di Massimiliano Di Giorgio
Certe donne, ho letto una volta, non ti guardano mai in faccia per non assecondarti. Noi maschi siamo tutti potenziali violentatori, si sa. Meglio non incoraggiarci.
Io non guardo mai negli occhi le donne, ma anche gli uomini, per timidezza. O meglio, distolgo subito lo guardo per paura che scoprano la mia curiosità.
Lei, però, semplicemente, non mi sta guardando.
Quando mi porge la mancia, con una specie di sorriso beneducato, alzo gli occhi dalla mano al suo viso e la osservo per un momento, un momento piuttosto lungo, almeno per me. Ma lei non reagisce.
Prendo la moneta da 50 centesimi. Una di quelle somme esattamente calcolate che si allungano agli inservienti, come sono io, anonimo, invisibile uomo delle Pagine Gialle. Quelli che passano una volta l’anno, come Babbo Natale.
Donna metodica. Me la immagino, con le monete riposte nello specifico vano in auto, vicino al portacenere. Le monete per il carrello del supermercato – un euro – quelle da dare ai ragazzini che chiedono l’elemosina ai semafori – non più di 25 centesimi – dopo aver abbassato il finestrino soffiando.
La guardo ancora, quella espressione assente in fondo le dona.
Questa donna è un guaio, mi dico.
Liliana ha perso il filo. Il campanello della porta ha suonato, congelando per un po’ i suoi propositi omicidi. Aveva voglia di distruggere tutto, di fare a pezzi i maglioni, le cravatte, i calzini — bucati — le giacche, le mutande, le maglie, le camicie, le canottiere — le canottiere! — i pantaloni, le scarpe, le sciarpe, i guanti scompagnati che Andrea ha disseminato a casa sua nel corso degli anni.
E adesso? Ha voglia di ricominciare?
Cazzo, sì.
Liliana si fa strada tra l’ammasso di vestiario che poco prima ha sparso sul pavimento del salone. Calpesta e lacera quel che può con gli alti tacchi, pensando a quel figlio di puttana.
Poi va in cucina a cercare il trinciapollo. Fruga nei cassetti, lo trova, ma per estrarlo si sbuccia la pelle delle dita con una vecchia grattugia Alessi. E finalmente piange.
Le lacrime, scopre, sono un formidabile carburante per la sua rabbia. Con il trinciapollo apre i bei mocassini di Andrea, fa buchi profondi nei maglioni, massacra i pantaloni, aprendo enormi spacchi lungo le righe della stiratura.
Poi, con le forbici affilate, continua l’opera. Squarcia gli abiti, tagliuzza le foto, e piange.
Fuori, il sole comincia a precipitare dietro la fila dei palazzi più alti, il rumore delle auto si affievolisce per lasciare spazio alle tv e i gabbiani si sgranchiscono le ali.
Mi sono lasciato alle spalle il terzo giorno di consegna degli elenchi. Che fatica. Ma ho bisogno di soldi, dopo l’ultimo viaggio, e non avrei rifiutato neanche se mi avessero offerto di aiutare qualche vecchio a pisciare.
Del resto, ho sempre fatto un po’ di tutto. Portare la frutta al mercato, mettere i dischi alle feste di matrimonio e scattare foto a quelle di laurea, caricare e scaricare libri per un distributore di volumi scolastici, digitare migliaia di indirizzi al pc, portare pacchi, certe volte un po’ sospetti, in motorino, lavorare in magazzino, in ristorante, cambiare le lenzuola in un hotel, sviluppare foto.
Quello che qualche sociologo di sinistra chiamerebbe terziario arretrato.
A fine giornata, sono salito all’ultimo piano del palazzo dove ho consegnato gli ultimi elenchi, sono uscito sul terrazzo condominiale — a cui si accede senza chiavi e lucchetti, per fortuna — e ora sono qui a fumare una sigaretta, guardando dall’alto la piazza.
La sera è tiepida e piacevole, ma qualcosa mi ha messo in allarme.
Liliana si alza dalla massa di tessuto tagliuzzato ancora più arrabbiata.
