di Ugo Maria Tassinari*
[Questo testo è tratto dalle pp. 430-444 di FASCISTERIA. I protagonisti, i movimenti e i misteri dell’eversione nera in Italia (1945-2000) (ed. Castelvecchi, 2001). Nelle prossime puntate Tassinari lo aggiornerà fino ad oggi.]
[…] È proprio il movimento ultrà l’altro luogo di riaggregazione dei naziskin, anche se forse è più semplice parlare di un gruppo umano polimorfo, le cui vicende si intrecciano tra violenza politica, devianza sociale e criminalità comune. Pochi giorni prima del fermo del leader dei naziskin per l’attacchinaggio pro Priebke, il pm di Brescia Paola De Martiis aveva concluso l’inchiesta per il raid squadristico al margine dell’incontro calcisticio Brescia—Roma del 20 novembre 1994, segnata da ben 19 arresti, chiedendo il rinvio a giudizio di “Boccacci+26” per reati che comportano pene fino a un massimo di 15 anni e che vanno dall’apologia di fascismo alle lesioni gravissime e alla resistenza aggravata, dalla detenzione e dal porto d’arma all’attentato alla pubblica sicurezza.
La maggior parte degli elementi di prova a carico degli ultrà è costituita da fotografie e riprese televisive, che l’accusa usa con criterio estensivo: ogni partecipante all’assalto è stato ritenuto ugualmente responsabile senza valutare il grado di effettiva partecipazione. Il saluto romano, gli inni cantati, lo schieramento a falange non appena la banda è scesa dal pullman costituiscono per il pm manifestazioni usuali del disciolto partito fascista. Un’applicazione estensiva di questa valutazione giuridica porterebbe a denunciare ogni domenica alcune decine di migliaia di persone per violazione della legge Scelba. L’intero comando della spedizione punitiva, programmata da mesi, è costituito da militanti neofascisti: con Maurizio Boccacci figurano Alfredo Quondamstefano, Corrado Ovidi, Paolo Consorti, Massimiliano D’Alessandro e Giuseppe Meloni. Due di questi, Meloni e D’Alessandro, sono riconosciuti come leader di una “ciurma” ultrà, l’Opposta fazione, un centinaio di “duri e puri”, slogan preferito “meno calcio e più calci”. Meloni detto “pinuccio la rana” ha trentun anni e un passato militante. Ex consigliere circoscrizionale del MSI nel centro storico, supervotato ma costretto a dimettersi per i precedenti di violenza politica. Opposta fazione fa base nella sua pizzeria al Tiburtino, “Mezzanotte e dintorni” da cui parte la spedizione punitiva, condotta da lui e Boccacci. Accusato di aver accoltellato Selmin nega e rivendica l’amicizia con il sottosegretario agli Interni Gasparri (che due anni prima aveva organizzato il convegno Una patria chiamata curva). A Radio Incontro Bruno Ripepi detto “il comandante” il giorno dopo gli scontri di Brescia informa gli ultrà che “Pinuccio la rana” è stato ferito alla testa con 30 punti di sutura. Quando la magistratura allarga l’indagine ai rapporti tra società e capi ultrà il centravanti Andrea Carnevale racconta che la sua presenza a Trigoria era abituale. Massimiliano D’Alessandro, detto “er polpetta”, ha 25 anni ed è un ex di MP. Tra i suoi precedenti una rissa allo stadio nel 1990 ma anche l’arresto nel 1994 per diverse rapine col taglierino a banche e uffici postali. Lo accusano di aver bastonato per primo Selmin. Nega di essere fascista e di avere partecipato agli scontri. Si difende: sono cardiopatico. Giuseppe Meloni quando si è sposato ha rinunciato alla militanza politica ma non alla leadership di Opposta fazione. Le prime condanne per il raid di Brescia arrivano nel marzo 1996: Armando Sagrestani (20 mesi) Alfonso Argentino (18 mesi) Luigi Falchi (un anno) patteggiano la pena e godono di un sostanzioso sconto, visti i capi di imputazione (lesioni, resistenza, detenzione di armi ed esplosivo ma anche apologia di fascismo). Un mese dopo due giovanissimi tifosi calabresi della Juve sono accoltellati dopo la partita da quattro ultrà giallorossi, all’uscita della curva Nord.
La repressione non piega gli irriducibili ultrà giallorossi che — del tutto indifferenti alle ragioni del tifo anche più esasperato — si distinguono nei festeggiamenti per la promozione del Bologna partecipando a un raid nel capoluogo emiliano che si conclude con l’accoltellamento di un algerino e l’aggressione di altri otto extracomunitari e di un italiano. Sono 11 i bolognesi arrestati per tentato omicidio e lesioni aggravate da motivi razzisti. Allo stadio spicca uno striscione giallorosso, marchiato con un simbolo di destra: Una grande amicizia, un grande ritorno: onore. Dopo la partita si scatena la caccia al nero. La vittima più grave, Jachine Sabi, 26 anni, aveva la bandiera rossoblù addosso: un rene bucato da una coltellata, la faccia gonfia di botte. L’esistenza di un piano preordinato è evidente: le aggressioni ai danni degli extracomunitari si consumano in quattro distinti punti della città. L’allenatore del Bologna Ulivieri, fama di rosso, un milione donato ai carabinieri per risarcire un auto sfasciata dagli ultrà sbotta: «Meglio chiudere la curva». A fine luglio scattano le manette per quattro ultras di Opposta fazione: Giulio Moretti, 23 anni, figlio di un ingegnere con lussuosissima casa, il già noto Corradetti, Fabio “Sudo” Giglio, disoccupato di 25 anni, Roberto “Robertino” Fuligni, barista di 28 anni. Nel corso delle perquisizioni sono sequestrati fumogeni, bombe carte e pallottole calibro 9. I quattro erano già stati coinvolti nelle indagini sul raid di Brescia e membri di Opposta fazione erano stati identificati dalla