di Lucio Angelini e Carla Forcolin
La ragazza che corre nella copertina di Mamma non mamma è la mia amica Carla Forcolin, single, 55enne, fondatrice dell’associazione La gabbianella. Il libro, edito da Marsilio, è reperibile in libreria dal 7 febbraio. Vi si racconta “il passaggio dal carcere alla vita normale di due fratellini nigeriani di tre anni staccati dalla mamma detenuta e dati in affidamento” a lei, il “loro dolore lenito ma non cancellato dal costituirsi di una tenera relazione con l’affidataria, l’incertezza del futuro in bilico tra una Nigeria temuta e sognata e l’Italia, familiare e rassicurante”.
I due gemellini sono nati a Venezia e parlano veneziano, ma la legge impedisce loro di ottenere la cittadinanza italiana. La loro sorte è fortemente legata alle scelte politiche del nostro paese in materia di immigrazione, affidamento, infanzia.
Ecco, di seguito, la parte iniziale e la parte conclusiva dell’introduzione, firmata dalla stessa Carla Forcolin.
Introduzione
Per tanto tempo ho desiderato avere un bambino in adozione, ma il mio stato civile di donna divorziata non me lo permetteva o meglio mi permetteva solo di adottare in casi particolari. Non m’importava che il bambino fosse “mio”, volevo soprattutto prendermene cura. Divenni così la prima affidataria single del mio Comune, ma tra la prima esperienza e la seconda, che qui narro, passarono dieci anni, durante i quali mi ero rassegnata a vivere senza bimbi. Quando non ci pensavo più, quasi a 54 anni, me ne arrivarono due: fratelli gemelli, maschio e femmina, tre anni appena compiuti. Dalla lettura di questo libro emerge di certo la fatica connessa al compito di fare il genitore affidatario. Spero emerga anche la dolcezza di far crescere nel miglior modo possibile dei bambini che hanno bisogno di essere aiutati a collocarsi nel mondo, dopo la separazione dalla mamma e, in questo caso, dopo la carcerazione subita nei primi tre anni di vita.
Ogni affidamento è un’avventura difficile in sé: accogliere un bambino nella propria casa, trattarlo come un figlio e poi riconsegnarlo alla famiglia d’origine (se e quando le cose vanno bene) non è scelta priva di turbamenti. Non è facile vivere per mesi ed anni da genitore che mette il figlio più fragile in cima ai propri pensieri e poi spostare l’asse dei propri interessi e l’organizzazione del proprio tempo con tutto ciò che ne consegue. Eppure vivere un affidamento è vivere una preziosa opportunità per arricchire la propria esistenza con affetti ed esperienze che contribuiscono a dare senso alla vita. È concedersi il lusso di volere bene a un bambino/dei bambini pur non sapendo se in futuro li si potrà seguire, anzi prevedendo che le cure genitoriali offerte non avranno contropartita alcuna. Farsi carico di un affidamento è, per una donna sola, nel nostro paese (il solo tra tutti i venti stati della rete europea che ha osservatori nazionali sull’infanzia) anche l’unica forma di maternità non biologica che le è legalmente concessa se si escludono i casi particolari che sono contemplati nell’art. 44 della legge 184/83, ora art. 25 della legge 149/01.
Dunque, la legge attuale non esclude del tutto le singole persone dall’adozione, ma è prassi consolidata che la loro disponibilità non sia nemmeno presa in considerazione. La banca dati nazionale dei minori adottabili e degli adulti disponibili all’adozione, prevista dall’articolo 40 della legge attuale, in cui dovrebbero essere menzionate anche le singole persone, non è mai stata fatta, in palese violazione della legge stessa.
Generalmente i single non sono molto apprezzati nemmeno per gli affidamenti: i servizi, prima di fidarsi di una donna sola (e a maggior ragione di un uomo solo), devono conoscerla bene e pensarla possibilmente inserita in una rete di famiglie che pratichino il mutuo aiuto e sostegno. Naturalmente è logico pensare che questa diffidenza si basi sulla oggettiva maggiore difficoltà a svolgere un ruolo genitoriale da soli anziché in coppia. Ma ci sono situazioni in cui si ha molto bisogno di qualche persona il cui requisito principale sia, ad esempio, la disponibilità ad accompagnare i bambini ai colloqui con la mamma o viva in una certa zona (e sia ragionevolmente in grado di svolgere il compito affidatole). In questi casi le resistenze dei servizi nei confronti delle famiglie non tradizionali passano in seconda linea.
