di Daniela Bandini
Giacomo Cacciatore, Figlio di vetro, Einaudi Stile Libero, 2006, pp. 168, € 14,00.
Figlio di Vetro. Vetro di tutte le sfumature, di tutti i riflessi di tutte le deformazioni che un viso assume quando si riflette in esso. Vetro, fragile e malleabile, dai candidi bagliori accesi di Murano ai bottiglioni impolverati nelle vecchie cantine coperti di polvere e muffa. Un figlio di vetro sarà un’immagine speculare e storpiata, un accanito e rafforzato riemergere e rituffarsi nel passato, schegge di se stesso sparse nella via e nei luoghi incantati dell’infanzia, cocci aguzzi sui quali ferirsi. Come il profumo della pasticceria, di quando bambino andava con suo padre in quel luogo incantato di Palermo, un profumo che andava oltre l’aroma intenso di crema e ricotta, un perdersi, un estro nel quale bearsi nell’inconsapevole benessere di chi ancora ignora che quel benessere rassicurante e protettivo ha radici lontanissime e un equilibrio pericolosamente precario.
E tutti quegli uomini apparentemente nullafacenti, quasi lascivi, orgogliosi della loro pigrizia, un lusso da gente arrivata, lenti nel parlare per ostentare il dominio sul tempo, gente che parla lentamente perché solo i fessi si arrabattano dalla mattina alla sera cercando di portare a casa i soldi necessari a pagare bollette, mutui, rate, i sogni dei propri figli.
Questo bambino di vetro si chiama Giovanni, figlio di Vincenzo Vetro. La televisione è entrata nella vita quotidiana di Giovanni e Vincenzo Vetro. Un televisore non è la televisione: il televisore era un sogno abbagliante dentro una vetrina, un desiderio subito esaudito senza pagare nulla, solo le frasi giuste al negoziante giusto e quello te lo mette addirittura nel bagagliaio, mentre la televisione porta il mondo dei telefilm americani degli anni ’70, George e Mildred, Happy Days, coetanei così diversi, con famiglie dai padri con un lavoro regolare e madri affaccendate nei lavori domestici e shopping, mica come la sua intontita dagli psicofarmaci. E spesso quelli dei telefilm mangiano fuori, anche in un locale senza le pretese, né il lusso del ristorante, allegri e pieni di fiducia nel futuro. “Tutto sotto controllo”, sembrano ripetere, con in più la pizza che il padre di Giovanni gli offre quando vince alle corse.
La famiglia – “era uno che giocava con due famiglie”, come la madre di Giovanni gli ripeteva di suo padre – sembra una cosa grave, gravissima, il tradimento, il corpo sfracellato sull’asfalto per una fine già intuita, una logica conseguenza, quello che potrebbe accadere anche al genitore
Un po’ diverso, anzi diametralmente diverso da Starsky e Hutch, sono diversi gli odori e la gente, il colore della gente l’odore della gente soprattutto, le sue espressioni, le mimiche facciali all’apparenza impassibili ma capaci di cogliere qualsiasi sfumatura. Qui a Palermo sembra tutto sovraesposto alla luce eccessiva, eppure così indefinito. Tutto sembra risolversi in un mattino e il destino di un uomo dipende da un saluto ricambiato, tutti affannosamente alla ricerca di qualcuno che ti possa cambiare la vita, ma sempre, sempre, come un qualcosa di dovuto.
Pare che nessuno sia padrone del proprio destino, che nessuno possa redimersi dalla sua condizione iniziale, è tutto apparentemente semplice e classificabile: gli uomini e le donne, dipende da chi vieni al mondo, in che quartiere nasci, chi sono i tuoi parenti. Nessuno sembra affrancarsi mai, neppure se diventa ministro: rimane lì, inchiodato al quartiere e al giudizio degli zii, col suo destino segnato anche se continua a dire no, no, non è così.
Così è la vita dei Vetro, Giovanni e Vincenzo. La parola mafia è un’illusione, è una definizione giornalistica, la realtà è che si tratta di una maniera come un’altra di vivere, più rischiosa ma che può dare le sue soddisfazioni. “Se il male non lo vedi, non esiste”, è una delle frasi preferite dal padre. Non è neanche una scelta, è una condizione. E giocare con due famiglie è sempre pericoloso; credi di avere tutto sotto controllo poi qualcosa ti sfugge, e da quel momento la guantiera di pasticcini con la quale uscivi sempre orgogliosamente sottobraccio la devi pagare. Devi fare la fila alla cassa come tutti gli altri. Improvvisamente sei uno dei tanti, il salutarti passa dal deferente al trascurato, dalla voglia o meno di chi ti è di fronte, il sospetto grava come un macigno.
Sostenere due famiglie, tifare per due squadre avversarie, essere gli attaccanti e i difensori allo stesso tempo, reggere il peso, soprattutto. Giovanni si ritrova per casa un uomo quasi irriconoscibile che ha gli stessi suoi gesti, la dinoccolata trascuratezza aggravata dalla malattia, l’inesorabile declino che travolge tutti sottolineato dall’odore dolciastro dell’alito diabetico. E quella passione per i pasticcini e le paste, la vista che se ne va, l’affanno, il sudore acre.
In questo intenso romanzo di Giacomo Cacciatore i dialoghi sono strappati dall’apatia, essenziali e terribilmente realistici, impregnati dalla fatica del vivere, del reggere le speranze, il sospetto e la dignità calpestata. E’ notevole come la fisicità stessa di vivere, la sua terribile banalità, risaltino con drammatica rassegnazione in queste pagine. “Il vetro si rompe. Il vetro si può incollare”. Ma il passato, questo nostro angoscioso nucleo di uomo a cui di tutto dobbiamo rendere conto, implacabilmente ci sottrae la bellezza di vivere. I peccati dei padri ricadono sui figli, sembra questo l’urlo lacerante che esplode in una tiepida mattina del maggio ’92, lo stesso urlo della bomba che farà saltare in aria Giovanni Falcone e la sua scorta.