di Beppe Sebaste
[Il filosofo della contemporaneità postmoderna è morto il 6 marzo scorso. Pubblichiamo il resoconto che lo scrittore e giornalista Beppe Sebaste – che ha inaugurato il suo sito personale: vi consigliamo caldamente di visitarlo – scrisse per l’Unità nel 2001, dopo avere incontrato Baudrillard. gg]
Incontro Jean Baudrillard dopo più di vent’anni. Ne avevo 18 quando gli feci la prima intervista italiana su una “fanzine” più o meno alternativa, all’epoca del Beaubourg e dell’esproprio urbanistico del quartiere operaio delle Halles. Scopro con costernazione, rivedendo le sue parole di allora – “iperrealtà”, “simulazione”, potere come “parodia” di se stesso, “simulacro” – che esse descrivevano già il processo vistosamente in corso oggi in Italia e nel mondo, molto prima dei suoi ultimi due libri: Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, edito in Italia da Cortina, e Lo scambio impossibile, edito pochi mesi fa da Asterios. Che cos’è l’attualità, e che rapporti deve intrattenere con essa il pensiero?
In Italia è la festa della Liberazione, cui non ho quasi mai mancato di partecipare. A Parigi, come forse ovunque ma a un grado più alto, continua come ogni giorno lo smagliante spettacolo di merci e servizi culturali, belli e intelligenti, offerti ai consumi della gente. Le lunghe file per accedere alla più che riuscita esposizione del Beaubourg sugli Anni Pop – scritta bianca su fondo rosa shocking – celebra quell’estetizzazione della società che iniziò con la Pop Art incorniciando oggetti di uso domestico e finì serializzando i volti, non solo quello di Marilyn Monroe o di Mao, ma, nella sostituzione che la televisione ha fatto della realtà, via il Grande Fratello, i volti di tutti noi. Quale differenza oggi tra una porzione qualsiasi del reale e la sua riproduzione e messa in valore come arte o intrattenimento? Quale differenza tra una vetrina, un’installazione, un museo contemporaneo e il deposito degli oggetti smarriti? E tra la realtà e la cosiddetta finzione? “La guerra del Golfo non c’è mai stata”, scrisse provocatoriamente Baudrillard all’indomani dei bombardamenti sull’Iraq, primo evento mediatico a non essere passato per immagini televisive ma solo evocato da esse. Ovvio che il “modello italiano” di iperrealtà, dove la televisione ha sostituito così bene la politica al punto di creare forse, con uno zapping elettorale, la prima dittatura diretta di pubblicitari al mondo, interessi uno come Baudrillard, ma sia anche un po’ banale, per chi vede già da tempo la realtà come una sterminata pubblicità di se stessa.
Gli ricordo come nei suoi Taccuini (Cool memories), nel 1993 notava che “stigmatizzare i milioni di italiani ‘vittime consenzienti’ di Berlusconi, denunciare la stupidità delle masse e avvolgersi nelle pieghe della divina sinistra e della sua democratica arroganza (sia) un’analisi miope e convenzionale della Ragione politica. Le masse ‘cieche’ hanno una visione più sottile, transpolitica forse, poiché sanno che il potere è un luogo vuoto e senza speranza, e che occorre metterci un uomo dello stesso stampo, vuoto, buffone, istrione e ciarlatano, che incarni idealmente la situazione: Berlusconi, ovvero il sistema che ci meritiamo, per quanto ci risulti insopportabile”. Resta che nel mondo delle immagini, dove tutto il reale deve divenire immagine, a prezzo della sua scomparsa, in cui il mondo stesso non è che un fantasma o una clonazione di sé, l’ascesa di Berlusconi, prima nelle televisioni e poi nel vuoto lasciato dalla politica, rappresenta forse proprio la tragica realizzazione di quello slogan del ’68 che pretendeva “l’immaginazione al potere”. E’ quando l’immaginazione va al potere, che l’immaginazione perde il suo potere.
Baudrillard, che è fotografo oltre che filosofo, preferisce parlare allora del silenzio delle immagini, della resistenza che certe immagini compiono di fronte alla violenza del mondo detto virtuale: quelle del grande fotografo italiano Luigi Ghirri, e quelle che egli stesso scatta (segnalo che una mostra di Baudrillard è in corso allo spazio FNAC di Milano).
