di Valerio Evangelisti
Gordiano Lupi, Almeno il pane, Fidel. Cuba quotidiana nel periodo speciale, Stampa Alternativa, 2006, pp. 194, € 10,00
Dico subito che il libro che vado a recensire è comunque utile e ben scritto, al di là di alcune osservazioni che mi permetterò. Si tratta di un reportage su Cuba nelle forme di una guida per eventuali visitatori dell’isola. In effetti, vi vengono presi in considerazione molti aspetti della vita dei cubani, dalla religione all’alimentazione, dalla cultura all’ “arte di arrangiarsi” del popolo minuto, con dovizia di informazioni. Gordiano Lupi ha percorso più volte Cuba in lungo e in largo, tanto da avere sposato una donna cubana (che a quanto pare, dopo l’uscita di questo libro, si è vista negare il visto per il ritorno).
Gordiano Lupi si definisce “uomo di sinistra”, e non vedo perché non credergli. Parla del suo libro come di una sorta di appello alla sinistra perché apra gli occhi sulla dittatura di Fidel Castro, oggi passata nelle mani del fratello di questi, Raúl. Si richiama a una fase incontaminata della rivoluzione, successivamente tradita e stravolta. Soprattutto, nega che la libertà possa giungere ai cubani nelle forme di un intervento statunitense: solo una ribellione interna potrebbe abbattere o modificare efficacemente il regime. Non sono, obiettivamente, le posizioni di un gusano (il nomignolo dispregiativo — “vermi” – dato agli esuli cubani a Miami).
Io non sono mai stato a Cuba, se non quale scalo aereo. Non dubito, però, della natura autoritaria del suo governo, modellato sul cosiddetto “socialismo reale”, anche per via di un episodio marginale. A metà degli anni Ottanta ero abbonato a due quotidiani cubani, Granma (non l’edizione settimanale, che è un po’ una vetrina rivolta al pubblico straniero) e Juventud Rebelde. Li leggevo non per un interesse specifico verso Cuba, quanto per i notiziari relativi ad altri paesi dell’America Centrale che mi importavano di più.
Ebbene, in quel periodo fu arrestato all’Avana un dissidente, fondatore di un piccolo comitato per i diritti civili, in contatto con l’ambasciata degli Stati Uniti. Granma (il quotidiano, ripeto) uscì con due pagine incredibili piene di foto. In esse, l’ex maestra elementare dell’accusato spiegava quale pessimo bambino fosse stato a scuola; l’ex compagno di banco confermava che faceva la spia; un vicino di casa raccontava molestie private; ecc. Un linciaggio in pieno stile stalinista, in un’epoca, si badi, in cui l’Urss aveva abbandonato simili sistemi. La cosa mi disgustò molto più del “processo Ochoa”, con il quale si dice, e dice Lupi, che Fidel Castro volle liberarsi dei generali della “vecchia guardia” che avevano combattuto in Angola (ma le accuse di corruzione nei loro confronti non erano affatto infondate; semmai fu sproporzionata la pena della fucilazione con la quale furono punite).
Ho fatto questa premessa per dire che guardo a Cuba con “spirito laico”, non essendo mai stato un ammiratore del modello, e con lo stesso spirito accolgo gran parte dell’invettiva di Lupi contro le politiche di quel governo e le sua conseguenze: microcorruzione diffusa, povertà di parte della popolazione (specie nelle campagne), censura, privilegi odiosi riservati agli alti papaveri, ecc. Sono dati che colgono parecchi viaggiatori che si recano sul posto senza seguire gli itinerari tradizionali dei turisti (tra tutti, il compianto Enzo Baldoni).
Tuttavia, in ciò che Lupi scrive scorgo anche alcuni limiti piuttosto gravi (e uno che terrò per ultimo, più di altri, gravissimo). Giustamente, il sottotitolo del libro fa riferimento al “periodo speciale”, poi però non spiega molto le ragioni dell’emergenza. Il fatto è che ciò che accadde nel 1989, con il crollo dei Paesi dell’Est europeo, ebbe su Cuba conseguenze catastrofiche. L’intero sistema di relazioni di scambio in cui era inserita venne meno nell’arco di pochi mesi. Le risorse energetiche a cui aveva accesso a prezzi politici diventarono di colpo carissime. I mercati in cui esportava si chiusero. Sparirono le fonti dei pezzi di ricambio, i rapporti di assistenza tecnica, i canali di commercializzazione della canna da zucchero e delle altre produzioni locali. Un disastro, molto peggiore delle ricadute dell’embargo pluridecennale decretato dagli Stati Uniti.
