I CRIMINI DI GUERRA ITALIANI NELLA EX-JUGOSLAVIA
di Girolamo De Michele
[nella foto a destra: detenuti slavi nel campo di concentramento italiano di Arbe]
La favola degli Italiani brava gente, dei colonizzatori buoni e gentili è ancora dura da sfatare, a dispetto di ricerche storiche accurate e dettagliate anche dal punto di vista documentaristico, come quelle di Angelo Del Boca, Tone Ferenc, Gianni Oliva, e di riviste come il Diario, I viaggi di Erodoto (Il confine orientale, n. 34/1998), Novecento. Proprio quest’ultima rivista, nel n. 3/2003, ha pubblicato una corposa inchiesta curata da Mimmo Franzinelli: I crimini di guerra italiani. All’interno di questa inchiesta, un drammatico quadro dei crimini commessi sulla popolazione slava dall’esercito italiano nell’ex-Jugoslavia nel periodo 1941-43.
«Controguerriglia ed eccidi di civili: questa la percezione delle popolazioni dell’ex-Jugoslavia sull’occupazione italiana. Direttive e rapporti delle autorità militari sull’attività delle nostre forze armate in Siovenia e Croazia documentano l’adozione di una politica spietata, avviata nella regione di Lubiana sin dal 1941 con uccisioni in massa di prigionieri senza processo, in una catena di violenze contro i civili che raggiunse l’apice nel 1942 43». Così inizia la sezione del saggio di Franzinelli dedicata ai crimini italiani nella ex-Jugoslavia.
Artefice principale dei massacri perpetrati ai danni della popolazione civile e dei resistenti contro l’occupazione nazi-fascista fu il generale Mario Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata, che nell’estate del 1942 decretò l’invio in “campi di prigionia” dei maschi tra i 18 e i 55 anni trovati in località isolate: «Internare tutti gli sioveni e mettere al loro posto degli italiani (famiglie dei feriti e dei caduti italiani). In altre parole far coincidere i confini razziali con quelli politici». Inizia così la pulizia etnica italiana. «Ad analoghi intenti, prosegue Franzinelli, si conformò la strategia adottata nel luglio agosto 1942 dal generale Umberto Fabbri, che ordinò al raggruppamento della Guardia a frontiera dei 5° corpo d’armata la fucilazione di centinaia di croati e di sioveni residenti nella parte della Croazia annessa alla provincia di Fiume: interi villaggi furono bruciati e le popolazioni internate».
In Italia non si ama ricordare che i campi di concentramento non furono una prerogativa tedesca: li abbiamo istituiti anche noi [nella foto a sinistra il campo di concentramento di Gonars]: «Campi di concentramento per oltre 100mila civili furono allestiti nel golfo dei Quarnaro sull’isola di Arbe, in Friuli a Gonars e a Visco (Palmanova), in Veneto a Monigo (Treviso) e a Chiesanuova (Padova), in Toscana a Renicci (nel comune di Anghiari). L’esistenza dietro i reticolati era miserevole, per deliberata volontà dei comandanti militari. Le proteste inoltrate dalla diplomazia vaticana contro il regime disumano instaurato nei campi suscitarono commenti sprezzanti e ipocriti. Il generale Mario Roatta, comandante superiore delle forze armate in Siovenia Dalmazia, liquidò le richieste di miglioramento dei lager di RabArbe, dove languivano circa 6.500 prigionieri, con una frase irritata: «Sarebbe stato assai meglio se autorità ecclesiastiche locali, anziché dipingere a tinte fosche le condizioni dei campi di concentramento, avessero indotto i fedeli a non affiancarsi ai partigiani, nemici giurati della civiltà e della religione, contribuendo così a rendere superflui o, quanto meno, a ridurre quei campi di concentramento di cui ora soltanto, a cose fatte, si occupano» (16 dicembre 1942 al comando supremo, oggetto: «Situazione in Siovenia Campi di concentramento»). Reazioni egualmente ciniche manifestò l’indomani il generale Gastone Gambara (succeduto a Robotti nell’incarico di comandante deIl’XI corpo d’armata): ”Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo. Ad ogni modo alla lettera rispondere: ‘prendo atto — comunicherò arrivi’. Praticamente faremo poi ciò che ci sembrerà meglio”».