polizia in occasione della partita Bologna— Brescia, a conferma di una organica alleanza con i Mods emiliani, un’altra banda di ultras fascisteggianti e di un conto aperto con i bresciani. La curva bolognese è un’altra tifoseria con una spiccata attitudine violenta: quando alla tradizionale carica data dai derby si aggiunge l’odio politico per gli ultrà rivali, la miscela esplode. E’ il caso dei rapporti con i modenesi, uno dei pochi club in cui il tifo è ancora egemonizzato dagli “autonomi”. Gravissimi gli scontri nel derby dell’aprile 1995, in serie C: gli ultrà calano su Modena in assetto di guerra. Alle 11 i Mods assaltano il centro sociale 22 aprile, nei pressi dello stadio: una rissa che coinvolge 100 persone ed è già finita quando arriva la polizia «Cretini, fascisti e cretini — commentano i giovani autonomi — Tutte le volte la stessa cosa. I bolognesi vengono prima per fare a botte. Ma stamattina sono arrivati con le spranghe e i coltelli. Ci hanno sparato con le pistole lanciarazzi, tirato i sassi e le pile. Che cosa volessero non si sa. Il Bologna è oltretutto già in B». I modenesi non si limitano al lamento ma replicano attaccando il corteo dei bolognesi arrivati con il treno delle 15, nonostante le forze dell’ordine abbiano mobilitato un uomo per ogni dieci spettatori (240 contro 2500, compresi vecchi e bambini: è come se per il derby romano si schierassero 7—8mila agenti). Bilancio finale: due poliziotti feriti, 5 ultrà finiti in ospedale e 8 arrestati (tre minorenni denunciati) per la solita sfilza di reati da scontro di piazza. Per tutti scatta il divieto per due anni di frequentare gli stadi. Lungo è anche il contenzioso con la tifoseria fiorentina, considerata “rossa”, da quando un lancio di molotov contro il treno, all’ingresso della stazione di Firenze, ridusse in fin di vita un quatordicenne bolognese, Ivan Dell’Olio, nel giugno 1989. Nell’ottobre 1996 il presidente del Bologna, Giuseppe Gazzoni Frasca, confortato dal presidente di AN, Gianfranco Fini, tifoso rossoblù, protesta con la polizia: come mai nello stadio blindato gli ultrà viola in trasferta hanno potuto introdurre e lanciare una decina di razzi contro la curva rossoblù dopo il gol di Batistuta? Il questore parla di razzi folcloristici ma una dozzina di spettatori finiscono in ospedale feriti da oggetti lanciati e alcuni tifosi fiorentini sono denunciati per porto di mazze e coltelli. Nel giugno 1995 il collettivo autonomo viola Valdarno, 17 ultrà tra i 20 e i 29 anni, operai e disoccupati, sono denunciati per associazione a delinquere. Il disegno criminoso unitario si era manifestato in una lunga catena di episodi: incidenti fuori e dentro lo stadio, l’incendio dell’auto di un calciatore, la lettera di condanna a morte a un ultrà juventino, una rissa selvaggia nel grill di Montepulciano, in 50 contro una trentina di romanisti. I pullman viaggiavano su corsie opposte e il luogo dello scontro è la galleria prensile che congiunge le due stazioni di servizio. La maxirissa è registrata dall’impianto di sicurezza. Sei i romanisti leggermente feriti, fermati tutti i partecipanti: e per i tifosi viola salta la trasferta a Foggia. Nel marzo 1996 il pm Fleury ordina un’altra serie di perquisizioni nelle sedi di Collettivo viola e di Viola korps. A un ultrà di San Giovanni Valdarno è sequestrato un machete. La fama di sinistra non preclude una forte pulsione securitaria: nel marzo 1996 due spacciatori sorpresi in servizio sotto la curva, alla fine di Fiorentina— Sampdoria, sono pestati a sangue. Uno, italiano, aveva appena scontato il divieto di accesso allo stadio: col socio libanese chiede soccorso alle volanti ma i giustizieri circondano i poliziotti per continuare il pestaggio. L’attitudine violenta dei tifosi viola sarà punita con cattiveria dagli ultrà della Salernitana, nell’ottobre 1998: inferociti dai pestaggi subiti a Firenze dopo una partita senza storia (finita 4 a 0 per la Fiorentina) approfittano di una clamorosa svista regolamentare per vendicarsi. A brevissima distanza dagli incidenti, infatti, è previsto che la Fiorentina, campo squalificato per le intemperanze dei tifosi, giochi la partita di ritorno di Coppa Uefa a Salerno. La sede non può essere cambiata nonostante gli evidenti rischi di ordine pubblico. L’esito agonistico è scontato: la squadra toscana ha già vinto in Svizzera e conduce alla fine del primo tempo ma il lancio dal settore dei tifosi locali di una bomba carta contro il quarto uomo determina la perdita della partita a tavolino e la beffarda eliminazione dei viola, puniti da un’interpretazione ottusamente letterale del principio della responsabilità oggettiva del club ospitante. La polizia, sotto accusa per gli insufficienti controlli, individua dai filmati 5 presunti responsabili, entrati allo stadio forzando il varco disabili e denuncia un parcheggiatore abusivo di 24 anni, senza precedenti penali. Il questore si giustifica: avevamo disposto gli agenti per scongiurare risse tra ultrà (e infatti ai viola erano stati sequestrati coltelli, bastoni e uno striscione offensivo: Ma che gemellaggio, terroni di merda e non sono mancate scaramucce, con 4 salernitani feriti). Pochi giorni dopo, riconosciuto in fotografia, è arrestato un liceale diciottenne, Antonio Avossa: si difende sostenendo che lui non è mancino, come il lanciatore e che poi l’ordigno è stato scagliato dall’anello superiore della tribuna, cinque o sei metri più in alto di dove si trovava con i suoi amici.