Ma come. E’ una donna organizzata, professionale, capace. Una venditrice di talento. È desiderabile. Insomma, piace. Ha un bel corpo, un viso interessante, bei vestiti. Anzi, diciamolo, ha gusto. Molto gusto. Ha hobby interessanti, amici interessanti. Fa letture interessanti. Viaggi interessanti. Ha una vita interessante. E ordinata. A posto. Giusta.
Prende da terra una foto strappata in due, le ricompone, le fissa.
Eccoci qui, io e te, dice all’uomo che tuba con lei lì, sulla foto, come un trottolino amoroso. Se si sforza, quasi vede quella sfumatura nella sua voce, quando le dice trottolina.
Uno intelligente, il trottolino. Bello come un dio greco. Interessante. Strano, eh, strano, sì. Profondo. Importante. Affascinante. Oddio, un po’ egoista. In gamba. Romantico. Sicuro. Divertente. Impegnato, certo, pieno di impegni. Sportivo. Capace. Affabulatore. Intraprendente. Distratto, certe volte.
Ognuno a casa propria, in genere. Nei fine settimana, insieme. O da te o da me, o più spesso in viaggio. Viaggi decisi all’ultimo minuto, spesso, avventurosi. Ma mete sicure, confortevoli, interessanti. Tutto liscio.
Tutto storto. È andato tutto storto e lei non se ne è accorta che ai tempi supplementari.
Il suo numero da trottolino amoroso, ora, Andrea lo fa per un’altra. Un’altra trottolina uscita chissà da dove. E du du da da da da, il trottolino amoroso ha finito per farci un figlio, con l’altra trottolina. E du du da da da.
Il trottolino ora ha assunto la posa dell’uomo che non deve chiedere, mai. D’altronde, non avevamo mai detto che sarebbe stato per sempre, le ha detto. D’altronde, anche a te stava bene così. D’altronde, abbiamo sempre detto che il matrimonio era per gli altri. D’altronde, non mi sembrava che tu volessi figli. D’altronde.
Pezzo di merda, pensa Liliana, e si lascia cadere tra i brandelli di abiti. A trentaquattro anni con chi li farò, dei figli? Si lamenta, sull’orlo di una crisi ipotetica di menopausa, si tira i capelli, si ferisce il volto con le unghia curate, si morde le labbra.
Mi era parso di sentire un clic, ma sul momento non me n’ero troppo preoccupato, mentre mi godevo un tramonto in cinemascope. Ma quando cerco di aprire la porta, scopro che qualcuno mi ha chiuso fuori.
Batto i pugni sulla porta, grido un paio di volte, busso di nuovo, ma nessuno viene ad aprire. Be’, forse farà un po’ fresco più tardi, e salterò la cena, ma non sarebbe la mia prima notte sotto le stelle, mi dico, preparandomi a dormire sulla terrazza. Domani mattina qualcuno verrà ad aprire. Tanto, la distribuzione degli elenchi riprenderà dal condominio di fronte.
Tranquillo, mi dico, tranquillo, anche se mi sento un po’ coglione.
L’appartamento sta mutando rapidamente in un campo di battaglia. La vicina di sotto non c’è, altrimenti si sarebbe chiesta come mai tutto quel baccano, dalla signorina Liliana, una persona tanto a modo, e magari avrebbe chiamato il 112.
Liliana è una furia armata di trinciapollo, e si trascina in cerca di oggetti da distruggere, di ricordi da annientare, con la mano fasciata che la fa un male cane. Maledetta grattugia. Che poi, è un regalo della madre di Andrea.
Zac!, sotto i colpi feroci del trinciapollo finisce squarciata la tela d’autore — come si chiamava? Firma come un dottore della mutua, questo qui — che Andrea le aveva regalato di ritorno da un viaggio. E zac!, sulla parete resta solo la leggera ombra della locandina di “Vacanze Romane”, che Andrea le aveva comprato a Porta Portese. E zac!, non è neanche buona come straccio da spolvero la bandana brasiliana che le aveva regalato… già, chi gliela aveva regalata? Troppo tardi.
