Raf Punk, che però erano un po’ troppo pacifisti, per l’area dell’autonomia, e preferivano frequentare la sede della Federazione Anarchica Italiana. Più vicini a noi erano gli Irah, guidati dall’inflessibile “Andropov”, e i Nabat, che erano skinhead.
Quando dico “noi” bisogna intendersi. All’inizio degli anni Ottanta Bologna subiva la vicinanza di Padova, dove gli autonomi erano una potenza da quasi un decennio. Da là venivano a trovarci delle specie di “commissari politici”, inviati a dettarci la linea. Quando uno di essi, di nome Aldo, fu spedito a “colonizzarci”, riuscì nell’intento meglio dei predecessori.
Si trattava, in realtà, dell’esponente di una linea scissionista dell’autonomia padovana, ma di questo a Bologna si avevano notizie incomplete. Aldo era portatore di ipotesi “movimentiste”, che valorizzavano la cosiddetta “conquista degli spazi sociali”. Fu lui a condizionare la nascita del CPT, Comitato Proletario Territoriale, quale aggregazione di autonomi in alleanza con i punk (e con la componente freak politicizzata). Da parte sua, il CPT fu all’origine dei due primi centri sociali bolognesi, il Crack 1 e il Crack 2 — senza alcun riferimento alla droga omonima, che allora non esisteva ancora, o non si chiamava così.
Qui devo fare alcune precisazioni indispensabili. Ciò di cui parlo non pare avere alcun connotato direttamente politico, quanto meno in relazione a un concetto tradizionale di politica. In realtà, le tesi di Toni Negri sull’“operaio sociale” , già abbondantemente diffuse prima del ’77, si erano fatte strada. L’“operaio sociale”, che partecipa al processo di valorizzazione del capitale anche quando non è impegnato in un processo direttamente produttivo, faceva per noi. Consentiva di concepire un movimento operaio senza operai veri e propri, rendendo centrale una figura di giovane proletario — fosse egli studente, lavoratore precario, punk, ultrà da stadio o quant’altro — individuabile non per la sua posizione lavorativa, bensì per la sua collocazione territoriale.
Di conseguenza, scopo primario delle avanguardie era dare all’operaio sociale punti di riferimento localizzati — anche sul piano della cultura — fuori del luogo di lavoro, fino a farli diventare nuclei di “contropotere”: embrioni di società alternativa destinati a moltiplicarsi per metastasi. I centri sociali, appunto, in cui — come aveva teorizzato anni prima Lotta continua — il lato personale era politico e lo scopo ultimo era “prendersi la città”.
Un programma entusiasmante, ma cui aderii con molte riserve. Da quando avevo lasciato la sinistra extraparlamentare — prima Lotta Continua, poi Avanguardia Operaia, e infine la complicata diaspora di LC — avevo simpatizzato per gli autonomi romani di via dei Volsci, più “bolscevichi” nel modo di fare. Questi erano alleati all’autonomia padovana mainstream nel Comitato Anti-Anti (Antinucleare Antimperialista). Però gli unici autonomi attivi a Bologna erano quelli del CPT, legati ai padovani dissidenti e a un giornaletto chiamato “Paspartù”. Vi aderii, per quanto ancora idealmente vincolato ai Volsci.
Il primo Crack durò un mese appena. Sorgeva in via San Carlo, in uno di quei piccoli prefabbricati che i muratori costruiscono quando hanno in corso lavori, e a volte lasciano a lavori finiti. Bastò un concerto degli Irah perché il Comune mandasse le ruspe. Furono distrutti anche tutti gli strumenti musicali, e gli effetti personali. Si disse che la denuncia proveniva da un avvocato ex di Lotta Continua che abitava nel palazzo di fronte, futuro difensore di Adriano Sofri.
Ma dopo pochi mesi il Crack rinacque, questa volta in via Riva di Reno. Si trattava anche in questo caso del capanno di un cantiere abbandonato, però molto più grande. Dietro aveva le rovine dell’ex manifattura tabacchi, davanti a una bicocca cadente, in cui non abitava nessuno.
Il CPT si installò nel Crack 2 alla testa delle sue legioni di “operai sociali”. Che cosa si faceva? Be’, anzitutto si viveva assieme. Eravamo là tutte le sere, a decine. Si beveva, si discuteva, si conversava, si metteva su musica. Circolavano canne, ma non erano in alcun modo il tema centrale, allora: non avevano una valenza “ideologica”. I punk erano sempre presenti, e grazie a loro si organizzavano dei concerti periodici, con band venute da tutto il mondo: i D.O.A. dal Canada, i Soldiers of Fortune dalla Germania. Il mio ruolo era quello di barista.
