Se fosse uscito un mese fa, sotto Natale, Il signor figlio di Alessandro Zaccuri (Mondadori SIS, € 17.00) sarebbe risultato, a mio parere, il romanzo più bello del 2006. Non sostengo il più importante, ma certamente il più bello. E’ uno di quei casi in cui la letteratura travolge se stessa, esce da se stessa e obbliga il lettore a un’attività immaginifica prodigiosa, realmente spettacolare. Mentre quasi tutti i libri, oggi, sono passibili di diventare film, a causa della loro linearità, della leggibilità scialba che pure, magari, sorregge temi e sovrastrutture importanti, Il signor figlio esibisce una struttura, degli snodi, un sapere e una fantasmagoria – insomma un’umanità totale che è irriducibile al racconto cinematografico per quello che è diventato. Ho scritto che si tratta di un romanzo e ho volutamente sbagliato: questo è un coacervo studiatissimo di scatole cinesi in cui la centrale, la più piccola, contiene tutte le altre, compresa l’esterna. E, elemento non trascurabile, quella di Zaccuri è la lingua più bella della letteratura degli ultimi anni. Ed esiste un motivo preciso per cui lo è.
Il motivo preciso ha in qualche modo a che vedere con la trama, di cui qui intendo dare vaghi lineamenti, perché non sia tolto il piacere di subire i vertiginosi sbalzi, i vorticosi salti di tempo e i molteplici colpi di teatro che l’autore allestisce in questo suo pluriromanzo.
Insomma, le cose stanno così: non è vero che Leopardi è morto a Napoli. E’ una finta. Il geniale poeta, prosatore e filosofo è stato in punto di morte e si può dire che abbia subìto una morte autentica: iniziatica. Ne esce rinato, trasformato – come da ogni morte iniziatica. Si imbarca su un bastimento, diretto a Londra. Si finge marinaio e male gliene incoglie: un incidente con un cordame gli fora letteralmente le mani, procurandogli stimmate che occulterà nel suo soggiorno londinese. Nel quale, entrato in contatto con certa nobiltà artistica riconoscibile ed entusiasmente, si presenta con l’identità di Conte Rossi detto “Jack”, affitta una stamberga e si dà all’Opera. Essa Opera non è un’opera letteraria eppure lo è: è il primo computer semantico della storia, un sistema di fili che reggono schede trattanti ogni argomento, l’universale messo in linguaggio che escresce dal linguaggio. E, al tempo stesso, mentre l’Opera va facendosi complessissima, barocca, immensa ma coerentemente disegnata, il Conte Rossi, mutando nuovamente identità e utilizzando un nickname che sfiora il geniale, inizia a intrattenere una corrispondenza eruditissima, in pura lingua leopardiana, con il suo padre naturale, che, in quanto naturale, è il culmine dell’innaturale: quel Monaldo Leopardi che ha costruito un carcere conscio, anziché inconscio, intorno all’autore dello Zibaldone – il Laio che Edipo non è mai riuscito ad ammazzare. Al Conte Rossi, che propala una lezione di vita tutt’altro che nichilista (chi sostiene il nichilismo di Leopardi, e sono una schiera che è legione, non ha compreso nulla di Leopardi), è presentato un giovane allievo, con cui si instaura un rapporto di discepolato da ashram occidentale, da loggia massonica a due: e si tratta di Kipling padre, John, a sua volta coinvolto, in questa iperuranica macchina del tempo costituita dal romanzo di Zaccuri (che ricorda tanto l’Opera del Conte Rossi), con un rapporto superedipico con il figlio Ruyard. Si arriva alla Grande Guerra, attraverso questi legami che sono misteriosofici e ucronici, ma sorretti da una competenza storica sbalorditiva: imbevutosi di nozioni, Zaccuri [nella foto] ha studiato a fondo le sudate carte, sudando anch’egli, e non soltanto su quelle del grande recanatese. C’è infatti un terzo personaggio, che completa la catena, in presenza e in assenza: è Olivier Messiaen, in campo di concentramento (e quindi si arriva alla Seconda Guerra Mondiale), la cui madre Cécile muore per leucemia e sogna: gli esiti del suo sogno sono la scatola cinese più interna, la minuscola, che contiene tutto il resto.