Finalmente, la stanchezza prende il sopravvento. E con la stanchezza, una strana impressione di pace. Forse la tempesta è finita. Liliana inciampa su una poltroncina, ci si siede. Dal tavolo, la luce lampeggiante del pc portatile le fa l’occhietto. Allora — la poltroncina ha le ruote — si trascina fino allo schermo, dà il riavvio e… si ricorda della cartellina con le foto digitali di lei e Andrea. Medita un attimo. Gettare l’impuro arnese, il pc, eliminare d’un colpo la colpa? Ne ha abbastanza del casino, si dice, e poi lui, lui non se lo merita, questo sacrificio ad alta tecnologia.
Allora, se ne sta lì, a reggersi la testa con una mano e con l’altra a cliccare tasto destro > cancella per eliminare ogni foto raccolta nella cartellina, spedita nel purgatorio di bit da cui non tornerà mai più… Clic!, sulla foto di gruppo a Sharm El Sheik. E clic!, Sulla pista da sci tra i Pirenei. E clic!, sull’agriturismo in Toscana.
È quando finalmente riesce ad arrivare in bagno, e si siede sul wc, che Liliana afferra con precisione i contorni della cosa. Si morde un labbro, si fa male e smette. Poi, come se avesse fatto una scoperta eccezionale, se lo rimorde.
Sta assaporando il gusto preventivo della vendetta.
Liliana apre i suoi armadietti. Come un rapinatore che contempla i pacchetti di banconote estasiato per un lungo attimo, prima di gettarli nelle borse aperte che gli tendono voracemente i suoi complici, lei rimira la sua collezione di cosmetici. Poi, comincia a gettarli a terra.
Cade il fondotinta per attenuare le borse sotto gli occhi e la cipria. Precipitano campioncini di gel colorati. Finiscono sotto le suole le matite, gli eye-liner, insieme coi tubetti di crema extra rassodante per gli occhi, di tonico — a base di acido ialuronico! —, di fango termale anticellulite. Rotolano impazziti i vasetti di body scrub e di fango attivo per corpo e capelli, mentre si spezzano le delicate confezioni in plastica di trousse a mosaico, va in frantumi il miroir con gli ombretti e la terra compatta.
Vola il mascara, vola l’ombretto roll-on, volano i rossetti prima di essere calpestati, ridotti in polvere. Vola il lucidalabbra, cola lo smalto, cola, mentre il pavimento si riempie di pozze di That’s Amore, Salvatore Ferragamo Parfum, Desnuda; pozze in cui galleggiano capsule rassodanti antirughe.
Creme antietà sembrano maionesi impazzite, concentrati di vitamina A si spargono, si perdono nelle quasi invisibili intercapedini tra una piastrella di maiolica e l’altra, si mischiano a esfolianti per i gomiti, i talloni, le ginocchia, mentre kajal e khol si abbracciano come in un tao.
Gli idratanti che promettevano morbidezza e tono finiscono mescolati a emulsioni e lozioni anticellulite, agli abbronzanti che esaltano il colore delle gambe e a quelli che preservano la giovinezza della pelle. Block stick per labbra si fondono, diventano tutt’uno col doposole anti-scottature, mentre esplodono come petardi confezioni di spray rinfrescante e di deodorante e il fard si impasta con la lozione tonificante – quella per attenuare i rossori – e la crema energizzante.
È un big bang della cosmetica. Un brodo primordiale, un salto nel passato pre-trucco step by step. L’incubo di un artista del make up, oppure la sua definitiva realizzazione.
Ma la pausa distruttrice e insieme forgiatrice di Liliana dura solo pochi attimi. Ecco allora che volano dischetti detergenti di cotone, pennelli, piumini e spugne in poliuretano schiumato, che si sposerebbero a perfezione col fondotinta e invece finiscono in queste sabbie mobili della bellezza.
E volano strumenti di tortura concepiti nelle secrete dell’Inquisizione Estetica — se bella vuoi apparire un poco devi soffrire – come piegaciglie e pinzette e sfumini, e pettinini e spazzolini. E cotton fioc, ciglia finte a ciuffetti, lenti cosmetiche.
È qualcosa di più di un impasto fangoso, quello che ora occupa buona parte del pavimento del bagno, e che lambisce le caviglie di Liliana. È un concentrato di promesse e illusioni mondane.