Lo stesso feroce cinismo viene messo in atto nelle rappresaglie contro la popolazione civile, con una ferocia che nulla ha da invidiare a quella nazista durante la resistenza: «Ecco una direttiva impartita dal generale Emilio Grazioli: «Estensione delle rappresaglie agli abitati situati in prossimità dei luoghi ove si verificassero rappresaglie, attentati, atti di sabotaggio ecc.» (dispaccio riservato n. 10826 dell’alto commissario per la provincia di Lubiana al comando dell’XI corpo d’armata, per Siovenia e Dalmazia, 20 giugno 1942). Il generale Vittorio Ambrosio stabilì che alle fucilazioni seguisse l’incendio delle abitazioni dei giustiziati. Il tribunale militare di guerra insediato a Lubiana decretò 83 pene capitali (tre delle quali contro militari italiani); nella sola seduta dei 7 marzo 1942 sanzionò la morte per 28 abitanti di Borovnica, 16 dei quali furono fucilati per ritorsione contro l’attacco partigiano a un ponte ferroviario: il plotone d’esecuzione era composto da elementi dell’ottavo battaglione «M» (dove «M», ovviamente, sta per Mussolini). A macchiarsi dei più gravi crimini furono proprio i reparti delle camicie nere; sostenuti da forti motivazioni ideologiche, essi infierirono sulle popolazioni nella convinzione di adempiere a un dovere patriottico. Ne facevano parte vecchi squadristi dei 1921-22, che si erano arruolati volontari per ragioni politiche; i loro valori di riferimento si desumono dalle lettere da essi scritte in patria. Ecco un eloquente stralcio epistolare della camicia nera Ricci Guglielmo (I Battaglione Squadristi toscano), al «Carissimo Camerata Fasolino», in data 26 giugno 1942: «Come son cierto saprete che mi trovo in terra di Dalmazia e proprio nella città di Spalato. Qui facciamo la guerra al Comunismo e non gli diamo pace poiché, escruso gli italiani, sono tutti comunisti e come son vili spesso ci fanno delle imboscate e a tradimento uccidono tanti nostri fratelli. Però quando ne prendiamo qualcuno li cambiamo i connotati tanto basti che anche pochi giorni orsono si andò a Sebenico e si fece il plotone di eseguzione e se ne fucilò ventisei e con buona soddisfazione a me tocò proprio il capo di tutti i comunisti della Croazia. Se avessi visto Fasolino che sciena tanto e che per aver tirato tanto bene che non ci fu bisogno dei colpo di grazia si ebbero molti elogi, e fra tanti quello dei governatore S.E. Bastianini».
La documentazione fotografica ha riproposto, per l’occupazione militare nei Balcani, le raccapriccianti immagini di teste mozìe di partigiani esibite da militari italiani sorridenti: immagini tragicamente somiglianti a quelle scattate negli anni trenta dai colonizzatori in terra d’Africa».
Franzini ricorda infine, a titolo di esempio, la testimonianza di un cappellano militare, Don Pietro Brignoli, dislocato dal 1941 al 1943 in Siovenia e in Croazia tra i Granatieri di Sardegna, che descrisse «nei più minuti particolari la marcia distruttiva delle nostre forze regolari. Il diario dei sacerdote bergamasco, scritto in uno stile diretto e franco, non può certo essere tacciato di faziosità e di falsificazioni, stante l’abbondanza di particolari e la figura dei suo estensore». Il diario di Don Brignoli fu pubblicato in modo parziale e ambiguo quattro anni dopo la morte del parroco (17 agosto 1969) con il titolo Santa Messa per i miei fucilati, senza spiegazioni sui criteri censori né segnalazione delle parti omesse, e con questa premessa: «Dobbiamo precisare che abbiamo esitato a lungo prima di prendere la decisione di pubblicare un documento eccezionale sì, ma spaventoso». Il diario di Don Brignoli è finito rapidamente fuori commercio, e non ha mai avuto ristampe. È possibile acquistarne una delle copie esistenti qui.
