di Vittore Baroni
[Sul numero della rivista Rumore in edicola in questi giorni (#181, febbraio 2007), Vittore Baroni cura uno speciale intitolato: “Che fine ha fatto la controcultura?”, basato su due conversazioni (e scambi di appunti) con Matteo Guarnaccia (celebre pittore, grafico e storico dei movimenti underground) e Wu Ming 1. Il lungo e fitto articolo ferma su carta una conversazione avvenuta nel luglio scorso, a margine del funerale di Piermario Ciani. Nell’invitare all’acquisto del numero, riproduciamo qui un frammento dell’introduzione di Baroni + la seconda parte dello speciale, quella che ospita le opinioni di WM1. Funziona molto bene come appendice al “Trittico” scritto da WM1 e WM2 e uscito su L’Unità (nonché su Carmilla e Giap) nelle scorse settimane.]
Per una sventurata fatalità di eventi, in Italia il 2006 ha visto la scomparsa di alcuni stimati personaggi legati al mondo delle sottoculture giovanili: l’artista ed editore Piermario Ciani e il saggista Valerio Marchi, il fumettista/designer Professor Bad Trip e il musicista dj Pappa Rodriguez. Nei numerosi ricordi e tributi che si sono succeduti sulla stampa cartacea e sul web, sono stati frequentemente spesi nei loro riguardi termini come “controcultura”, “underground”, “cultura alternativa”, che in epoca internettiana di comunicazione globale e orizzontale suonano però, a ben vedere, sempre più sorpassati e svuotati di senso […] La controcultura si sta forse estinguendo, non solo nella figura di suoi validi rappresentanti ma anche nei presupposti teorici e nelle sue più tipiche espressioni comunitarie? […]
[…] Mentre sono già in rete alcuni prolegomeni al nuovo complesso romanzo storico dei cinque in uscita a breve, Manituana, anche al bolognese [in realtà ferrarese, N.d.R.] Wu Ming 1, che di subculture anti-establishment legate al Black Power e al free jazz dei Sessanta si è occupato a fondo nel romanzo New Thing (Einaudi, 2004), chiediamo un parere sugli anacronismi dell’opposizione tra cultura dominante e controcultura.
“Serve una riflessione su cosa sia oggi, nell’epoca della rete, l’intera popular culture. L’autoproduzione e il DIY sono diventati la cifra di gran parte della cultura odierna. Quel che un tempo era nicchia, underground o avanguardia, oggi, grazie a una democratizzazione dell’accesso a determinate tecnologie, è patrimonio di una vasta moltitudine. Milioni di persone sono in grado di manipolare e miscelare video, musica, parola scritta, e condividere all’istante il risultato con persone di tutto il mondo. Se una pratica che prima era esclusiva di cerchie ristrette diventa una pratica diffusa, tale pratica diventa un’altra cosa, e produce altre soggettività. E’ chiaro che questo sfuma o addirittura cancella la distinzione tra cultura e controcultura, mainstream e underground, popolare e avanguardia, entertainment e sperimentazione.
La rete rivoluziona i modelli produttivi, il mercato si ‘demassifica’ e si fa più orizzontale, è il cosiddetto effetto ‘coda lunga’ prodotto dall’accesso a un catalogo potenzialmente infinito. Si abbattono limiti e costi di magazzino e in rete possiamo reperire con rapidità più o meno qualunque cosa, l’una accanto all’altra. La cultura di massa lascia il posto a quelle che Chris Anderson chiama ‘masse parallele’, proliferano nicchie disposte lungo una direttrice potenzialmente infinita. Dove va a finire la vecchia raffigurazione “verticale”, a strati, implicata dall’espressione ‘cultura sotterranea’?
E’ difficile identificare una cultura ‘contro’ o ‘alternativa’, se il catalogo infinito della rete rende potenzialmente raggiungibile e avvicinabile ogni forma di produzione artistica e culturale, anche la più estrema. Se il suo lavoro vale qualcosa, nella ‘coda lunga’ chiunque ha la potenzialità e la possibilità di fare la sua piccola ‘porca figura’. In passato non era così, a causa delle strozzature della distribuzione.
Va poi detto che il mainstream si è ridimensionato: i dischi di successo vendono venti volte meno di vent’anni fa, i film in sala sono visti da un minor numero di spettatori etc. E’ possibile che il mainstream sia destinato a divenire, semplicemente, una nicchia più grande delle altre. E se non c’è più il mainstream, non c’è più nemmeno la cultura che gli si opponeva frontalmente.”
Un altro baluardo del pensiero antagonista che tende oggi a vacillare è l’annosa contrapposizione tra “commerciale” e “alternativo”, ovvero l’assunto secondo cui le produzioni sotterranee dovrebbero essere del tutto svincolate dalle leggi della domanda e dell’offerta.
“Sono automaticamente sospettoso – prosegue Wu Ming 1 – nei confronti di qualunque lettura incentrata sulla ‘mercificazione’ e il ‘recupero’ vissuti come spauracchi anziché come sfide. Trovo certe posizioni snob, moralistiche, depotenzianti, sconfittiste. Ma soprattutto snob: è come quando un’opera, una scena o un movimento diventano popolari e i loro vecchi estimatori cambiano idea a 180°, diventandone detrattori. Questa incoerenza viene mascherata dietro argomenti moralistici: non sono io ad aver cambiato idea, è Tizio che ‘si è venduto’. In realtà, è probabile che prima non si apprezzasse Tizio per il valore di ciò che creava, ma perché apprezzarlo dava una comoda identità ‘pochi-ma-buoni’ (anzi: “pochi e quindi buoni”), l’illusione di essere una sorta di élite, separata dalle volgari masse. Ideologia reazionaria, e purtroppo la vecchia controcultura ne era fortemente intrisa.