“La violenza dell’immagine, e in generale quella dell’informazione, o del virtuale, consiste nel fatto che essa fa scomparire il reale. Tutto deve essere visto o visibile. Il commercio delle immagini sviluppa un’indifferenza al mondo reale, che diviene un’inutile funzione o una fantasmagoria, come le ombre sui muri della caverna di Platone. Esempio di questa visibilità forzata è la TV, nelle trasmissioni dove tutto è offerto in pasto alle telecamere e ci si accorge che non c’è più nulla da vedere. Mito di una visibilità poliziesca, di un potere di controllo in cui l’operatore stesso è divenuto invisibile, e si è come interiorizzato negli spettatori, trasformati anch’essi in immagini”. Ecco, in quello che resta oggi della politica, avviene lo stesso processo di svuotamento, di de-realizzazione, in cui la realtà diviene il suo simulacro iperreale e illusorio. E allo stesso modo che nella politica e nel lavoro del linguaggio, possiamo “resistere al rumore, alla parola, con il silenzio; resistere al movimento, al flusso, all’accelerazione e allo scatenarsi dell’informazione coll’immobilità e il segreto silenzioso della foto; resistere all’imperativo morale del senso e del valore con il silenzio del significante puro. Tutto il contrario di un flusso di immagini prodotte in tempo reale, che svaniscono pure in tempo reale, occorre rendersi assenti, per fare sorgere finalmente l’oggetto, evento puro, singolarità”.
A proposito di eventi: nonostante la mia nostalgia per la ricorrenza della Liberazione (guarda caso, mi manca non seguirla “in diretta” su un TG italiano), non posso ignorare con Baudrillard che “il processo di liberazione non è mai innocente, parte da un’ideologia e da un movimento idealistico della storia. Tende sempre a una riduzione dell’ambivalenza fondamentale del Bene e del Male. Buono o cattivo, il fatto di essere “liberato” ci assolve da un male originario (…) eliminazione del continente nero, della faccia oscura, della parte maledetta, assunzione del regno del valore… Il modello roussoiano di una destinazione felice, di una vocazione naturale, di una liberazione, è un’utopia, continua Baudrillard, non si può liberare il Bene senza liberare il Male, e l’ambivalenza è definitiva e senza fine. Solo che, oggi, non essere libero è immorale, e la liberazione è d’obbligo, un sacramento democratico.” Liberato da cosa, e per fare cosa? “L’uomo “liberato” diventa responsabile, a pieno diritto, delle condizioni oggettive della sua esistenza. Destino perlomeno ambiguo: il lavoratore “liberato”, ad esempio, incappa così nelle condizioni oggettive del mercato del lavoro.”
L’infelicità oggi dell’uomo è di galleggiare in un universo virtuale, estraneo e insieme famigliare, e perciò inquietante, dove ogni “senso”, ogni “segno”, deve il suo diritto di esistere ad una equivalenza al “valore”. E’ questo il vero volto della globalizzazione, spiega Baudrillard – ipertrofia e inflazionamento della sfera dell’economia e dello scambio, immensa finzione che ingloba le nostre vite ma che a sua volta “non si può scambiare con niente”. Baudrillard non si limita a descrivere il decesso della realtà e dell’esperienza, ma indica anche alcune vie d’uscita, cioè di salvezza, naturalmente paradossali, passaggi là dove non c’è passaggio (ciò che i filosofi chiamavano “aporìa”), e che per lui si chiamano “silenzio”, “evento”, “singolarità”, “acting out”, concetti di un pensiero critico che si vuole “radicale”. Se la sua formulazione filosofica appare paradossale, è perché qualsiasi liberazione non può che avere inizio nel linguaggio.
La stessa libertà è un’idea, un segno, un valore, e realizzandola l’abbiamo perduta, un po’ come accade per il desiderio. La libertà condivide oggi la sorte di tutti i valori defunti e riesumati dal lavoro del lutto. E penso, ascoltandolo, al bel verso con cui René Char definisce la poesia, “amore realizzato del desiderio che rimane desiderio”. “Bisognerebbe liberarsi della libertà stessa, conclude Baudrillard, così come della volontà, dell’emancipazione. Come scrivo ne Lo scambio impossibile, la nostra società di servizi è una società di servi, di uomini asserviti al loro proprio uso, alle loro funzioni e alle loro performance – totalmente emancipati e totalmente servi”.