E sono proprio quattro ragazzi salernitani le ultime vittime della follia che accompagna il calcio e che non è riduci. Morti carbonizzati, all’alba di lunedì 24 maggio 1999, nel rogo del vagone del treno che li riporta a Salerno dopo la sconfitta di Piacenza, che ha deciso la retrocessione in serie B. Probabilmente nelle menti di qualcuno c’è un orrido piano: incendiare tutto il treno a pochi metri dalla stazione di Salerno, per emulare gli ultrà laziali, autori di un simile attentato una settimana fa, nella stazione di Campo di Marte a Firenze. C’erano già stati morti di trasferta in circostanze analoghe, due ragazzini, ai primordi del movimento ultrà. Entrambi vittime di giochi pericolosi, per alleviare la noia del ritorno, quando l’adrenalina e le “sostanze” per tenersi su sono finite: il 21 marzo 1982 nei pressi di Civita Castellana un petardo aveva causato l’incendio di un vagone del treno Milano-Roma carico di tifosi dl ritorno dalla partita Bologna-Roma. Nell’incendio Andrea Vitone, 14 anni, muore per soffocamento. Il 13 aprile 1986 ancora un tifoso della Roma, Paolo Saroli, di 16 anni, è carbonizzato nell’incendio di un vagone del treno Pisa-Roma, anche questo provocato dall’esplosione di un petardo. Alla stazione di Piacenza c’è ressa. La polizia riesce a dirottare 200 esagitati su un treno verso Sud, gli altri però restano sui marciapiedi, guardati a vista dagli agenti. E’ allestito un convoglio speciale con undici vagoni. Salgono tutti senza biglietto e molti sono costretti a viaggiare nel corridoio. Ci sono solo una dozzina di poliziotti a fare da scorta armata. Dagli zaini iniziano a spuntare pietre, razzi, qualche spinello. L’età media è sui diciotto anni, ma c’è chi non raggiunge i sedici. Tra i molti studenti c’è anche qualcuno che lavora già. A Bologna sno aggiunti altri cinque vagoni per evitare il sovraffollamento ma la ciurma ormai è scatenata e semina il terrore in quasi tutte le stazioni. Pietre contro i treni in transito, stazioni (come quelle di Firenze e Prato) devastate dai teppisti. Ad ogni fermata scattano i controlli della Polfer, ma si continua così per tutta la notte. All’alba si contano i danni e si arriva in Campania. Ancora scaramucce a Napoli, nella stazione dei Campi Flegrei, e quindi a Torre Annunziata. Poi l’arrivo a Nocera Inferiore, intorno alle 6,50. Qui succede di tutto, con due donne che vengono ferite mentre si trovano a bordo delle proprie auto, ferme ad un passaggio a livello. Volano pietre, bottiglie ed anche qualche sciacquone, divelto dai wc delle carrozze. I poliziotti tentano di far scendere dal treno i più facinorosi per identificarli ma ogni tentativo di stanarli è impossibile. Dopo un’ora di nuovo tutti a bordo, si entra nel tunnel della morte. Dalla quinta carrozza si sprigiona una fiamma. Il fumo acre avvolge tutto il convoglio, c’è chi tira il freno d’emergenza. Il macchinista capisce il dramma e riesce a portare il treno fuori dalla galleria. Ma per Simone Vitale, di 21 anni, giocatore della squadra di A2 di pallanuoto Rari Nantes Salerno, Vincenzo Lioi di 15 anni, Giuseppe Diodato, di 23 anni, e Ciro Alfieri, 16 anni, è già troppo tardi. I loro corpi sono già carbonizzati, li ha soffocati il fumo mentre dormivano rannicchiati in uno scompartimento zeppo di gente. Scatta l’allarme lungo tutta la linea, le fiamme sono alte cinque metri: le lingue di fuoco avvolgono i 1500 ragazzi che fuggono, arrancando tra i binari, tendendo mani verso qualcuno che non c’è. Scatta la caccia ai responsabili: l’accusa è di omicidio. L’inchiesta si risolve in una decina di giorni. Sarà una maglietta nera, una Nike, a tradire Raffaele Grillo, l’incendiario che girava come un forsennato per la carrozza numero cinque. Lo incastrano alcuni testimoni oculari, come il teste Alfa, uno dei nove feriti nel vagone della morte, o S.N., altro giovane salernitano. La maglietta nera è trovata dagli inquirenti a casa di Grillo il giorno dell’arresto. Un indumento cercato dagli stessi investigatori: gli incendiari erano stati visti con abbigliamento sportivo. Son quattro in tutto gli arrestati: Grillo, Massimo Iannone, e due minorenni L.M. e V.N. Le indagini partono da una videocassetta della polizia scientifica: le forze dell’ordine, infatti, aspettavano il convoglio ferroviario alla stazione con tanto di videocamera per riprendere e identificare i tifosi più facinorosi. Utilissima la deposizione di S.N. che ha dichiarato di aver visto «personalmente un ragazzo appiccare il fuoco prima nel bagno e poi nella cabina al centro del vagone del treno», fornendo anche un identikit di Raffaele Grillo: «un tipo biondino, con i capelli rasati e la maglietta nera». S.N. era sul quinto vagone, nella stessa cabina dove erano altri ragazzi feriti, Andrea, Oreste e Gianluca. Lo stesso S.N. in una dichiarazione successiva, presentatosi spontaneamente, racconta una storia particolare: recatosi in ospedale a trovare il testimone Alfa (quello che accusa i quattro) si ritrova con lui su tutti i passaggi avvenuti in quei drammatici momenti. I due ragazzi però riferiscono ai giudici due versioni totalmente differenti. Da una parte S.N. dice di aver visto soltanto due ragazzi appiccare il fuoco, vale a dire Raffaele Grillo e Giuseppe Diodato, una delle quattro vittime. Dall’altra c’è Alfa che dice di conoscere personalmente tre dei quattro arrestati (e dell’ultimo, V.N. descrive un particolare riscontrato, 4 o 5 nei in faccia) e di averli visti nel corridoio della carrozza «con una matassa di carte e un accendino tenuto da Raffaele mentre gli altri reggevano pezzi di spugna e altro materiale infiammabile». Il bagno incendiato è quello della carrozza successiva alla sua: non ha visto direttamente il gruppo appiccare il fuoco, ma ne ha percepito distintamente le presenza e l’azione mentre tornano sui propri passi per appiccare il fuoco nella parte centrale del vagone. Raffaele Grillo dà ogni colpa a Giuseppe Diodato, riferendo che erano presenti anche Vincenio Lioi e Ciro Alfieri, vale a dire tre delle quattro vittime. Massimo Iannone, da parte sua, dice di essere rimasto da Nocera Inferiore a Salerno nel quarto vagone e di essersi reso conto delle fiamme affacciandosi dal finestrino. Dichiarazioni smentite dai due minorenni. V.N. ha riferito di trovarsi nella terza carrozza: «Tra il mio vagone e quello incendiato ce n’era un altro».