Tutto il resto, dunque, cos’è? E’ l’universale umano. In questo libro si dice tutto e si tace tutto. A una testa colpita dalla carie della curiosità, dell’empietà, della tentazione, della malizia e dell’imitazione si oppone un cuore colmo di una fede nell’invisibile, che trabocca pietà ed empatia, che sa narrare più del calcolo cefalico. Qui Mefistofele è alle prese non con Dio, ma con un uomo, e quest’uomo non conosce di Dio null’altro che la presenza, certa, continua, invariabile, allucinante come continuo invariabile e allucinante è il Quatuor pour la fin du temps di Messiaen.
“Jack” Leopardi, nella sua eschilea lotta con Monaldo, di cui si tace l’esito scontato, è soltanto uno dei centri, dunque, di questo poligono di tiro letterario, che strozza per suspence e traveste la tragedia con una patina steam, inventandosi un Ottocento filologico che sorpassa di gran lunga la verisimiglianza, come il Medioevo di Notre-Dame straccia la mimesi ed è puro naturalismo ipersperimentale. Un simile lavoro richiede una capacità di compressione disumana: di tematiche, ritmi, eventi – ma soprattutto di coincidenze, sincronie, inedite scoperte, simiglianze se non identità. E’ un miracolo. Il culto della Grande Madre, declinato dalla Cibele cartacea di Leopardi ai deliqui della moribonda Cécile, si oppone al conflitto con il Padre, di cui tutto si può dire (è somma autorità, censura insuperabile, divieto cieco e ingiustizia primaria), tranne che la sua statura raggiunge l’elezione, l’erezione di un culto. Il signor figlio, attraverso personaggi emblematici sì, ma connotati attraverso una minuziosa psicologia, profondissima e sagace e financo umoristica, mette in scena la visione di quanto colui che è generato è stato costretto a vedere: l’abissalità del maschio, l’elevazione della donna. Tra le moltissime coppie di opposti che giocano a rimpiattino tra le pagine di questo libro modellato su una coscienza critica decisiva (di cui si dirà tra poco), vale la pena di citare due scene: la catabasi infernale nelle fogne e nelle deviazioni della metropolitana londinese, tra ratti e misteri alla Sue, a cui “Jack” costringe il giovane discepolo, immergendolo nel letame nerissimo di una caccia che ha tutti i risvolti di una nigredo segnalata con cura; e il sogno bianchissimo della valanga montana che Cécile vive fuori del tempo, in uno spazio alternativo che alternativo non è – poichè si tratta dello spazio mentale dell’autore.
La risoluzione al problema del Padre sarebbe stata la Madre, se ella fosse sopravvissuta.
Non è possibile più schematizzare oltre. Nonostante la perizia linguistica, di marca appunto leopardiana, congelata e rinnovata, nella comprensione che la lingua non è la lingua di superficie, la morte della Madre induce l’autore ad adottare una ritmica ben diversa da quella su cui faceva perno Leopardi quando classicheggiava: una metrica non classica, una metrica non retrogradabile, l’affrancamento definitivo dagli ictus che sono le scene, in perfetta mimesi con la rivoluzione tonale di Messiaen.
E quando Leopardi non classicheggia? Fa la stessa cosa. Questa intuizione è decisiva, nello sterminato comparto del romanzo di Zaccuri. Il signor figlio è un comparto estensibile ad infinitum. E’ una mela disidratata che, immersa in acqua, spacca il bicchiere, la stanza che lo contiene, la casa che contiene la stanza, allargandosi mostruosamente. Siamo al mostruoso compresso – e compresso attraverso retoriche che Wu Ming 1 e 2 hanno evidenziato con precisione in quello che potremmo definire il loro trattato sul pop o sulla narrazione che sta arrivando. La scelta di Zaccuri cade quindi sulla metrica, apparentemente aritmica e diseguale e sbagliata, e sull’altrettanto apparente inorganicità dello Zibaldone. L’affermazione, inverata attraverso narrazione e non con un teorema critico, è che la fondazione della prosa italiana non risiede nei Promessi Sposi, ma nello Zibaldone. Potremmo definire Il signor figlio uno Zibaldone occultato. E qui ci si addentrerebbe in un elemento scabroso: lo Zibaldone è autobiografico, quindi questo è un romanzo autobiografico. Però Zaccuri concede alla testa, e non al cuore, l’ultima illusione di vittoria: l’autobiografia è negata attraverso l’universalizzazione. Siamo tutti dei “signor figli”. Il Padre e la Madre sono archetipi. Eppure il cuore, la fede nell’essere – da cui piovono immagini di caldo gelo e di renovatio mundi – sconvolgono nuovamente i piani. Zaccuri allestisce un mandala e, come fanno i più alti gradi buddhisti tibetani, quando lo completa e vede che è perfetto, lo cancella. E, cancellandolo, cancella se stesso: o, meglio, un pezzo di sé che concerne il passato e una porzione di presente.