Assieme a decine di ragazzi, arrivavano strani visitatori. Una sera, un ladro entrò da una finestra, attirato da una borsetta abbandonata su un tavolo. Colto sul fatto, si fermò a bere e a parlare con noi. Al termine della discussione disse che gli eravamo simpatici, ma che però lui stava dalla parte del capitalismo, per ragioni professionali: senza capitalismo, non si sapeva a chi rubare.
Un’altra sera arrivò la polizia, teoricamente per proteggerci da una minaccia di aggressione. Cominciammo a parlare con un agente della Digos. Si rivelò di sinistra e scopri di concordare con noi su tante cose. Il congedo fu cordiale.
A parte la vita comunitaria, facevamo volantini e giornaletti. Ospitavamo la Commissione Mensa dell’università, impegnata a fare ridurre il prezzo dei pasti. Guidavamo occupazioni di case. Di tanto in tanto c’era una manifestazione, spesso su temi internazionali. Fu in una di quelle occasioni che un compagno di nome Rosario, tuttora attivo, compose assieme a Pelo e ad altri il nostro inno semiserio:
“Siamo gli autonomi, siamo i più duri,
Coi guanti neri, gli occhiali scuri.
Siam l’ala dura del movimento,
Facciam paura, facciam spavento.
Noi siamo altissimi,
Siamo bellissimi,
Siamo durissimi,
Siam cattivissimi.”
Alcune manifestazioni sfociarono in effetti in scontri violenti, con lancio di sassi e molotov, e barricate fatte con i cassonetti della spazzatura incendiati. In quei casi era curioso l’atteggiamento dei leader del CPT nei miei riguardi. Mi consideravano benignamente una delle menti pensanti, da non esporre a un arresto. Così mi tenevano ai margini degli scontri di strada.
E’ difficile dire quanto efficace fosse allora l’azione del CPT. Di sicuro, coagulava attorno al Crack 2 decine, se non centinaia, di giovani (cosa che la casa madre padovana, cioè il centro sociale dissidente che produceva “Paspartù”, si sognava). La sua incidenza sulla vita cittadina, per uno che come me proveniva dal ’77, appariva però scarsa, se non, occasionalmente, in termini di ordine pubblico.
Vi fu anche una crisi seria con i punk (altre crisi, meno serie, accadevano ogni giorno). Fu iniziata, senza volere, da me e da Daniela, la mia ragazza. Comperammo quasi per scherzo una bandiera dell’Unione Sovietica. Rosario la volle issare sull’ingresso del Crack. Ciò non piacque alla maggioranza dei punk, che si richiamavano all’anarchismo. Negli stessi giorni il leader del CPT, denominato Totò, chiese l’espulsione dal Crack di un anarchico, accusato di vigliaccheria nel corso di scontri recenti. Tornarono a galla, attualizzate, tutte le controversie tra anarchici e marxisti dell’epoca della Prima Internazionale.
Il reprobo, di nome Pasquale, fu sottoposto a un processo di stampo staliniano e venne espulso. I punk se ne andarono con lui.
Io me ne andai con Daniela poco tempo dopo. Era stata invasa dagli americani l’isola di Grenada, e si era formato un comitato di sostegno ai grenadini che aveva tenuto al Crack la sua prima conferenza pubblica. Negli stessi giorni io avevo letto il libro di Jean Ziegler Les Rebelles, in cui si parlava della rivoluzione sandinista in Nicaragua, sintesi tra socialismo e democrazia dal basso. Avevo voglia di partecipare a sommovimenti sociali profondi, capaci di cambiare il mondo. D’altra parte, gli autonomi del Comitato Anti-Anti parevano molto interessati alle tematiche internazionaliste, che invece lasciavano piuttosto indifferenti i loro cugini del CPT.
Me ne andai per iniziare un percorso molto diverso, che mi avrebbe trascinato in un altro continente. Tuttavia continuai a ricordare con affetto gli anni del Crack, e quell’inno demenziale ed esilarante: “Siamo gli autonomi / Siamo i più duri / Coi guanti neri / Gli occhiali scuri…”.
Una sintesi del famoso slogan del ’77 “Duri ma con gioia”.