DOVE PORTA IL FIUME
di Danilo Arona
Il fiume Tanaro, nel quale annegò Melissa Prigione nel 1925, è anche protagonista a tutto tondo di una recente uscita “a duo” che s’intitola Le notti gotiche (Aliberti) a firma del grande romagnolo Eraldo Baldini e del celebre giornalista astigiano Massimo Cotto. Segno di un immaginario nero e fluviale che sta riprendendosi in chiave antropologica il suo posto d’elezione nella narrativa di genere e non solo quella. Nel “Grande Nastro Nero e Limaccioso” che graffia Asti e taglia in due Alessandria, regalandoci muraglie di nebbia anche in pieno centro città, sono state riposte infatti nel corso degli ultimi decenni credenze e aspettative metafisiche di cui la ragione collettiva celebrerebbe volentieri la scomparsa.
Ma, come ha ricordato Riccardo Motta in tempi non sospetti (Tanaro, Bormida e l’inconscio collettivo di Alessandria, Castelnuovo Scrivia, Alessandria, 1995), si tratta di credenze che sonnecchiano, qualche volta dimenticate o rimosse, ma di cui è sufficiente riportare un frammento alla luce per accorgerci che ancora esistono e pulsano.
Frammenti culturali, archiviati nel nostro inconscio collettivo, che emergono dal fiume proprio come cadaveri. Accade, appunto, ne Le notti corte di Cotto, contraltare al baldiniano Notti lunghe, e accade pure ne Il gioco delle stelle di Anna Maria Emira Galletto (Edizioni Angolo Manzoni): corpi sempre sfigurati, da “riconoscere”, ma che comunque “esistono” come le credenze magiche sviluppatesi attorno al fiume, e che provocano a loro volta, come in un effetto domino, la nascita di miti spettrali che resistono al cosiddetto progresso e all’usura del tempo.
Mio padre, che visse per lunghi anni da giovane in riva al Tanaro, dentro una baracca che in città chiamavano “la casa della sabbia” e che venne distrutta dalle bombe in tempo di guerra, mi raccontava quand’ero bambino dei morti che fuoriuscivano dalle acque del fiume a date più o meno fisse, coincidenti con quelle mitiche da calendario tipo Ognissanti o notte di Valpurga, per incontrare i loro affetti viventi. Tema che allora, negli anni Cinquanta o giù di lì, veniva ampliamente declinato perché al fiume, non ancora malato, ci si recava per fare il bagno o per pescare e le disgrazie per annegamento erano frequenti, e spesso i corpi non venivano più recuperati, portati via da impetuose correnti.
Ancora Motta: “Tanaro era profondo e pescoso. Arcigno, apparentemente lento e quieto, specie dopo la costruzione dei ponti moderni che ne trattengono parte dell’impeto con le celebri ravegge artificiali, può trasformarsi in una tomba per i nuotatori incauti e troppo disinvolti. La sua inedia sorniona è un pericolo. Sottovalutarne la forza, in qualche caso incontrollabile, risulta fatale. Nuotatori e pescatori ne hanno fatte le spese: rapide, correnti diagonali, correnti fredde, buche e mulinelli hanno ghermito vittime, così come anche le inondazioni nelle stagioni delle piogge. Tanaro, che è anche il fiume dei suicidi, ha appunto fama di Vecchio Fiume Guerriero. Assimilabile a quelle forme che gli antropologi tardovittoriani come G. Frazer indicavano come primitive energetics: forme di energia primitiva che i popoli tradizionali ponevano al centro di rituali divinatori, dove si confondevano il riconoscimento delle forme di energia nascoste nella natura e le credenze soprannaturali.”
