di Mauro Gervasini
Conversazione in treno tra due ragazze e un ragazzo, probabilmente studenti. Commentano la puntata di una trasmissione Tv intitolata Il bivio, andata in onda la sera prima. Una di loro sintetizza la vicenda sotto i riflettori: una ragazza subisce l’abuso di un parente in tenera età, poi crescendo diventa una campionessa di kickboxing («Come la tipa di Million Dollar Baby» è il commento della narratrice). I ragazzi si domandano con una certa malizia dove stia “il bivio” in questa storia. Si presuppone che se la fanciulla in questione avesse preso una strada invece di un’altra avrebbe avuto un destino diverso.
Lo studente che ha ascoltato fa notare la banalità della questione («Che cazzata è…! Ovvio che chiunque scelga una cosa invece di un’altra vivrà di conseguenza»). Piuttosto svegli, i ragazzi. Però tutti e tre tentennano sul quesito fondamentale: è una storia vera? Qualcuno azzarda un’improbabile scorciatoia («Forse è vera la prima parte») ma si è disorientati di fronte a un racconto costruito ad hoc spacciato per autentico e del quale si percepisce invece l’essenza mistificatoria.
Il fatto di non avere mai visto una puntata di Il bivio non ci impedisce di ritentere verosimili ma false le sue storie. Se ci pensate bene, i tasselli fondamentali dell’immaginario del nuovo millennio sono costruiti su questo sottile (subdolo) paradosso. I reality show in televisione, la docufiction al cinema, il factual in letteratura o nel giornalismo scritto. Il paradosso è per esempio quello di Borat: il presumibilmente vero ma verosimilmente falso che sorregge il film. Il pubblico pensa che la realtà delle interviste dello squinternato reporter kazako sia quella dello schermo. Una specie di candid camera i cui protagonisti sono vittime della dialettica del comico, loro malgrado. Ma allora, chi riprende chi e cosa? Per circa metà del film, a livello diegetico (quel che attiene alla storia raccontata, la “finzione”), il produttore esecutivo basso e grasso del reportage, colui che materialmente dovrebbe fare le riprese, è assente. E quindi, il film chi lo gira? Una troupe? Come poter credere all’autenticità dell’evento se è verosimile pensare che davanti agli intervistati ci siano almeno tre tecnici della 20th Century Fox perfettamente visibili? Anzi no, la domanda è un’altra. Come può essere lo spettatore così ingenuo da crederci?
La verità non esiste, ci sono solo storie, scrive Jim Harrison. Purtroppo non è più così. Se la scrittura postmoderna, al cinema prima che altrove, ha inesorabilmente eroso la percezione di autenticità che era propria della narrazione classica, gli attuali dispositivi di manipolazione della realtà sono diventati la forma e la sostanza della nuova fiction. Non solo in televisione (i reality o le storie finte di programmi come Il bivio, appunto) ma anche sul grande schermo. Lo dimostrano i cosiddetti “mockumentary” come il recente Death of a President di Gabriel Range, sul finto attentato a George W. Bush ricostruito come fosse vero. L’autore è senz’altro in buona fede e animato dalle migliori intenzioni politico-artistiche: perché, però, un’opera di finzione come The Manchurian Candidate di John Frankenheimer — va bene anche il remake di Jonathan Demme – è più incisiva pur affrontando temi simili o contigui? Perché è elaborazione della realtà, mitopoiesi in senso letterale. Lo spettatore si confronta con un racconto che favorisce un coinvolgimento “caldo” e non con una rappresentazione didascalica il cui interesse maggiore è generato proprio dalla tecnica di manipolazione. Guardando Death of a President ci si domanda sorpresi come diavolo abbia fatto Range a montare il finto funerale del Presidente con il vero Cheney tra gli oratori. La risposta è semplicissima: quello è il funerale di Reagan. Chi guarda non lo sa e sposta l’attenzione dagli obiettivi polemici del film (nobilissimi) alla perizia con il quale è stato realizzato.
Paragonare titoli come Borat e Death of a President sembra azzardato. Eppure entrambi, con finalità e modalità differenti, ratificano la pseudoverità come forma della rappresentazione. Il primo fingendo che la messa in scena (vale a dire la finzione) sia verità, il secondo affermando da subito che è finta ma costruendola in modo che appaia vera. Nessuno dei due può permettersi di mettere in discussione il proprio (perverso?) teorema estetico, perché per le regole della fruizione di oggi il sangue che si vede è sempre sangue anche se è vernice rossa.