A quel punto il governo cubano, oltre a stringere all’inverosimile la cinghia (in ciò senza dubbio aiutato dalla propria struttura autoritaria), puntò tutto sull’unica risorsa che gli rimaneva: il turismo. Non può meravigliare, dunque, che vengano create le aree privilegiate per turisti che Lupi depreca; che sorgano, come nell’ex Urss e in tanti Paesi dell’Est, come nel Nicaragua sandinista, grandi magazzini zeppi di merci riservate agli stranieri, certo odiosi agli occhi della popolazione locale (si pensi a cosa capita ai Magazzini Gum ne Il maestro e margherita di Bulgakov) ma indispensabili per ottenere la valuta pregiata di cui c’è vitale necessità; che in qualche modo si incoraggino i cubani a rimpolpare i loro salari sempre più insufficienti con piccoli servizi all’industria turistica (tipo la maestra elementare che guida un taxi); che si giunga persino a tollerare, per un certo tempo, il dilagare della prostituzione.
Ciò non giustifica corruzione diffusa e autoritarismo, però se non si parte dal dato centrale, e cioè il pericolo di morte di un’intera economia, tutta la restante descrizione rischia di limitarsi all’epifenomeno. In questo senso, Lupi vanta, in parte a buon diritto, di avere frequentato i settori più umili della società cubana e di avere evitato (qui polemizza con Gianni Minà, con Oliver Stone, con Maradona e altri) i palazzi del potere e dell’ufficialità. D’accordo, però forse in ambienti meno marginali avrebbe potuto cogliere la sorta di patto — sicuramente unilaterale — stretto tra i governanti di Cuba e i loro cittadini: noi vi chiediamo un periodo di sacrifici inauditi, ma in cambio vi promettiamo che salvaguarderemo una serie di servizi essenziali, nel campo della salute, dell’educazione, dei beni essenziali, ecc. Di tanto in tanto Lupi deve ammettere che il patto (da lui non percepito come tale) ha funzionato, e si trova a lodare con riserva certi successi educativi, sanitari o d’altro genere, solo che non ne riconosce la natura strategica. Un rischio che l’adozione di una visione solo dal basso, a partire dal punto di vista esclusivo degli strati più svantaggiati, può facilmente comportare.
In poche parole, noto una cesura tra le osservazioni sul campo, spesso acute, brillanti, interessanti, e la valutazione storico-politica, quasi sempre affidata ai soli epiteti contro il regime. Il fatto è che manca una comparazione tra Cuba e il più ampio contesto latino-americano. Ciò si ripercuote sia nella descrizione della quotidianità (alcuni comportamenti, per esempio familiari e alimentari, che vengono nel libro attribuiti ai soli cubani sono invece presenti in tutta l’America Centrale, o addirittura su scala continentale), sia nella valutazione complessiva su luci e ombre del modello castrista.
Una proliferazione di furtarelli, raggiri ed espedienti è sicuramente riprovevole, però non ha nulla a che vedere con il tasso di violenza regnante, mettiamo, nel quartiere di Tepito di Città del Messico, nelle favelas di Rio de Janeiro, persino nella Caracas di Hugo Chávez. I furti di benzina e di pezzi industriali (cui di recente si è tentato di mettere riparo) saranno odiosi, ma come provare ad accostarli al terrore che le bande giovanili dette maras fanno regnare nelle capitali di Salvador e Guatemala, alle decapitazioni messe in atto dai narcotrafficanti messicani, alle centinaia di giovani donne assassinate tra Tijuana e Chihuahua? A Cuba ciò sarebbe inconcepibile. Ho idea che questo dipenda dal dato inconfutabile che, sull’isola, qualcosa per mettere freno alla disuguaglianza e alla miseria estrema si è pur fatto, sia pure tra contraddizioni e ostacoli non solo interni (1).
Ecco perché molti latinoamericani, non necessariamente di sinistra, non sono disposti a pronunciare su Cuba un semplice giudizio di condanna.