La donna si guarda attorno. Per un attimo si chiede chi metterà a posto tutto questo casino, oddio. Ma la rabbia la riaccende. E allora si china, e come se preparasse un gigantesco impasto comincia a tirare a sé il fango a braccia aperte, a creare una massa compatta, mescola, manipola, modella. Sa quel che fa. Una volta, su una rivista ha letto la storia di un uomo di fango, o di sabbia. Sarà lui a darle la vendetta, si dice.
Il bagno è quasi buio. L’ultima luce, quella che sopravvive per un po’ al tramonto, se n’è andata. Liliana è in piedi, ha male alle braccia per il troppo impastare, ha male alle gambe per essere rimasta troppo a lungo in ginocchio. Accende la lampada e guarda il risultato del suo lavoro.
Una forma sgraziata, un pupazzo fangoso che sembra un bimbo africano affamato, con gli arti troppo sottili, la pancia gonfia e la testa da idrocefalo, senza faccia, dorme sul pavimento.
Come una ragazzina che se ne sta sola sulla spiaggia, quando gli ultimi bagnanti raccolgono gli asciugamani e chiudono gli ombrelloni, dà i ritocchi definitivi al suo uomo-di-sabbia. Con un dito disegna una gran bocca, raccoglie da terra le ciglia finte e le sistema appena sopra le perle da bagno, che sembrano gli occhi di un cieco.
Liliana fa un mezzo giro attorno al pupazzo, poi lo guarda di nuovo. Si sfila il brillante che porta all’anulare, un altro regalo di Andrea, lo spinge a forza nella fronte fangosa del dormiente. Poi soffia delicatamente sul volto — il volto di uno smile strafatto e transex, con quelle ciglia folte — con l’alito che sa ancora di chewing -gum-protezione-totale-senza-zucchero-contro-le-carie.
E accade quello che lei avrebbe voluto che accadesse.
Pensa di sognare, quando le sembra che il petto dell’uomo-di-sabbia si sollevi, animato da un respiro regolare. Invece no. La creatura vive.
Mi risveglia il mio russare, ho l’impressione di aprire gli occhi proprio mentre il respiro pesante abbandona il naso. Mi sono addormentato come un vecchio, e non sono neanche le nove di sera. Mi fanno già male le ossa, a stare sdraiato sul pianale di cemento armato, e pensare che è il posto più comodo che ho trovato. Mi alzo, mi accendo una sigaretta. Sotto, nella strada, qualcuno suona ripetutamente il clacson, invece di scendere dalla macchina e citofonare.
Liliana ha l’impressione che l’uomo-di-sabbia la stia fissando, anche se con quelle perle di bellezza al posto degli occhi è difficile capire dove stia guardando davvero. Forse aspetta che gli dica qualcosa, pensa. Sì, ma cosa dire a un uomo-di-sabbia, o piuttosto di fango? Buonasera? Benvenuto al mondo? Prego, vuole vedere il mio appartamento? E poi, capirà quel che gli dice, anche se si è dimenticata di disegnargli le orecchie?
Alzati e cammina, dice Liliana decidendo infine per quello che sembra più ovvio e la creatura si alza, allunga le braccia e piega le gambe intorpidite dopo un sonno che è sembrato di secoli e cammina in direzione del salone. La donna segue l’uomo-di-sabbia, che ha il passo ancora malfermo, lo sorpassa, gli si para davanti.
Fermo, ora, mettiti seduto, gli dice, e l’uomo-di-sabbia obbedisce, arrestandosi all’istante e cadendo praticamente a terra. Ma no, mettiti seduto sulla sedia, non sul pavimento, dice Liliana, un po’ stizzita, mentre gli mostra una sedia.
Ora bevi.
Il pupazzo animato prende la bottiglia di minerale dalle mani della donna, e se la ficca in quella che dovrebbe essere la bocca. L’acqua va giù senza rumore, neanche un glu-glu, e l’uomo-di-sabbia rimane col contenitore di plastica in mano.
Dopo aver tracannato una confezione di sei bottiglie da un litro e mezzo, sotto gli occhi attenti di Liliana, la figura fangosa sta subendo una curiosa trasformazione. Il petto si gonfia, così come gli avambracci e le cosce. Le estremità del corpo, però, restano sottili. L’uomo-di-fango sembra una specie di extraterrestre da “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, adesso.
