di Valerio Evangelisti
[Qualche mese fa cadeva il ventesimo anniversario della nascita di Dylan Dog, ormai leggendario personaggio del fumetto italiano. L’evento è stato celebrato con un lussuoso volume (Dylan Dog, tre passi nell’incubo, Mondadori, 2006, pp. 312, € 22,00). Ho avuto l’onore di scriverne l’introduzione. Finalmente ho avuto l’occasione per rendere omaggio a uno straordinario scrittore italiano, Tiziano Sclavi, e per manifestare tutta la mia ammirazione nei suoi riguardi.] (V.E.)
I vent’anni di Dylan Dog non sono in realtà un grande evento. Era logico che vivesse tanto a lungo. Altrettanto logico è attendersi che viva, come minimo, un altro ventennio ancora, anche se tutto fa pensare che vivrà molto di più. E’ ormai mito, e una generazione di lettori lo passa all’altra, che gli tributa identica devozione. Insomma, bando alla cautela: sembra vivere da sempre, e vivrà per sempre.
Di fronte a un tale fenomeno, riesce difficile trovare qualcosa di nuovo da dire. In tanti hanno parlato di Dylan Dog, e lo hanno coperto di elogi. Quello ricorrente balza agli occhi anche del lettore più distratto: si tratta di un personaggio vero, ciò che presuppone, dietro la sua vita sulla carta, la personalità di un vero scrittore.
Tiziano Sclavi, che ha creato Dylan e sceneggiato la prima delle tre storie che figurano in questo volume celebrativo, vero scrittore lo è, e lo sarebbe anche se non si fosse cimentato con romanzi e racconti. Dylan Dog è sufficiente a consacrare la sua bravura. Serve un bel po’ di maestria per far risaltare, con un numero limitato di parole (che in un fumetto non possono prevaricare le immagini), identità psicologica di protagonisti e comprimari, per trasmettere al lettore sensazioni come la gioia, l’imbarazzo, la malinconia, per trascinare il pubblico entro la pagina, come se vivesse per davvero quella vicenda.
Il disegno aiuta ma non basta; anzi, a volte distrae e impedisce di raggiungere una vera immedesimazione. Questa dipende principalmente dall’autore della storia e dei dialoghi, che non ha a disposizione, come lo scrittore ordinario, mezze pagine, o pagine intere, per raggiungere il suo fine. Uno sceneggiatore mediocre ci riuscirà di tanto in tanto. Un autore del calibro di Sclavi vi riesce sempre. Certe sue battute sono miracoli di efficacia nella concisione. Certe uscite di Groucho, l’aiutante di Dylan, sono di un umorismo fulminante. Non è un caso se alle storie di Sclavi si sono appassionati letterati, filosofi e critici come Eco, Giorello o Filippo La Porta. Quando la sintesi si fa intelligenza, chi è intelligente l’ammira. Fino a riconoscere una verità palese: anche il fumetto può farsi letteratura, oltre alle altre forme artistiche che riassume, malgrado il parziale discredito che ancora lo circonda (nel nostro paese e in pochi altri).
Veniamo al personaggio Dylan Dog. In tantissimi hanno individuato le ragioni del senso di verità che trasmette. Malgrado la sua palese appartenenza alla categoria dei “detectives dell’impossibile” non è affatto una macchina per risolvere enigmi. E’ nevrotico, contraddittorio, con momenti di incertezza e altri, rari ma ricorrenti, di vera asocialità. Lo tormentano le figura incombenti sulla sua vita: quella del padre, trasfigurato nell’immortale Xabaras (anagramma di Abraxas, il demiurgo degli gnostici, creatore della gabbia di carne in cui vive l’uomo), e quella della madre, rappresentata da Morgana, figura onirica e irraggiungibile.
La tentazione dell’interpretazione psicanalitica è a questo punto inevitabile, e certo fondata, purché non si esageri. L’infanzia di Dylan Dog lo ha condizionato profondamente, puntellata com’era da figure genitoriali forti e distanti. Lo si vede nel suo rapporto con le donne. Come un’altra grande figura del romanzo popolare, Arsène Lupin, Dylan va a letto con tante donne, specie nei primi album, ma non “fa l’amore” con nessuna (per inciso, questo vale anche per il Diabolik dei primi episodi, fino all’incontro con Eva Kant e la conversione alla monogamia). Finito l’episodio, le amanti di un momento o muoiono o spariscono. Alcune tornano, però a grande distanza di tempo, e per amori altrettanto fugaci. La moglie sempre evocata, Lillie Connolly, militante irlandese dell’IRA, è in realtà un alibi. Dylan Dog è semplicemente incapace di mantenere relazioni troppo lunghe.
Qui devo aprire una parentesi. Si è detto che Tiziano Sclavi ha proiettato se stesso nel suo personaggio, le cui caratteristiche psicologiche sarebbero anche quelle di lui. Su questo mi permetto di avanzare un dubbio. Dato che faccio quasi lo stesso mestiere di Sclavi, so per esperienza che su una propria creazione l’autore di solito proietta una parte di sé, ma mai tutto se stesso. Ci sono cose che intende nascondere, e dunque abbellisce il personaggio. Di altre cose si vuole liberare, e di conseguenza lo scurisce. Ulteriori dati personali li ignora e non sa come comunicarli. Poi attribuisce notazioni proprie ritenute di poco rilievo ad attori secondari (e, in Sclavi, le “comparse” hanno quasi la stessa evidenza dei protagonisti). Mai e poi mai uno scrittore dipinge per intero una propria creazione sul modello di se stesso. In primo luogo non vuole. In secondo luogo non può. Per dirla in maniera sintetica, io non credo che Sclavi — che non ho il piacere di conoscere — sia Dylan Dog, anche a prescindere dall’aspetto fisico. Senz’altro ha trasfigurato in lui alcuni connotati personali. Sta di fatto che il “mistero” Sclavi resterà tale, per fortuna. A noi lettori tocca occuparci del mistero Dylan Dog. Basta e avanza.
