di Nevio Galeati
“Perfino se uccidessero un milione di noi, ce ne sarà un altro milione pronto a morire. Non permettiamo mai a nessuno di restare nel nostro paese”. È l’estate del 1980 quando il giornalista Robert Fisk raccoglie questa testimonianza da un mercante del bazar di Kabul (da Cronache mediorientali, il Saggiatore, 2006). Due affermazioni drammaticamente vere perché negli otto anni successivi, durante la guerra contro i russi, morì appunto un milione di afghani; almeno quattro milioni restarono feriti e ancora altri sei milioni furono costretti a lasciare il paese dei pashtun.
Oggi, mentre la Nato fa scattare l’operazione Achille, in anticipo rispetto alla primavera del calendario (non a quella meteorologica, ma se il clima è impazzito resta colpa degli dei, non degli uomini…); mentre il governo va a votare il decreto che finanzia la missione appunto in Afghanistan; mentre poi il batterista-leghista Roberto Maroni chiede il raddoppio delle truppe italiane, i talebani hanno rapito l’inviato del quotidiano Repubblica, Daniele Mastrogiacomo. Come nei cosiddetti ‘anni di piombo’ quando venivano gambizzati, i giornalisti sembrano divenuti un obiettivo a parte; merce da usare per scambi di prigionieri, naturalmente carne da macellare se si toccano tasti troppo delicati (il caso Ilaria Alpi doveva averlo drammaticamente dimostrato, ma…). Questo mentre oltre un quarto di secolo fa, in un dramma analogo, venivano accolti come testimoni indispensabili di una tragedia. Eppure Daniele Mastrogiacomo è solo un reporter; come lo è Giuliana Sgrena; e senza veri professionisti come loro troppi strazi restano virtuali, troppi morti “non esistono”, troppe guerre sterminano villaggi e popolazioni, africane ma non solo, nel colpevole silenzio della cosiddetta “comunità civile”. D’altra parte è già stata silenziata la gente di Vicenza, perché stupirsi?.
La stampa sta accumulando nefandezze da anni, collabora servilmente (e in modo stupido) con i servizi segreti; resta invischiata fra Vallettopoli e Calciopoli; diventa “embedded” soprattutto quando è favorevole alle guerre (di invasione). Ma, per fortuna, alcuni professionisti sanno ancora raccontare quello che davvero avviene sui fronti medio orientali e orientali, anche a costo della propria vita. Come Enzo Baldoni.
Questo pare però poco importante. Le assemblee elettive che governano l’Italia ragionano di maggioranze “variabili” per far passare il decreto “afgano”; e il ministro degli Esteri, a Bruxelles, il 5 marzo esterna: “In Afghanistan serve una riflessione molto seria, perché le cose possano andare meglio. Ad esempio non uccidere civili potrebbe contribuire a fare andare meglio le cose”, e aggiunge, serafico: “Occorre fare sentire alla popolazione afgana che noi gli siamo vicini” (‘Corriere della Sera’, 6 marzo). Nessuno si scandalizza o si meraviglia, perché?
L’auspicio ovvio è che Dadullah, comandante militare dei talebani, lasci libero Daniele Mastrogiacomo. Nel rispetto della vita di un uomo e della serietà di un professionista, che viene naturalmente in second’ordine. Ma non per quietare la “preoccupazione” del presidente del Consiglio “speranzoso” (agenzia Ansa del 7.3.2007, alle 21.51) sul buon esito delle iniziative del governo. Basterebbe riportare a casa uomini (e armi) per limitare rischi di questo genere, essere davvero neutrali, non essere “confusi” (accidenti!) per invasori. Lasciando infine ai giornalisti il proprio ruolo: raccontare davvero gli eventi, senza il rischio di diventare come il Johnny che prese il fucile nel romanzo (non nel film) di Dalton Trumbo.