«Nonostante le amputazioni subite, scrive Franzinelli, la lettura di quel libro è sconvolgente […]. Don Brignoli, aggregato al 2° reggimento Granatieri di Sardegna, enumera le crudeltà dell’azione militare italiana, preoccupato dei prevedibile trascinarsi degli odii oltre la stessa conclusione dei conflitto. I metodi d’occupazione sono descritti in stile asciutto, con il rammarico del testimone impotente. Ecco un esempio: «La nostra artiglieria e un gruppo di artiglieria alpina aprono un fuoco infernale, da un’altura, su un paesetto nella valle: qualche donna e qualche bambino uccisi, il resto della popolazione fuggita nei boschi, dove tutti i maschi incontrati dai nostri battaglioni venivano considerati come ribelli e trattati di conseguenza» (16 luglio 1942). Le esecuzioni in massa erano all’ordine dei giorno: «Le camicie nere avevano arrestato tutti i maschi validi che non erano fuggiti: il tribunale di guerra dei nostro reggimento, che li giudicò, ne condannò a morte 18» (21 luglio 1942). Il cappellano depreca le ruberie dei soldati ai danni dei civili, divenute abitudine inveterata: «Non feci che predicare e arrabbiarmi: “Ma almeno qui, dove la popolazione ci ha ricevuto bene e ci ha dato ogni ben di Dio, non rubate!”. Era come parlare ai muri» (25 luglio 1942). Dinanzi al ripetersi dei furti, che non risparmiavano nemmeno i collaborazionisti, questa la sconsolata conclusione dei reverendo: «Il soldato italiano non solo fa piazza pulita nei campi e nei pollai dei nemici, ma non rispetta neppure quelli degli amici» (27 agosto 1942, a commento delle razzie compiute in un villaggio che aveva accolto favorevolmente le nostre truppe). Quando qualche civile convinto delle promesse di correttezza campeggianti nei manifesti murali redatti dagli uffici di propaganda, si presentava per rivendicare il maltolto, accadevano scene pietose: «Un contadino ebbe il coraggio di venire a domandare un indennizzo, perché i soldati gli avevano portato via le patate, ma l’ufficiale dice all’aiutante: “Questo deve essere un partigiano di certo: fa’ venire i carabinieri!”» (7 agosto 1942). La strategia dei vertici militari è stigmatizzata in una pregnante considerazione: «Distruggendo, noi leviamo anche ai ribelli il mezzo di vivere; spaventando questa gente più di quanto non siano in grado di fare i ribelli per la minor copia di mezzi, la faremo piegare verso di noi» (5 agosto 1942). I rapporti tra il cappellano e gli ufficiali volsero al peggio: «In tutta la divisione era conosciuta la mia ritrosia, anzi la mia aperta avversione contro quel perverso sistema di mandare all’altro mondo i cristiani come se, anziché di uomini, si trattasse di ragni. Tanto che qualcuno, al Comando di divisione, se n’era lamentato, perché impacciavo il Comando militare nell’adempimento dei suo eroico dovere, facendo osservare che gli altri cappellani (e non era vero, almeno di tutti) si mostravano militari di più spirito, e quando si fucilava qualcuno, anche loro erano contenti e dicevano che più si ammazza di questa gente e meno nemici si hanno». Rimpatriato, Don Brignoli, nelle giornate dell’8 e 9 settembre 1943, partecipò ai tentativi di resistenza contro i reparti tedeschi che entravano a Roma. Nel dopoguerra si sarebbe dedicato all’assistenza degli orfani di guerra. Quelle sue sofferte pagine diaristiche meriterebbero senz’altro una riedizione e un’attenta lettura».
Per approfondire:
Materiale documentario e fotografico sui crimini italiani nella ex-Jugoslavia è visionabile sul sito Crimini di guerra