La violenza degli ultrà e la leadership esercitata in numerose tifoserie da militanti neofascisti non sono riconducibili a un disegno strategico o alla ricerca a tavolino di una massa di manovra. Sono autentici tifosi romanisti e leader riconosciuti dei Boys, due ex leader del Fuan come Guido Zappavigna e Mario Corsi che si sono fatti anni di carcere per i NAR (il primo prosciolto in istruttoria, il secondo condannato per reati minori e assolto dall’accusa di omicidio del militante del Pci Ivo Zini) ma anche Bruno Petrella consigliere provinciale di AN e vicepresidente della quarta circoscrizione, uno dei protagonisti del comitato di difesa di Valerio e Francesca per la strage di Bologna (sarà lui a consegnare la loro lettera al Papa). Nell’autunno 1996 la magistratura romana presenta il conto a Corsi e alla sua banda. Una prima raffica di 7 arresti scatta a fine settembre: per le pressioni e le violenze esercitate per assicurarsi ingressi di favore allo stadio e trasferte pagate, sotto la minaccia di scatenare disordini in curva e danneggiare così la società. Un mese dopo per 4 leader ultrà scatta un nuovo arresto (domiciliare), per i ricatti, le botte e le minacce ai cronisti del calcio, costretti talvolta a firmare articoli sotto falso nome per paura di rappresaglie: Corsi, Fabrizio “er Mortadella” Carroccia, 26 anni, Giuseppe “Peppone” De Vivo, 36 anni, leader di Frangia ostile, già sospettato per il raid di Brescia, Fabio “er Mafia”, Mazzei, 33 anni. Guglielmo “Willy” Criserà, già in libertà vigilata, si vede interdetto per un anno l’accesso alle manifestazioni sportive. Gli episodi contestati sono numerosi: il blitz a Tele Roma Europa nel gennaio 1993, dove la presenza in video di De Vivo e Criserà è imposta minacciando di sfasciare tutto, telefonate minatorie alle redazioni di Radio Incontro, Radio Radio, Tolk Radio e Spazio Aperto, un’irruzione nel gennaio 1996 a Radio Radio per imporre la messa in onda di un comunicato registrato con pesanti accuse a un cronista del Messaggero (Corsi, Carroccia e Criserà), il lancio in aria per tre volte di un radiocronista tra insulti, sputi, pugni e slogan fascisti durante il derby di febbraio 1996, l’ordine agli addetti di aprire i cancelli della tribuna Monte Mario durante Roma—Torino per fare entrare gratis una pattuglia di una ventina di ultras (Mazzei), un capannello minaccioso in tribuna stampa il 12 maggio 1996, dove nonostante la vittoria sull’Inter “er Mortadella” insulta il presidente Sensi, gli insulti contro un giornalista dell’Unità (aveva fatto un’inchiesta sui giri di hashish e di prostituzione minorile in curva, nella zona controllata dai Boys, gli dedicano uno striscione: Tua sorella è qui con noi). Il giornalista aveva raccontato così l’approccio con una delle ragazzine («giovani, giovanissime, potrebbero avere 15, 16 anni… sono vestite alla moda, il look è quello della ragazze che frequentano lo stadio, due sono truccatissime, la terza per niente: esitiamo, a metà delle scale. Troppo. Perché quasi subito appare un gigante con la faccia da bambino (avrà al massimo 18 anni, proprio a esagerare) ma i modi da duro, alla vita è cinto da una bandiera della Roma arrotolata: con lui c’è un piccoletto avvolto in una sciarpa giallorossa e i capelli a spazzola. “Che caz…fai? Se voi anna’ colle ragazzine, devi pagà, scegli chi ti piace, caccia i soldi e te le porti ar cesso. Sennò vaff… e gira al largo”. L’invito eloquente è del minaccioso piccoletto. L’altro resta lì in silenzio»). Ad ogni modo, il cronista aveva avuto il tempo di contare, prima dell’incidente, una decina di “marchette” in mezz’ora. Le radio dei tifosi smentiscono la Digos: per l’editore di Radio Radio gli ultras chiesero di partecipare a un dibattito e lo ottennero pacificamente, sulla stessa linea Tele Roma Europa: anzi, il conduttore ebbe persino il premio Cuore di curva.