Circa le donne, vediamo una sintomatica simpatia di Dylan per le prostitute. In questa raccolta troverete Bree Daniels, dal linguaggio libero (nei limiti di una pubblicazione senza veti di età) e dal fare disinvolto. Rifiuterà una proposta di matrimonio da parte di Dylan, di cui storpia il nome di continuo. Tornerà in un’avventura successiva a morire di Aids.
E’ più che eloquente che Dylan Dog si innamori di una donna che, per sua scelta, ha con gli uomini rapporti solo di sesso, privi di implicazioni sentimentali. E’ quella la compagna ideale per Dylan, che ben di rado fa profferte di matrimonio. Lui non sopporta, per tutti gli album sceneggiati da Sclavi, rapporti permanenti, né con uomini (a parte l’indispensabile e distaccato Groucho), né con donne.
Dylan Dog è, sia pure in forme blande, uno “schizoide”, il che non vuole dire uno schizofrenico. Il termine indica qualcuno che ha difficoltà a rapportarsi col prossimo, perché senza saperlo lo teme, dopo avere temuto genitori troppo invasivi o troppo distanti. Ma se spesso ciò rende gli schizoidi aggressivi, in Dylan quel tipo di personalità pare coniugarsi a una di tipo opposto, depressiva. Quando è Sclavi a scrivere le storie, Dylan Dog ha momenti di tristezza e di rimpianto.
Poco importano le sue pose machiste e il suo abbigliamento da dandy, le giacche nere e le camicie dal collo alto. La sua personalità è esteriormente forte, e intimamente fragile. Il lettore lo avverte, simpatizza per lui. Si identifica.
Insomma, la potenza del fumetto creato da Sclavi risiede nella credibilità psicologica, che non riguarda solo il protagonista. Si noti il monologo di apertura del serial killer di Memorie dall’invisibile. Poi si comprenderà che a pronunciarlo è un’altra persona, ma poco importa. Quale confessione di uno psicotico è credibile, geniale e indimenticabile. Pochissime parole per creare un quadro psicologico perfetto. Richiama alla mente il film Manhunter di Michael Mann (molto più del romanzo di Thomas Harris da cui è tratto), in cui un poliziotto schizoide riesce a entrare nel cervello di un assassino schizofrenico grazie alle loro inconfessabili affinità. A volte è così che Dylan Dog procede, nel risolvere i casi pazzeschi che gli sono sottoposti: più per intuito e per comprensione emotiva che per logica.
Naturalmente ciò che ho detto finora vale per Tiziano Sclavi e per il Dylan Dog da lui creato. Non vale per gli altri soggettisti e sceneggiatori che si sono cimentati col personaggio, una vera folla, ognuno dotato, ovviamente, di propri approcci e di proprie chiavi interpretative. Se i connotati di fondo di Dylan sono rimasti, alcuni li hanno virati in direzione del romanticismo puro, senza un sottofondo patologico, mentre altri hanno privilegiato l’intreccio al punto di rendere meno centrale l’anima dell’ “eroe”.
Tutte queste visioni differenti, di cui il lettore troverà una piccola sintesi nel presente volume, non scalfiscono in alcun modo, ma anzi arricchiscono, Dylan Dog e il suo mondo. Che è un mondo in cui l’orrore fa di continuo irruzione, senza però volere spaventare. E’ un orrore di tipo onirico, spesso surreale. Si ricollega, anche quando viene sparso del sangue, ai languori romantici di Byron, Shelley, o dei grandi autori (e soprattutto autrici) del gotico settecentesco. Modernizzati con un senso dell’ironia capace di rendere accettabile la dose di macabro che spetta a noi tutti, fin dall’infanzia..
Sclavi ha compiuto l’operazione di cui la narrativa di genere (ripeto, la sua è letteratura) necessitava, non solo in Italia. Essere traghettata dall’effimero alla complessità, fino a impiantarsi a tal punto nell’immaginario del lettore intelligente da non poterne più essere espulsa. Fino a sciogliere le reticenze di settori culturali tradizionalmente diffidenti e sussiegosi. L’apporto di Sclavi e di Dylan Dog allo “sdoganamento” della narrazione di genere, e nello specifico del fumetto, è stato inestimabile.
Il dandy londinese può dunque celebrare con legittima soddisfazione il ventesimo anniversario dalla sua prima uscita. Peccato che sia astemio, perché un brindisi ci starebbe, magari in compagnia di una delle bellissime donne che attraversano la sua vita. Quanto a Sclavi, mi auguro che un po’ di alcool lo beva, e che si conceda un brindisi celebrativo. Ha creato un personaggio immortale, dunque è divenuto un poco immortale anche lui (cito da un film horror, Saw II, visto che siamo in tema: “E’ immortale chi lascia un’eredità, chi fa qualcosa degno di essere ricordato”). Che cosa si pretende di più dalla vita… o dalla morte?