Liliana vede affiorare qualcosa da sotto il divano. È una foto di Andrea, sopravvissuta ala furia iconoclasta di poche ore prima. Il trottolino amoroso, lui, sorride nella foto, e quel sorriso da pescecane innamorato spezza la fragile diga emotiva di Liliana, dietro cui si cela un bacino di lacrime grande più o meno come l’invaso del Fiume Giallo.
Ascoltandolo da lontano, misto ai rumori che salgono dalla strada, il pianto della donna si direbbe un nitrito, costante e disperato. Ed è esattamente quel che pensa Davide, mentre cerca di riaddormentarsi contando le stelle.
Che ci fa un cavallo in un condominio in pieno centro?, si chiede il ragazzo. Poi però pensa che sia un film alla tv, non il pianto a dirotto di una donna che in quel preciso istante è a qualche metro di distanza da lui, in un appartamento con balconcino all’ultimo piano, e finisce per non farci caso, per tornare alle sue stelle.
Che però sono troppo poche, per colpa dell’inquinamento luminoso che colpisce le città. E poi, contare le stelle a occhi aperti non è una grande idea per qualcuno che cerchi il sonno. Meglio tornare alle vecchie pecore. O, perché no, ai cavalli. Ma a occhi chiusi.
Perché, vedi, io non m’ero accorta di niente, io ero felice, capisci, dice Liliana all’uomo-di-sabbia, mentre finisce l’ennesimo bicchierino di porto, dopo essersi asciugata le lacrime. La creatura la imita e l’alcool finisce nell’orifizio. Ma se fino a quel momento aveva assorbito in silenzio il liquido, come una spiaggia si beve impassibile l’acqua del mare, ora la creatura emette un respiro più forte degli altri, che assomiglia molto da vicino a un umanissimo rutto.
Liliana osserva per un momento perplessa l’uomo-di-sabbia. Gli sembra che le perle di bellezza che ha al posto degli occhi siano dilatate, deformate, ma forse è solo un’impressione. Con questo caldo… Poi, dopo aver costatato che il porto è finito, prende dal carrello degli alcolici una bottiglia di rhum, e ne versa a entrambi.
Capisci, lui mi faceva sentire bene, stavamo bene insieme, non avrei mai pensato che, riprende Liliana, non avrei mai pensato che, ripete, non avrei mai pensato che, dice ancora, mentre cerca di ricordarsi cosa abbia pensato, che fosse uno stronzo, un bastardo, un mostro così!
La donna tace, credendo di aver fatto una gaffe. Poi fa una carezza sul volto della creatura, che non si ritrae né sembra sorpresa. Non un mostro come te, voglio dire, dice, capisci? No, un mostro capace di farti male così, col sorriso sulle labbra, e di farti anche sentire in colpa…
Finita la bottiglia di rhum, Liliana e l’uomo-di-sabbia, che ora sono passati dalle sedie al più comodo divano, stanno rapidamente avviandosi a finire quel che di più forte è rimasto in casa, della sambuca, finora trascurata in un cantuccio del carrello.
Liliana prova ad alzarsi. Ce la fa, anche se barcolla un poco. Dopo aver raccontato all’uomo-di-sabbia, che non l’ha mai interrotta, di come si sono conosciuti, lei e Andrea, quella volta al concerto di Amedeo Minghi dove lui era capitato per caso, e di quella volta in traghetto, e di quella volta in montagna, e di come le sue amiche fossero tutte invidiose; dopo aver omesso qualche nota piccante sulla loro intesa sessuale particolare per comprensibile imbarazzo — in fondo l’uomo-di-sabbia, per quanto di sabbia, sempre uomo è; dopo aver ricostruito tutta la loro trama amorosa fino alla sorpresa finale, che poi però tanto sorpresa non sarebbe stata, se lei, lo riconosceva adesso, avesse prestato più attenzione a certi particolari, a certe cose che le donne, si sa, sentono; dopo tutto questo, sempre barcollando un po’, Liliana va verso lo stereo e cerca un cd.
E adesso lo sai che facciamo, noi?, dice all’uomo-di-sabbia, che è sprofondato nella poltrona e che ora emette una specie di sordo brontolio.
Balliamo, e fa andare quella canzone di Minghi che avrebbe tanto voluto ballare con Andrea….