Dalla curva nerazzurra di San Siro, dai Boys SAN, proviene il gruppo dirigente di Azione Skinhead, nata come organizzazione dalla fusione, alla fine degli anni ’80, tra una sparuta pattuglia di fedelissimi dello stile skin, sopravvissuti a una decennale selezione naturale e le truppe fresche degli ultrà. Le fedine penali e le vicende dei più facinorosi permettono di individuare una vasta gamma di nemici ma anche esiti umani assai variegati. Paolo Coliva, detto “l’armiere”, è arrestato nel marzo 1990 insieme ad altri due boys, Massimiliano Bergomi e Adone Gagliardi, per il pestaggio di due extracomunitari a Varese. Nove mesi dopo i primi due tornano in galera per aver accoltellato durante un attacchinaggio un “leoncavallino”. Si fanno più di un anno di carcere e all’uscita escono dal giro. Paolo Coliva dopo la scarcerazione si allontana dagli skin, diventa tossico e muore di overdose. Franco Caravita, altro leader storico dei Boys, rifiuta la scelta neofascista: inquisito nel 1983 per l’accoltellamento di un tifoso austriaco in un incontro di Coppa, al convegno degli ultrà dopo l’uccisione del tifoso genoano “Spagna” a Marassi è contestato per le sue posizioni pacifiste. Garante dell’armistizio che dal 1983 ha assicurato la fine delle violenze nel derby, ha finito per mettersi in affari con l’amico nemico rossonero, Giancarlo Capelli, leader delle Brigate: per anni gestiscono in società la Bottega del tifo. Erano skin duri e puri il manipolo di interisti responsabili della morte di un tifoso ascolano nel novembre 1988, Nazareno Filippini, ucciso da un calcio alla nuca. All’epoca dei fatti la stampa dà gran risalto alla figura imponente di “Metallica”, muscoli ipertrofici e testa pelata, considerato il capo della banda. Poi, con l’ingrossarsi del fascicolo di polizia, ha preso rilievo la figura del più giovane del commando. “Nino” Ceccarelli, nato a Pescara nel 1969, cresciuto a Quarto Oggiaro. Primo arresto a 19 anni, a Como, per armi improprie. Incarcerato per l’omicidio di Ascoli, se la cava con una condanna per rissa. Leader dei Viking, un’altra banda di estrema destra, “Nino” manifesta un temperamento violento anche fuori degli stadi. Nel febbraio 1990 è arrestato per il tentato omicidio di un “pusher” libanese di hascisc: gli ha bucato un polmone. Nel dicembre 1994 è lui ad essere accoltellato fuori una discoteca. Tre mesi dopo, il 5 marzo, è arrestato con due coltelli nei pressi dei pullman dei tifosi juventini a San Siro: qualcuno vede la lama e chiama la polizia. Gli era scaduto da poco il divieto di accesso allo stadio. Nel novembre 1997, mentre è già detenuto per altri reati, gli arriva un ordine di cattura per lo spaccio di hashish sulle gradinate di San Siro. A tirare le fila un boss calabrese, Vittorio Boiocchi, arrestato in un blitz antindrangheta. Al suo servizio altri ultrà: “Metallica”, ovvero Marcello Ferrazzi, e un altro leader dei Boys, Mario Serafini, 28 anni, titolare di un’agenzia di servizi di sicurezza per manifestazioni sportive e artistiche. A casa di Cristian Scalari, 22 anni, di Cinisello Balsamo, la polizia trova 7 chili di hashish e un chilo e un quarto di marijuana. Secondo un pentito, l’organizzazione riforniva di cocaina numerosi locali notturni: gli altri tre arrestati nel blitz, non coinvolti nel giro ultrà, avrebbero curato questo settore, smerciando almeno 3 chili di polvere. Non è il primo caso: nel marzo 1993 un ultrà bresciano è arrestato per spaccio allo stadio, nel gennaio 1994 la polizia trova un chilo di hashish in un bar ritrovo delle Brigate rossonere, nel novembre 1994 lo scandalo delle “marchette” e dello spaccio nella curva dell’Olimpico.
Anche tra i tifosi juventini forte è la componente apertamente fascista: i Drughi (i teppisti di Arancia meccanica) si sciolgono per questioni di merchandising e sono ben presto rimpiazzati dai Fighters, con tanto di marchio commerciale registrato. I milanesi Mauro Cordisco, 22 anni, e Alberto Nai, 27 anni, ultrà al seguito della squadra, sono condannati a 4 mesi senza condizionale per il pestaggio il 17 maggio 1990 di due africani che telefonavano alla stazione di Genova Principe: il pretore concede la pena alternativa di 60 giorni di lavoro in una comunità di accoglienza della Caritas, un intelligente contrappasso. Anche i Viking vanno al Delle Alpi con le celtiche: nonostante gli striscioni contro i giornalisti in curva, i leader viaggiano gratis sull’aereo sociale e in passato sono stati assunti per il servizio d’ordine allo stadio.
Una curva tradizionalmente “nera” è quella di Verona. Nel 1986 l’intero gruppo dirigente delle Brigate gialloblù — quasi tutti militanti del Fronte — è denunciato per associazione a delinquere: è il primo caso. Saranno condannati in dodici nel 1990 e in vista del processo d’appello, nel novembre 1991 si autosciolgono: da allora non esistono più gruppi organizzati. Tra i leader storici della curva c’è il giovanissimo deputato Nicola Passetto (che già dai banchi del consiglio comunale si era fatto onore lanciando topi contro il sindaco) ma anche Fresa, uno degli animatori dei raduni skin di Ritorno a Camelot. Nella primavera 1995 per violazione della legge Mancino sono perquisiti una ventina di militanti e sono arrestati 7 dirigenti del Veneto Fronte Skinhead. Tra questi Alessandro Castorina, 25 anni, titolare di una boutique molto chic in centro, Francesco Guglielmo Mancini, 30 anni, di S. Bonifacio, fissato di bomber e tuta mimetica ma iscritto modello del CAI, Paolo Rinaldi, leader degli skin veronesi. I principali capi di imputazione: gli striscioni neonazisti durante la partita Italia— Uruguay, nel 1989 e una cena conviviale per il