Si diceva sopra della lingua. Raramente si incontra uno scrittore italiano che abbia una simile vocazione alla lingua perfetta perché errata. Un esempio:
“Mi avete riconosciuto” dice Jack.
nella stanza domina la stessa sensazione che si prova quando un saltimbanco interrompe in modo drammatico il proprio gesto, mostrando un muscolo esasperato dalla fatica di sollevare un peso ciclopico, oppure rimanendo sospeso sul filo, in un equilibrio che parrebbe impossibile conseguire e che, invece, a dispetto di ogni verosimiglianza, si protrae per un tempo indefinito, astratto.
Ho scelto un passo che non è assolutamente rappresentativo del pluringuismo con cui il romanzo è costruito. Zaccuri esibisce, sulle tracce di Leopardi, un gusto lemmatico esotico che sorprende. Poche righe più sotto il passo citato, si pensa a “studiare l’indostano, il brammanico, il grandonio e il malabarico”. Però si consideri l’estratto, si segua il dolce percorso omofonico che segue la battuta cinematografica: uno strisciare di “s” (nella stanza domina la stessa sensazione che si), ripreso saltuariamente (saltimbanco, gesto, muscolo, esasperato, sollevare, peso, sospeso, impossibile, dispetto, verosomiglianza, si, astratto) attraversando rotture durissime e queste rotture sono lo sbaglio, l’erroneo che il petrarchesco non tollera (e nemmeno Leopardi, a dispetto dei Canti, lo tollerava), sono la deflagrazione cacofonica (drammatico, mostrando, ciclopico, parrebbe, protrae, astratto). Il periodo termina proprio con la sintesi di queste due linee, con la parola “astratto”, che mantiene la linea materna delle “s” in confflitto con la rutilante opera maschile della cacofonia. In mezzo al passo, un perfetto endecasillabo “sbagliato” (“si protrae per un tempo indefinito”). E’ un sentimento totale della lingua, che governa tutto il libro, perfino nelle più ardite escalation che sono costituite dalle epistole leopardiane a Monaldo.
Il signor figlio potrebbe apparire un gioco letterario soltanto a un idiota. Qui siamo avantissimo, nell’elaborazione delle strutture, nell’impiego di una retorica che non è più quella novecentesca e non è nemmeno quella ottocentesca; siamo cioè indietrissimo, in piena Poetica aristotelica, nella messa in scena di stilemi che vanno dall’epico al fantascientifico al mitologico (che sono, poi, la stessa cosa) secondo la sintesi tragica. E, soprattutto, siamo nel cuore bianco e non definitivo di una ricerca metafisica che non ha in sé un mero vuoto da esibire – tutt’altro, siamo nel muscolo cardiaco del più pieno dei pieni, nella domanda incantata e incantevole, priva di risposta linguistica, su come dall’Uno procedano i molti, su come sia possibile e accada che si generi. Su come sia possibile che si generi il figlio, che a sua volta diviene il signore di un nuovo regno. La novità del regno è da attendersi, probabilmente, nel prossimo romanzo di Zaccuri. Qui la questione è il dominio a confronto con l’amore. La terra ha un senso che le è donato: è il compito di ogni autentico scrittore e a questo compito Alessandro Zaccuri ha assolto con una pienezza esaltante.