In questo modo gli spettri dal fiume diventavano una poco consolatoria forma di compensazione. Mio padre, vivendo in riva al Tanaro ed essendo campione italiano di nuoto, ne tirò fuori almeno una trentina prima che venissero ghermiti dagli infidi vortici, una volta me compreso. Ma per qualcuno non ce la fece. Se il cadavere non veniva recuperato (e spesso accadeva), il fiume e la cultura perifluviale partorivano storie di revenants, frammenti di energia primitiva che restavano latenti per decenni e che “a volte ritornano” come forze psichiche attive grazie anche ai contributi di certa letteratura di genere o per eventi catastrofici come la disastrosa alluvione del ’94. Nessuno, tra coloro che abitavano sulle rive del Tanaro, si permetteva di scherzare sui fantasmi degli annegati. Mio padre non lo fece mai a proposito di una giovane sconosciuta che si buttò dal ponte della ferrovia poco prima del tragico decennio degli anni Quaranta, per l’esattezza il 17 maggio 1939. Praticamente davanti ai suoi occhi, ma troppo lontana in termini quantitativi. Ci provò, ma l’impresa stava al di là delle sue forze, e al di là probabilmente della forza di chiunque.
“Quella ragazza di cui non potevo distinguere i lineamenti”, mi raccontò una volta da bambino dinanzi allo spettacolo, mai più visto, del fiume completamente ghiacciato, “era un presagio. Annunciava la guerra e le rovine perché si suicidò proprio nel giorno in cui Benito Mussolini venne a visitare Alessandria.”
Da “Il Piccolo” del 20 maggio 1939: Alessandria ha accolto il Duce con manifestazioni di divampante entusiasmo. Il nostro popolo incandescente di passione ha mostrato al fondatore dell’Impero la compattezza della sua fede fascista, testimoniando con una superba rassegna di opere la propria fervida operosità costrutttice.
Passione incandescente, ma lei, giovane e bella, si uccise. “E io non riuscii a salvarla. Nessuno ne scrisse e ne parlò, perché nel giorno del Duce non si poteva deprimere il morale della gente con una stupida suicida.” In quel giorno, infatti, s’inauguravano a raffica contemporanea: la casa littoria con la cripta-sacrario nei sotterranei, il dispensario anti-tubercolare, la casa della madre e del bambino, la fontana commemorativa dell’impero davanti la stazione ferroviaria e il complesso del sanatorio Borsalino. Non si sentiva proprio il bisogno di una nuova Melissa Prigione. Ma quella sconosciuta, che di Melissa Prigione era in qualche modo una delle tante declinazioni o “deviazioni” metafisiche, generò altre storie di paure che si raccontarono lungo il fiume sino a quando le bombe alleate non distrussero gli insediamenti abitativi costruiti a poca distanza dalla strada ferrata. Le storie del “tempo di guerra”, quelle sui pesci mostruosi che sembravano donne “biònch ‘cmé la sira” (bianche come la cera), versione fisicamente contaminata con il mito dello spettro fluviale anche qui ai suoi tempi chiamato “donna in bianco”, quelle sulle masche andate ad abitare lungo il Tanaro nelle case semidistrutte dai bombardamenti o quelle sui “bardot“, gli spettri dei bambini annegati di cui si può trovare eco nel breve romanzo di Cotto. Concatenazioni mitiche che stanno l’una all’altra come in un gioco di birilli: persino la celeberrima Marinella, immortalata da Fabrizio De André in una delle sue più conosciute canzoni, potrebbe – a dispetto di una versione ufficiale che, guarda caso, proviene ancora da Asti – far parte di questo reame oscuro e limaccioso.
Si scrisse infatti qualche tempo fa sul giornale “La Stampa” che lo psicologo astigiano Roberto Argenta aveva svelato l’identità di Marinella: la tipa si chiamava in realtà Maria Boccuzzi ed era una prostituta di 33 anni, aggredita a Milano nei primi anni Sessanta, colpita con sei colpi di pistola e gettata nel fiume Olona. Invece circola un’altra versione che, pur essendole identica nelle movenze, la ambienta in riva al Tanaro, ai confini tra Liguria e Piemonte, e il compianto Bruno Lauzi ne sosteneva il predominio di verosimiglianza. Ovviamente è impossibile per noi stabilire la verità storica, ma neppure importante: le storie che crescono e s’inabissano vicino ai fiumi sono simili e analoghe in ogni parte del mondo, tutte paurosamente tristi, tutte germinate attorno al caso di una morte ingiusta e, forse, evitabile. Perché a Bassavilla, ogni volta che qualcuno muore nel fiume, ci si sente traditi. Perchè l’eterno compagno di viaggio svela la sua faccia più demoniaca.