centenario della nascita di Hitler (il 18 aprile dello stesso anno). Il razzismo la curva gialloblù lo profonde a piene mani ogni volta che il Verona ospita il Napoli. Stanchi di insulti e di appelli al Vesuvio a risvegliarsi, gli ultrà azzurri risolvono la partita con uno striscione poetico: Giulietta è una zoccola. Nel maggio 1996 a finire agli arresti (domiciliari) è il trevigiano Alberto Lomastro, 29 anni, reduce dalla candidatura per la Fiamma alle elezioni politiche, precedenti penali per oltraggio, danneggiamenti e lesioni. Insieme ad altri ultrà del Verona, tra i quali il ventenne Juri Chiavenato, anche lui arrestato, è accusato di aver impiccato sugli spalti — in occasione del derby col Chievo, il 28 aprile — un manichino vestito da calciatore e col volto dipinto di nero, con un eloquente cartello appeso al collo: Negro go away. Non gli è servito dissociarsi dall’azione con i giornalisti: «Una goliardata, ma se fosse serio sarebbe un atteggiamento da condannare». Quel giorno in curva, tra le altre, spiccava la sciarpa gialloblù del sindaco, Manuela Sironi, di Forza Italia. Si difenderà: «Se mi fossi accorta di quelle scritte non sarei entrata e avrei ordinato di toglierle. Sono indignata perché per quattro idioti si sporca l’immagine della città». Dopo gli insulti in vari stadi a Ince, Desailly e Winter, l’episodio più grave di razzismo è un avvertimento alla società che aveva resa nota l’intenzione di acquistare un coloured olandese, Ferrier. Per l’occasione gli ultrà si erano bardati con cappucci e mantelli bianchi, a mo’ del Ku Klux Klan. Nelle perquisizioni di rito è recuperato il solito armamentario: bandiere naziste, svastiche, simboli delle SS, un coltello e una bomboletta di gas paralizzante. A ottobre ancora manette per i naziskin, per due aggressioni, una nei pressi dello stadio, nell’agosto 1995, l’altra in un bar cittadino, nel luglio 1996: tra gli arrestati ci sono ancora Mancini e Castorina. Il gip contesta la violazione del decreto Mancino sull’odio razziale ma si tratta di un regolamento di conti. I due sono condannati a un anno con Fabrizio Bazzerla (un altro imputato, incensurato, se la cava con 10 mesi) per aver aggredito due volte Enrico De Angelis, uscito dal gruppo naziskin veronese, e sua moglie Alessia Avesani, per ritorsioni dovute a disaccordi interni all’organizzazione. In molte città gli ultrà neofascisti alternano violenze da stadio e violenze politiche. Da Bari, dove l’imbianchino Biagio Gregorio, 20 anni, già interdetto dallo stadio per un anno è denunciato per lesioni e favoreggiamento nel pestaggio, nel gennaio del 1995 alla Taverna del Maltese, un ritrovo di sinistra, a Torino, dove un minorenne già denunciato per gli scontri allo stadio, è accusato per un assalto degli skin contro una scuola occupata, nell’autunno 1994. A Roma, dove la tifoseria tradizionalmente “nera” era quella della Lazio, che non esita a contestare come calciatore il fuoriclasse olandese Winter perché è “negro” (in realtà delle Indie occidentali, come Gullit o Rjkijard) ed “ebreo” (ha un nome biblico: Aaron). Così a Roma le comuni simpatie neofasciste non attenuano i toni in occasione del derby. Il 20 febbraio 1996 i romanisti attaccano con uno striscione: “Avete i colori degli ebrei”; la risposta è pronta: “e voi la puzza”. Significativo è l’elenco degli ultrà biancazzurri arrestati il 19 dicembre 1994 per gli scontri del derby. Roberto Amico ha 25 anni e precedenti vari per violenza e reati contro il patrimonio, politici e comuni. Massimiliano Butteroni, 24 anni, già denunciato per rapine, oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, simpatizzante neofascista. Tre mesi dopo è di nuovo arrestato: ha accoltellato alle natiche 4 soldati prima della partita con la Juventus. Gli era vietato uscire di casa la domenica pomeriggio ma la Coppa Italia si gioca il mercoledì sera… Tra gli altri arrestati, un poliziotto 23enne in servizio alla squadra tecnica della Questura e un ultrà duro e puro (solo precedenti da stadio), spicca il nome di Marco Fanelli, 21 anni, precedenti vari per rissa, lesioni e violenze in incontri sportivi e militante di MP. Quattro ultrà di Latina, Andrea Castellucci, Antonio Di Silvio, Gianluca Lovello, sessant’anni in tre e Amadio Giordani, 32 anni, sono arrestati nello stesso mese per spaccio di stupefacenti. A casa sono sequestrate foto in cui sono immortalati mentre fanno il saluto romano in curva Nord. Le accuse: associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, ricettazione e porto d’arma, resistenza e false generalità, aggravata da finalità politiche e razziali. A casa di Lovello sono sequestrati oggetti e simboli neonazisti e documenti di MP e Meridiano Zero. Dallo scantinato di via Domodossola alla curva Nord al marciapiede di una banca di periferia si consuma la tragedia del trasteverino Claudio Marsili, 32 anni, leader degli Irriducibili. Una sfilza di precedenti penali (risse, oltraggi, detenzione e spaccio di droga, reati vari contro il patrimonio) e politici (un arresto in un covo di naziskin tra svastiche, eroina e croci celtiche). E’ ucciso venerdì 11 gennaio 1998 dalla guardia giurata di una filiale della Cariplo. La domenica in curva Nord spunta uno striscione enorme: “Claudio per sempre nei nostri cuori”. Dal giorno dopo, come già per Kapplerino, comincia il pellegrinaggio militante, con le scritte che invocano vendetta (“Sangue chiama sangue”, “Metronotte assassino”, “Claudio vive”), i riti sul luogo della morte, le minacce e gli insulti al collega dell’”infame”. Infine il funerale: teso, commosso e aperto da uno striscione ancora più duro: Tre spari infami ci hanno tolto un amico.