Lo stesso vale per le violazioni dei diritti umani, che a Cuba ci sono state e ci sono tuttora: condizioni di detenzioni durissime, pene sproporzionate, qualche condanna a morte di difficile giustificazione, ecc., oltre alla dura repressione contro gli intellettuali dissenzienti che imperversò nella prima metà degli anni Settanta (oggi molto attenuata). Ma per chi ha avuto a che fare con gli orrori di Videla o di Pinochet, con le squadre paramilitari del Salvador e del Guatemala degli anni Ottanta, con quelle della Colombia fino a tempi recenti, con dittature spietate, con scuole di tortura, con “guerre sporche”, massacri indescrivibili, squadroni della morte ecc., il tutto sotto la diretta supervisione degli Stati Uniti e tra il silenzio-assenso di buona parte dell’Occidente, la molto meno efferata repressione cubana può apparire, in parte a torto e in parte a ragione, di gravità inferiore e, senz’altro a torto, funzionale alla lotta pluridecennale contro la potenza che, in nome della democrazia liberale, ha sostenuto tiranni impresentabili e coperto di sangue praticamente ogni angolo dell’America Latina.
Questo punto di vista spiega perché, tra molti latinoamericani, la visione di Cuba sia molto diversa da quella prevalente in Europa (e, se Lupi ha ragione, tra una parte dei cubani stessi). Chi ha patito sulla propria pelle le ingerenze statunitensi vedrà in Cuba comunque un bastione, un esempio di resistenza ostinata e, bene o male, invitta. Mi è capitato di udire degli omosessuali brasiliani difendere Fidel Castro proprio mentre i gay cubani subivano vessazioni d’ogni sorta (oggi in parte venute meno, se non altro ufficialmente). Ciò peraltro senza ignorare il “lato oscuro” di un’esperienza unica e contraddittoria, equilibrato dal “lato luminoso” di ciò che appare, a chi ha subito umiliazioni intollerabili per il fatto di occupare geograficamente il “cortile di casa” (l’espressione è di Ronald Reagan), la resistenza a un vicino troppo potente: una battaglia per la dignità.
L’atteggiamento generale di tanti latinoamericani schierati con Cuba dipende anche dal fatto che, dopo la sconfitta di Ernesto Che Guevara, Castro si è ben guardato dal proporre ad amici e alleati un modello da seguire pedissequamente. Non somiglia affatto a un ordinamento di tipo cubano il “socialismo del XXI secolo” preconizzato da Hugo Chávez, da Evo Morales, da Rafael Correa. Non gli somigliava il Nicaragua a guida sandinista. Meno che mai vi erano analogie con il Cile di Salvador Allende.
E qui veniamo al capitolo meno accettabile del reportage di Gordiano Lupi: quello in cui, facendo proprie acriticamente le “rivelazioni” del libro di Alain Ammar, Juan Vivés e Jacobo Machover Cuba nostra (Plon, 2005), sostiene che Salvador Allende non si sarebbe suicidato, come comunemente si crede anche in base a molte testimonianze, ma sarebbe stato assassinato da un agente segreto di Castro: Allende sarebbe infatti stato pronto alla resa, mentre al líder maxismo faceva comodo che morisse da eroe, per farne un mito.
Già stroncato da Le Monde des Livres, il pamphlet di Ammar e soci si basa sulle chiacchiere presuntivamente fatte al bar di un albergo dall’ “assassino” di Allende, e rivelate da due ex agenti segreti cubani poi espatriati. Personaggi tanto credibili quanto l’accozzaglia di mitomani radunata dal senatore Guzzanti per far passare Prodi, nell’ambito della commissione Mithrokin, da agente del KGB. Sputtanati dalla stessa emigrazione anticastrista a Miami (si legga per esempio qui).
Mi auguro vivamente che Gordiano Lupi, in una futura riedizione del suo libro, tolga un capitolo così imbarazzante. La sua logica di “uomo di sinistra” non può essere la stessa del Granma degli anni Ottanta, che, per colpire una figura odiata, gli attribuiva ogni colpa possibile o impossibile. Vale per l’oscuro dissidente che frequentava l’ambasciata Usa, ma vale anche per Fidel Castro.
Quanto al futuro di Cuba, una riforma è inevitabile, come Lupi dimostra nelle sue pagine migliori. Penso però che, a livello di esempio di democrazia applicata, sarebbe meglio se la parte “libera” dell’isola non si chiamasse Guantanamo
(1) Lupi ironizza molto sulla promessa di Fidel Castro, a suo giudizio non mantenuta, di fornire una pentola a pressione a ogni famiglia cubana; ebbene, nei mesi scorsi le pentole sono state distribuite, con un ritardo dovuto alle mille incrostazioni burocratiche, però con la capillarità consentita dai Comitati di Difesa della Rivoluzione, che non sono semplici articolazioni del sistema repressivo.