Fu proprio ciò che accadde nel caso qui narrato: si doveva trovare una sistemazione per due bambini piccoli, vicina al carcere in cui si trovava la loro mamma.
Alle detenute madri è consentito tenere i figli con sé fino all’età di tre anni. Questo avviene per non privare i bambini del contatto con la mamma nella prima parte della vita, quando questo rapporto è fondamentale per il loro sviluppo psicologico. È evidente però che crescere in un carcere, sia pure in condizioni meno svantaggiate della norma, nei cosiddetti “nidi”, istituiti appositamente negli istituti penitenziari femminili, reca con sé vari handicap. Per questo, al compimento dei tre anni, i bambini vengono staccati dalla madre e dati in affidamento a qualche membro della famiglia di provenienza o a delle comunità. Sarebbe giusto e sarebbe nello spirito dell’affidamento che proprio questi bambini, istituzionalizzati fin dalla più tenera infanzia, trovassero invece, in mancanza della famiglia originaria, altre famiglie disposte ad accoglierli; ma raramente i servizi cercano per i piccoli tali sistemazioni. Di solito sono le mamme stesse ad opporsi alla cosa, temendo di perdere l’affetto dei loro bambini. Nel caso qui narrato, invece, la mamma dei gemelli non voleva assolutamente che i bambini fossero istituzionalizzati e avrebbe preferito farli rimpatriare in Nigeria, da un padre mai visto, piuttosto che saperli in una comunità o istituto…
[cut]…
La relazione tra me e i gemellini è il soggetto del libro e poiché le relazioni sono intrecciate dalle personalità di chi le vive, emerge dalla storia anche tutta la mia realtà, descritta proprio in un momento di particolare debolezza. Avrei potuto omettere la narrazione delle vicende sentimentali che avevano incrinato il mio equilibrio consolidato nel tempo, ma i bambini arrivarono proprio in quella fase della mia vita. Ci si rende disponibili all’accoglienza di bambini quando ci si sente solidi, ma poi passano anni e si viene interpellati dai servizi molto dopo, magari proprio in momenti “sbagliati”. Gli esseri umani sono spesso forti e fragili a un tempo. Avevo accolto i gemelli in un momento di fragilità, perché avevo comunque fiducia nella mia capacità di rapportarmi ai bambini, perché non avrei mai potuto dire di no a quella richiesta, perché avevo desiderato per tutta la vita di crescere dei bambini e chissà per quali altri motivi. Forse sono stata un po’ incosciente, di certo non immaginavo tutte le difficoltà che avrei incontrato per strada. Ma chi mai può prevedere il futuro dei rapporti in cui decide di coinvolgersi? Un pizzico di apparente incoscienza e molta fiducia di fondo nella vita sono necessarie quando si va a incontrare vicende imprevedibili.
Restituire ai genitori dei bambini cresciuti fisicamente e moralmente è una cosa dolce e gratificante; talora però, pensando al possibile futuro dei “miei” bambini mi vengono dei dubbi: se i bambini un giorno dovranno lasciare la città dove sono cresciuti ed essere espulsi dall’Italia, l’aver vissuto con il nostro tenore di vita sarà per loro un motivo di sofferenza in più, quando proveranno le ristrettezze del paese d’origine? L’ uguaglianza dei sessi, a cui sono abituati, si trasformerà in maggiori sofferenze in Nigeria per la bambina? Essere cresciuti con una forte impronta etica renderà loro più dura la vita in un paese dov’è diffusissima la corruzione a tutti i livelli? Forse l’Italia li ha danneggiati, io pure forse in tal senso li ho danneggiati…
Ma è ancora possibile che un drastico colpo al timone della fortuna aiuti questi bambini nel futuro. Non so se e come, ma gli affidatari, si sa, sono degli ottimisti.
Carla Forcolin ha già pubblicato Il gabbianello Marco e altri animali (Piazza), I figli che aspettano (Feltrinelli).