La tragedia di Genova, il 29 gennaio 1995, l’uccisione dell’ultrà rossoblù Vincenzo “Spagna” Spagnolo, militante del Centro Sociale Zapata, fa giustizia di tanta facile sociologia della miseria e delle semplicistiche assimilazioni tra violenza degli ultrà e neofascismo militante. Il capo della banda, le Brigate rossonere due, di cui faceva parte il giovanissimo assassino, Simone Barbaglia è Carlo Giacominelli, 31 anni e una laurea in economia e commercio, detto il “chirurgo” per la precisione negli accoltellamenti al gluteo. Comincia nelle Brigate rossonere, notoriamente di sinistra. È pubblicamente schiaffeggiato per un ammanco di cassa. Vanta un arresto a Perugia nel 1983 per un accoltellamento e poi è coinvolto in una sparatoria per motivi di traffico. Nell’estate 1994 guida la scissione delle Brigate. Ai giudici si dichiara leghista. Alcuni testimoni lo hanno visto in prima linea, altri lo avrebbero sentito minacciare Barbaglia: guai a te se fai il mio nome. Anche per Simone non c’è nulla che autorizzi il corto circuito ultrà uguale fascisti. Nessun precedente politico, nessun riferimento iconografico o di look. La sua microbanda è nota come il gruppo del Barbour, il costoso giaccone griffato che è un must nei giri giovanili da discoteca. Un gruppo di pischelli che era andato a Genova armato di coltelli per guadagnare punti nel branco e così Simone finisce per ammazzare “Spagna” per paura, per inettitudine. Nell’assalto il giovane milanista si trova in prima fila, sguaina il coltello ma non lo usa e si limita a colpire con un pugno l’avversario che indietreggia terrorizzato. Parte la controcarica dei genoani e il gruppo dei milanisti si ritira. Simone è attardato e tira di nuovo fuori il coltello ma il militante autonomo non si fa spaventare e tenta di disarmare Simone, che lo colpisce allo stomaco, uccidendolo. Racconterà ai giudici: «A quel punto potevo fare due cose: o continuare a scappare col mio coltello verso la curva sud, come stavano facendo molti altri del gruppo, oppure fermarmi anch’io vicino a Carlo e tirare nuovamente fuori il coltello. L’idea di farmi vedere da Carlo scappare e di dimostrargli che non avevo abbastanza coraggio per imitarlo mi era insopportabile, sarebbe stato umiliante per me». Le indagini partono a vasto raggio, ma dopo una decina di arresti il cerino acceso resta in mano al solo Simone, scaricato subito dai compagni di tifo. Trenta dei 34 imputati per rissa al processo chiedono il patteggiamento. Simone in primo grado se la cava con una condanna a 11 anni di carcere — e la concessione degli arresti domiciliari dopo 17 mesi di carcere — ma in appello la Corte riconosce l’aggravante del futile motivo e rimanda indietro il processo. Nel secondo processo il pm nega ancora l’esistenza dei futili motivi ma la corte è di diverso avviso e così nel luglio 1999 lo condanna a 16 anni e mezzo, perché non applica lo sconto previsto dal rito abbreviato ma soltanto le attenuanti generiche prevalenti.
Troppo scarsi sono gli indizi per classificare le Brigate Rossonere 2 come una banda fascista: non bastano certo il grido Boia chi molla lanciato all’inizio della carica contro gli ultrà del Genoa caduti nell’imboscata. O il nome di battaglia del braccio destro del “chirurgo”, Massimo Elice, alias Olaf, un altro figlio della buona borghesia del ponente savonese, un agente di commercio che la domenica smette il doppiopetto e si diletta con il bastone animato. Un nome da vichingo, che evoca la mitologia nordica tanto cara ai picchiatori neri, adusi a caricare impugnando il martello e invocando Odino. Certo i leader trentenni, Giacominelli, Elice, il pavese Pierluigi “Gigi” Dozio, coltivano la violenza all’interno del gruppo e il raid è stato programmato in una riunione in birreria: ma lo stesso pm, dopo aver accusato Giacominelli di aver istigato l’omicidio, fermando il succubo Barbaglia che scappava e spingendolo con il coltello sguainato contro il genoano che avanzava, arriva alla conclusione che solo l’aggressione era premeditata, non l’omicidio, e quindi i capi della banda devono rispondere di rissa aggravata. E possono chiedere il patteggiamento perché, avendo accettato di concorrere al risarcimento, 100 milioni, hanno dimostrato ravvedimento. Ma la famiglia Spagnolo non ci sta e accusa: hanno trattato al ribasso, pensano di cavarsela con 10 milioni a testa. E l’opposizione del pm fa saltare il disegno difensivo: Dozio, un precedente per tentato omicidio, ed Elice, che deve rispondere anche di detenzione d’arma, sono condannati a 2 anni e 2 mesi. La verità dolorosa è che nella catastrofe dell’umano degli anni ’90 certe curve di stadio come certe piazze sono diventati i catalizzatori di una violenza sociale profonda che solo occasionalmente, e talvolta casualmente, finisce per assumere propriamente i caratteri della violenza fascista. Una violenza che sembra comunque tendenzialmente in calo nella prima parte del campionato 1995— ’96: da settembre a gennaio sono solo 50 gli arrestati e 302 i feriti (189 esponenti delle forze dell’ordine e 113 tifosi). In aumento invece i provvedimenti di polizia contro i tifosi violenti: dei 2813 divieti di accesso allo stadio comminati nell’arco di sei anni ben 574 sono stati applicati da agosto 1995 (210 al Nord, 132 al Centro, 232 al Sud) con un record negativo per la Campania (180 di cui 116 a Napoli: ma i responsabili sono stati soprattutto protagonisti di saccheggi di autogrill, episodi certamente illegali ma a basso tasso di violenza). Un contributo alla drammatizzazione del problema la dà la stampa che esaspera il sensazionalismo. E’ la tesi di Luciano Scorza, genovese, che si laurea in scienze politiche esaminando nel dettaglio il processo di deformazione della realtà degli ultras operata dai mass media. Una tesi comparativa che parte da un dato inquietante: a un fatto analogo, l’omicidio di un tifoso dell’Espanol dopo la partita con il Gijon, la stampa spagnola dedicò 84 articoli, mentre sui fatti di Genova ne sono stati prodotti 1469: «La stampa italiana ben più avvezza a trattare notizie di questo tipo non ha perso l’occasione di sfruttare il fatto di cronaca per vendere l’avvenimento». Lo conferma un altro dato empirico: “Spagna” era soltanto il nono morto in 15 anni di tifo violento. Lo avevano preceduto, tra strepiti molto minori, Vincenzo Paparelli, (laziale, ucciso da un razzo lanciato in curva durante il derby, e per anni gli ultrà giallorossi avevano rivendicato l’omicidio col coro beffardo: «28 ottobre (1979) giornata storta, saluti e baci a Paparelli a Prima Porta e tu laziale, testa di cazzo, in curva nord ti spariamo un altro razzo»; Stefano Furlan (durante la partita di Coppa Italia Triestina Udinese, febbraio 1984); Marco Fonghessi (un milanista accoltellato da un ultrà rossonero che lo aveva scambiato per tifoso cremonese, ottobre 1984), il sambenedettese Giuseppe Tomaselli (accoltellato nel dicembre 1986), Nazzareno Filippini (dopo gli scontri tra ultrà ascolani e Boys nerazzurri, nell’ottobre 1989), il romanista Antonio De Falchi (un diciottenne stroncato da una crisi cardiaca dopo essere stato aggredito a Milano da un gruppo di ultrà rossoneri, nel giugno 1989), il bergamasco Celestino Colombi (ucciso da un infarto durante le cariche della polizia dopo Atalanta— Roma, gennaio 1993), Salvatore Moschella di Acireale (si era gettato dal treno per sfuggire alle sevizie dei tifosi messinesi, gennaio 1994).