Liliana allunga la mano all’uomo-di-sabbia, che in queste poche ore ha prodigiosamente imparato a comprendere anche gli ordini non letterali della sua creatrice.
Ecco, metti i piedi così, abbracciami, così, ecco segui il ritmo, così, la donna comincia a ballare e si trascina dietro la creatura, che sembra possedere un talento naturale.
Davide sta scalando una collina. O meglio, sta provando ad avanzare, ma come in certi sogni angosciosi, una forza invisibile lo spinge indietro, gli toglie energia dai muscoli, lo fa sentire impotente, mentre scivola sul terreno giallastro.
Poi si accorge che quella che sta scalando è una montagna di elenchi telefonici gettati alla rinfusa, che si aprono e si squinternano non sopportando il peso dei suoi passi, che affondano e scivolano e fanno scivolare. E mentre lotta per avanzare, o almeno per restare in equilibrio, sulla mole di volumi, dal basso sente al tempo stesso uno stimolo inconfondibile.
Ma a svegliarlo definitivamente è la musica che arriva da qualche piano più sotto. Musica ad alto volume, come se provenisse da una festa. Però non sembra una festa, perché qualcuno urla. Una donna.
Liliana urla, urla, non sa fare altro. Urla di paura. Non è più lei a guidare la danza, è l’uomo-di-sabbia ad averla agganciata in una stretta formidabile, mentre la loro velocità di rotazione è già vorticosa e aumenta sempre di più, sempre di più.
Liliana sente che la testa le gira, sente che i piedi l’hanno abbandonata, ha l’impressione di trovarsi al luna park, sul tagadà o un’altra macchina del genere, che le faceva tanta paura da bambina. Liliana e l’uomo-di-sabbia girano, girano, girano.
Davide, del tutto sveglio e con un fianco dolorante per la scomoda posizione, sta cercando di capire cosa accada. Si aggira per la terrazza condominiale, guarda giù, vede il balcone e si convince che è da lì, è da lì che arriva la musica. E le urla.
Scendere non sembra difficile, ma non vuole storcersi un piede cadendo.
Il ragazzo scavalca il parapetto, ringrazia Dio o chi per lui del fatto che il condominio non sia ancora passato all’antenna centralizzata ma conservi quest’allegra anarchia di aste, tutte di dimensioni e altezze diverse. Così, afferra un fascio di cavi che scendono verso il terrazzino e si cala per poco, giusto per ridurre l’altezza da cui si getterà.
Poi si lancia, e atterra sui suoi piedi.
Guarda all’interno della sala illuminata, e sulle prime non riesce a capire quel che sta vedendo, a dargli un nome o soltanto una forma, il suo cervello è come una scheda sim non pronta.
Liliana ha smesso di urlare, in compenso sta per svenire. L’uomo-di-sabbia, invece, sembra insensibile agli effetti di questa danza sufi a velocità della luce.
Per un attimo, Liliana ha l’impressione di vedere qualcuno affacciarsi dalla porta a vetri che dà sul balcone. Andrea. No, non gli somiglia per niente.
Dunque è così, pensa Davide quando mette a fuoco l’altissima creatura fangosa che tiene stretta a sé la donna, gli extraterrestri sono sbarcati. E sono veramente cattivi.
Fa due passi nella stanza, solo due passi, in cerca di un’arma, di qualcosa. Vede la lampada a stelo. Non c’è niente di meglio, niente che faccia più male? No, peccato. Stacca la spina dalla presa. L’alieno non sembra essersi accorto della sua presenza. Strano.
Avanza ancora di due passi, impugnando la piantana. Quando l’alieno gli mostra nuovamente le spalle lo colpisce con tutta la forza. Sul collo, perché teme di far male anche alla ragazza.
L’asta resta conficcata nel collo di fango, e sfugge dalle mani di Davide. L’alieno si ferma di scatto, mentre la ragazza, che è svenuta – ma potrebbe essere addirittura morta, chissà – cade a terra.
Il gigante di fango si gira verso Davide, lo osserva, ringhia come un cane, mentre con una mano cerca di staccarsi la piantana dal collo.
Davide non resta a guardare, s’infila in quello che scopre essere il bagno e chiude a chiave la porta.
