di Girolamo De Michele
[Intervento letto al convegno La questione della natura umana, Firenze, 13 gennaio 2006]
Può sembrare curioso un titolo come Dignità dell’umano e divenire animale, nel quale si incontrano un concetto tratto da Pico della Mirandola ed uno deleuziano: l’antropocentrismo umanistico e l’anti-umanesimo del post-strutturalismo. Eppure un terreno d’incontro fra Pico e Deleuze esiste: è la comprensione della natura umana come potenzialità, come incompiutezza. Un secolo di ricerche antropo-filosofiche ed etno-antropologiche ha rafforzato l’idea che l’essere umano sia, per usare un’espressione di Günther Anders «l’essere che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler definire».
1. L’essere umano è un essere non specializzato, congenitamente incompiuto, che nelle sue manifestazioni esistenziali non riesce a liberarsi dei suoi lacunosi primitivismi: l’assenza di armi di difesa ed offesa, e la mancanza di un habitat suo proprio. Una persistenza che in termini biologici si definisce come neotenia: persistenza di tratti giovanili anche in soggetti adulti, dovuta a un ritardamento nello sviluppo somatico (S. Jay Gould). In questa lacuna originaria Pico riconosceva la dignità dell’essere umano: posto nel centro del creato, l’uomo non ha alcun luogo né prerogative sue proprie, ma ha la facoltà di innalzarsi sino alle altezze angeliche nel crearsele da sé: «La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. […] Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto». Oppure può mancare nelle sue realizzazioni, e precipitare sino agli inferi delle nature brutali. La stessa comprensione dell’essere umano come natura potenziale viene espressa da autori come Spinoza, Nietzsche (pensiamo all’aforisma sulla coscienza nella Gaia scienza, I-11), e soprattutto il Marx dei Manoscritti economico-filosofici, dove la libertà e la consapevolezza di sé dell’essere umano sono derivate dal suo essere generico: L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È essa. L’uomo assume la sua attività vitale ad oggetto del suo volere e della sua coscienza. Ha una cosciente attività vitale. Non c’è una determinazione con cui egli si identifichi immediatamente: L’attività vitale cosciente distingue immediatamente l’uomo dall’attività vitale animale. Proprio e soltanto per questo egli è un essere generico». Questa genericità è per Marx il tratto distintivo che separa l’uomo dall’animale: uno di quegli elementi di aristotelismo che affiorano nel pensiero di Marx. Certo non è il più grave: ma ogni critica, seppur minima, delle persistenze aristoteliche in Marx contribuisce a rafforzare la critica al finalismo implicito nella definizione di comunismo come “movimento reale che modifica lo stato di cose esistente”. Le pratiche dell’uomo discendono dunque dalla sua natura indeterminata, dall’avere per essenza una potenza (dynamis) non si esaurisce in un atto (energheia). Qual è allora, per dirla con Spinoza, la potenza del corpo umano? La capacità di inglobare nella propria natura quegli utensili, quelle tecniche che, come una pellicola, l’uomo interpone fra sé e il mondo. Non solo gli oggetti prodotti dalla plasticità della mano, ma lo stesso linguaggio generato dalle possibilità inscritte nella formazione del cranio (possibilità dell’apertura del ventaglio corticale e miglioramento dell’attrezzatura neuronica) rimediano — qui seguo ovviamente Leroi-Gourham, e lo straordinario commento alle sue opere presente in Mille Plateaux — alle carenze originarie. L’essere umano, insomma, non è naturale più di quanto non sia tecnico: parafrasando Benjamin, «sta nel fiume dell’essere come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita». È un essere metamorfico, all’interno del continuo divenire evolutivo del vivente. Da qui una doppia possibilità del suo agire, che ai lettori di Benjamin e Anders [a destra] risulta senz’altro familiare: esperire la propria natura nell’innovazione, o irrigidirla nella ripetizione. Esperire la differenza, o irrigidirla nell’alienazione: trasformare il fare nell’essere, sostantivare il vivere nella mia vita, scivolare nel processo di soggettivazione, che è sempre un assoggettamento — «il pronome possessivo non designa solo comunemente il fatto del possesso, ma anche il fatto di essere posseduto», scriveva il giovane Anders anticipando Foucault. O ancora, far ricadere ogni potenza vitale — ogni Erfahrung — nella mera esperienza vissuta (Erlebniss). Per inciso, ma non per caso: si discute molto, oggi, e molto a sproposito, di “fine dell’esperienza” o meno, e gli uni come gli altri tirano la giacchetta a Benjamin, attribuendogli