E infatti ben presto le violenze da stadio riprendono: nell’anniversario della morte di “Spagna”, due tifosi atalantini, David Cattaneo e Calisto Meneghini, sono arrestati mentre tentano di assaltare un pattuglione di tifosi romanisti in trasferta, che avevano lanciato bombe carta durante la partita. Segue un’ora di guerriglia urbana. I due arrestati sono condannati per direttissima, rispettivamente a 12 e 8 mesi Il primo è armato di coltello. Otto i feriti: 7 tra poliziotti e carabinieri e un bergamasco tifoso della Roma. Nel febbraio 1997 gravi incidenti si succedono nel giro di una settimana ma l’ondata emergenzialista non monta. A Reggio Emilia c’è un lancio di rubinetti contro i tifosi del Parma e poi sassate contro l’autobus: 9 denunciati, il più giovane ha 23 anni. Sette giorni dopo una nuova Heysel è sfiorata a Firenze con la polizia pressata sui vetri antiproiettile da 400 tifosi che spingono verso il basso per dar manforte a un migliaio di sfondatori. Un’ora prima un commando assalta il pullman che trasportava la Juventus allo stadio: rotti 4 vetri, feriti di striscio alcuni calciatori. Nella curva juventina spunta uno striscione atroce: Ciao, ebrei. Sono 24 i denunciati del collettivo viola, operai e studenti dai 17 ai 31 anni: per loro scatta il divieto di accesso a manifestazioni sportive. E’ quello tra tifosi viola e bianconeri un odio radicato dai primi anni ’80: gli incidenti e le provocazioni si susseguono negli anni. Particolarmente pesanti quelli di Torino nel novembre 1995, 11 agenti e tre ultrà feriti, di cui uno accoltellato (per aver sbagliato parcheggio), danni per decine di milioni allo stadio e al treno speciale ma un solo fermato. A fine partita sono i tifosi viola ad attaccare i carabinieri, poi gli incidenti coinvolgono gli juventini, attaccati dalle forze dell’ordine che devono comunque creare un corridoio di sicurezza per l’evacuazione degli ospiti, per cui viene predisposto in tutta fretta un nuovo treno speciale. Il vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni, dopo un vertice sulla nuova ondata di violenza calcistica, propone un decalogo ispirato al “modello inglese”: meno repressione, spettacoli prima della partita, vigilanza dei poliziotti di quartiere sugli ultrà, misure severe con i club conniventi con le frange violente dei tifosi. Non se ne farà niente. Dal processo Spagnolo emerge come il carisma di Giacomelli e degli altri leader delle Brigate rossonere 2 si fondasse anche sul controllo di ingenti quantitativi di biglietti omaggio, presumibilmente girati dalla società ai capi ultrà. Un meccanismo che è spesso alle origini delle frizioni tra capitifosi e presidenti, con evidenti danni per l’ordine pubblico e per le squadre. Il presidente romanista Sensi è contestato anche perché ha chiuso con la politica di agevolazioni ai gruppi di destra sostenuti dal predecessore Giuseppe Ciarrapico (l’editore andreottiano che aveva affidato l’ufficio stampa della sua finanziaria Italfin ’80 a Guido Giannettini e al fondatore di Meridiano Zero, Rainaldo Graziani). Al presidente del Cagliari Cellino i tifosi non perdonano di non aver finanziato la trasferta a Napoli per lo spareggio salvezza perduto con il Piacenza nel giugno 1997. A quello del Venezia gli Ultras unione, di sinistra, non perdonano di aver rinnegato la fusione con il Mestre: e così adottano come colori sociali il verde—arancio e non il tradizionale nero—verde. Anche Moratti, forte comunque dei risultati e dei fuoriclasse acquistati, da Ronaldo a Baggio, si può permettere di eliminare i pass e biglietti omaggio concessi da Pellegrini: un ultrà, Mauro Russo, gestisce parcheggi nei pressi di san Siro. La Juve paga le coreografie a affida ai capi ultrà (tutti di destra) la gestione di una parte della campagna abbonamenti in cambio di un’autocensura su simboli e nomi troppo forti. Il Milan fa differenze politiche: agevolazioni per i Commandos tigre (di destra) e non alla Fossa dei leoni (storicamente di sinistra e più forte numericamente). A Genova prevale una linea tradizionale di coinvolgimento dei leader delle tifoserie. La Samp ha affidato a due capi storici il magazzino e il negozio ufficiale della squadra, mentre la pulizia dello stadio è affidata a una cooperativa “unitaria” di ultrà, genoani e doriani. I più attivi sul fronte del business sono gli Irriducibili della Lazio, i primi a lanciare la moda delle sciarpe all’inglese (i romanisti gli sfottono come “Irriducibili spa”). Un certo Freak, espulso dalla banda biancazzurra si è riciclato come capotifoso dell’Español.
*Ugo Maria Tassinari è anche autore del libro+dvd GUERRIERI. 1975/1982 storie di una generazione in nero (ed. Immaginapoli, 2005).
Sullo stesso tema alcuni interventi dei Wu Ming:
Il pazzo corrotto violento mondo del calcio italiano (Giap n. 7, VIIIa serie, 5 febbraio 2007)
The Crazy Corrupted World of Italian Soccer (all’interno: “NEO-FASCIST ACTIVITIES IN ITALIAN SOCCER”)
Nandropausa n. 10 (letture comparate di Saviano, Beha, Genna).