Un alieno con le ciglia finte, il sorriso di Pacman e le perle di bellezza al posto degli occhi?, si chiede. Strano.
In bagno, l’armadietto che aveva contenuto la vastissima collezione di cosmetici di bellezza di Liliana è ancora aperto. Sul pavimento ancora tracce di prodotti di bellezza, confezioni di lozioni. Mentre l’alieno tempesta la porta di pugni con le sue mani sottili e insieme potenti, Davide pensa, si guarda intorno, cerca, si agita.
Il suo sguardo si posa su un flacone di solvente per unghie, ultimo sopravvissuto dell’opera di pulizia etnico-estetica condotta da Liliana. Non ha un piano, vuole solo uscire dal bagno e possibilmente non attraverso la finestra, dato che l’appartamento è al sesto piano.
Liliana apre gli occhi. E’ stesa a terra, la testa appoggiata sul divano, ma è tutta intera. L’uomo-di-sabbia l’ha lasciata andare. Ma cosa sta facendo davanti alla porta del bagno, che continua a prendere a pugni? In un flash, Liliana rivede la faccia dell’uomo, del giovane, che è apparso dalla porta a vetri, intuisce cosa sia accaduto mentre era svenuta, cerca di mettersi sui gomiti anche se le gira la testa.
Ora la creatura si è immobilizzata, mentre la porta si apre con un leggero scricchiolio. E dire che Andrea gliel’aveva ripetuto chissà quante volte, di chiamare il falegname per quel difetto.
Davide apre la porta quel tanto che basta a introdurre nello spiraglio il flacone e a prendere la mira.
Questione di attimi, di microsecondi, il volto dell’alieno compare, con un’espressione che si direbbe interrogativa, se quello fosse davvero un volto, una faccia, e non un impiastro fangoso.
Davide preme sul flacone. Ne esce prima uno schizzetto flebile, quasi un niente, e per un momento Davide si vede perduto. Poi il solvente zampilla una seconda volta, più abbondante, e colpisce l’obiettivo.
L’alieno si porta le mani al viso, e a Davide quelle unghie rosse che costituiscono l’innaturale prolungamento di dita simili a ossette di pollo ricordano quelle della sua vecchia zia Fedora.
Il ragazzo apre la porta con decisione, adesso, mentre la creatura si lamenta, accecata.
Davide si ferma un attimo a guardare l’alieno, ed è un attimo di troppo, perché il mostro, che non è venuto dagli abissi dello spazio ma solo dagli scaffali poco profondi di un mobile Ikea avuto a buon mercato ma di qualità non infima, si desta e gli mette le mani attorno al collo.
È la seconda volta in pochi istanti che Davide si sente perduto, e stavolta con qualche ragione in più, ma la sua buona stella, incarnata dalla donna che lui stesso avrebbe dovuto salvare, non lo ha abbandonato.
Con un urlo, Liliana si è arrampicata a cavalcioni sull’uomo-di-sabbia, e ora cerca di strappargli gli occhi, le ciglia, di disfare i suoi connotati. Finché le dita non giungono al famoso brillante che portava all’anulare, ora incastonato nella fronte della creatura. D’un sol colpo, Liliana cava l’anello, che cade a terra tintinnando.
La creatura, allora, come una macchina, si spegne, crollando addosso a Davide.
Ma cos’era?, chiede lui, con una bottiglia di acqua in mano, steso con la testa appoggiata sul divano.
Non lo so, non ricordo più, non riesco a ricordare, mente lei.
È strano, sai che ho pensato a te parecchio? Mi avevi colpito, quando sono venuto a portarti gli elenchi, dice lui.
Ah, sì, be’, gli elenchi, prende tempo lei, che non ricorda proprio. Ma cosa facevi sul mio balcone, come sei entrato?, chiede, cominciando a pensare di avere a che fare con un maniaco.
Non ci crederai, ma sono rimasto chiuso sul terrazzo condominiale, come un cretino. Quando ho sentito quella musica, che mi piaceva molto, e le tue urla…
Lei si alza, facendo uno sforzo per non inciampare nel corpo dell’uomo-di-sabbia, fa ripartire il cd di Amedeo Minghi e dice semplicemente: Balliamo?