C’è un intero universo oltre la dicotomia tra ‘apocalittici’ e ‘integrati’. Come molti, negli anni ho attraversato la Scuola di Francoforte, Adorno, i situazionisti, Debord, Cesarano e la critica radicale italiana, e in definitiva non ne sono rimasto entusiasta, anzi. Dopo attento rimuginare, ho concluso che quell’impostazione non faceva per me: vedere sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto (nonché in via di completo svuotamento) non mi dà alcun brivido di scoperta, non mi apre alcuno spiraglio, non mi fa capire cosa accade intorno. A dispetto di ricorrenti e superficiali richiami a Marx, è anche un atteggiamento molto poco marxiano. Marx non faceva tirate moralistiche contro la merce, ma una critica concreta e fondata dei rapporti di produzione e di proprietà e, soprattutto, esortava a stare dentro le contraddizioni del capitale e della merce.
Tornando alla ‘dialettica negativa’ e alla tiritera dello spettacolo che recupera tutto, della merce che distrugge l’arte, del fatto che qualunque cosa sia parte dell’ingranaggio consumistico etc., ritengo ben più feconda l’impostazione di Walter Benjamin quando, nel celeberrimo saggio su opera d’arte e riproducibilità tecnica, scriveva che sarebbe stato errato sottovalutare il valore per la lotta di classe delle tendenze che andava descrivendo: perdita dell’aura, serialità, diffusione di massa dell’arte etc., perché spazzavano via l’idea di un’arte riservata alle élites. Benjamin cita anche un lungo passaggio di Aldous Huxley, in cui si dice in soldoni che in ogni data società la quota di talento è limitata e che se aumenta la produzione e la circolazione di ‘materiale letterario, illustrativo e sonoro’ si finirà per produrre soltanto scarti ‘in senso assoluto come in senso relativo’. E’ la stessa posizione che molti tengono oggi di fronte all’estendersi della rete. Il commento di Benjamin è lapidario: ‘E’ evidente come questo modo di vedere non sia progressista’. Sono d’accordo. Oggi, poi, è anche più reazionario di sessanta-settant’anni fa.
Niente ‘magnifiche sorti della cultura pop’, per carità. Siamo tutti vaccinati, e da tempo. Il pericolo è quello opposto, la solita tentazione del ‘fa schifo tutto’. E’ quella a condannare all’ineffettualità, alla poetica del risentimento e del mugugno perché ‘nessuno capisce un cazzo’. Il lavaggio del cervello presuntamente subito dal resto dell’umanità è la scusa dei mediocri per non impegnarsi a capire il mondo. Tra l’altro, nella frase ‘è tutto uno schifo’, l’accento non è su ‘schifo’, bensì su ‘tutto’. Chi non vuole (o non è in grado di) rapportarsi con dinamiche culturali che scavalcano le mediazioni e i giudizi di gusto e valore ratificati dall’autorità ha tutto l’interesse a descrivere il mondo come un’indistinta totalità marcescente.”
Necessita dunque superare aridi dualismi e inutili vittimismi, per entrare nel merito di una realtà oggi complessa e diversificata, dove la frizione tra mercato e creatività, tra ideologia e prassi, può assumere aspetti imprevisti e anche all’apparenza contraddittori, ma in grado in realtà di alzare il tiro e la posta in gioco. Nel web, un progetto di ‘networking’ creativo si rivolge all’intero pianeta e non solo a una fascia specifica e già ‘convertita’ di pubblico. Sta agli ideatori e ai fruitori di tali progetti far sì che l’impianto possa variare da un’interattività di tipo perlopiù ludico-edonistico (come nel caso di MySpace, Pandora, YouTube, Second Life) o didattico (come nella “libera enciclopedia” Wikipedia) ad esperimenti che incidano criticamente sui contesti estetici, politici e antropologici delle società attuali (un esempio tra i tanti, il progetto Open Polis lanciato dallo psicologo e “hacktivista” Arturo Di Corinto, per un monitoraggio e confronto in tempo reale di dati personali, informazioni patrimoniali, conti con la giustizia ecc. dei circa 140.000 rappresentanti politici eletti in Italia). Serviranno ovviamente concetti forti e condivisi, in grado di mobilitare il contributo volontario di grandi numeri di persone, e a tal fine potrà rivelarsi utile tener conto del ricco patrimonio di idee delle vecchie “controculture”. La storicizzazione di fenomeni anche recenti, come la nostra scena punk oggetto di svariate pubblicazioni, è da vedersi quindi non come rigurgito nostalgico o tentativo di archiviazione terminale, ma come contributo alla preservazione della memoria. Lascio la chiosa finale a Wu Ming 1:
“Non c’è nulla di male nella storicizzazione: le storie vanno tramandate, i differenti modi di tramandarle sono a loro volta soggetti a interpretazione, tutto ciò è sempre accaduto e nessuna archiviazione è definitiva. La rivolta degli schiavi di Spartaco, avvenuta un’ottantina d’anni avanti Cristo e per giunta finita male, ha ispirato lotte e movimenti di duemila anni dopo.”