la paternità di un concetto talmente heideggeriano da non lasciar dubbi sulla sua estraneità al filosofo berlinese. In realtà Benjamin non ha mai teorizzato la “fine dell’esperienza”: ha denunciato l’impoverimento dell’Erfahrung, della potenza vitale, della possibilità di un’esperienza altra rispetto al mero vivere all’interno della metropoli moderna (e infatti di Erfahrung, e non d’altro, si parla in Esperienza e povertà. Che il critico non debba attardarsi sull’esperienza quotidiana (Erlebniss) Benjamin lo ha detto a chiare lettere nel saggio su Goethe). Quell’immenso sviluppo della tecnica che immiseriva ieri le esperienze economiche attraverso l’inflazione immiserisce oggi le esperienze, cioè le potenze vitali, dei migranti nello sfruttamento del lavoro vivo, delle moltitudini del terzo mondo nelle nuove forme di sfruttamento, trasformando le potenze del corpi in forza-lavoro: per cogliere l’attualità di Benjamin non c’è che da leggerlo — ma questo è il livello odierno della critica. E visto che siamo a Firenze, consentitemi di concludere questa digressione citando Ferruccio Masini, che ricordava come Erfahren ha come significazione originaria reisende urkunden: acquisire conoscenza viaggiando, come faceva Paracelso — o i suoi corrispettivi letterari, lo Zenone dell’Opera al nero e l’anabattista dai molti nomi di Q; esperire passando, come scrive Baricco, non a caso (con buona pace di Ferroni) un lettore acuto di Benjamin (che, indipendentemente dalle conclusioni cui giunge, ha la capacità di cogliere e proporre i problemi dell’età di mutamento in cui ci troviamo).
2. Una lunga tradizione filosofica sembra indicare una irriducibile alterità tra l’essere umano e il vivente non umano. Brevemente, mi ripropongo qui di negare questa alterità — di negare che le differenze fra uomo e animale siano gradi — e di cercare il significato, per il nostro esperire potenziale, di un diverso rapporto col vivente non umano. Intanto, alcuni elementi di una diversa tradizione. Per Averroè [a sinistra], come per Dante (De Monarchia, I-3, 3-9), anche l’animale è dotato di intelletto: «Infatti, sebbene vi siano altre creature che partecipano di intelligenza, pure il loro intelletto non è “possibile” come quello dell’uomo, perché simili creature sono delle specie intelligenti e nient’altro, e il loro essere non è altro che l’intendere in cui appunto il loro esistere si attua» (De Monarchia, I-3, 7). Intelletto in atto e non in potenza, ma pur sempre intelletto. Rifacendosi all’esempio aristotelico del citarista, fra l’uomo e l’animale la differenza sarebbe analoga a quella del buon citarista rispetto al comune citarista, e non rispetto a chi è impossibilitato a suonare la cetra. Potremmo dire che l’essere umano opera secondo il logos, l’animale non senza il logos (Etica Nicomachea, 1098a 5-13).
Nondimeno, si riconosce nell’animale l’assenza del linguaggio, la sua immediata identificazione con la propria attività vitale, e più in generale, per riferirci a Luhmann, la sua impossibilità di mentire, ovvero di dire no al mondo. Ma già Montaigne, nella celebre Apologia di Raymond Sebond (Saggi, II, 12) metteva in discussione il pregiudizio dell’assenza di linguaggio animale. Forse che non esistono forme di comunicazione fra animale e animale, e fra animale e uomo?, si domandava il grande filosofo sorseggiando uno dei grandi vini delle proprie vigne. Lo stesso filosofo, con identico metodo, negava ogni forma di superiorità dell’europeo sul “selvaggio” delle Americhe. Oggi gli studi etologici hanno confermato l’esistenza di linguaggi non verbali di grande complessità fra i viventi non umani, mentre un’ampia parte della cultura umana rigetta l’imperialismo linguistico nel campo comunicativo. Bisogna dunque riconoscere che i viventi non umani hanno, al pari di noi, strumenti comunicativi adeguati al proprio ambiente vitale. Ancora, sappiamo che i viventi non umani (piante complete) hanno capacità di finzione e di mimetismo: nell’assumere un colore o una forma che contraddice la propria natura il non umano mente al mondo e all’altro da sé — sia esso avversario o vittima. Dunque, pur non avendo letto il Sofista di Platone, il vivente non umano talvolta dice di no al mondo. Come dice sì o no al mondo nell’accettare o rifiutare la domesticazione, processo che comporta un rapporto quantomeno ambiguo con la propria attività originaria. E ancora, ricordo che la separazione ecologica relativa alle aree di alimentazione (principio di esclusione competitiva) di cui sono capaci alcuni animali (ad esempio le cinciallegre) indica una capacità di differenziazione che dipende dal gioco delle forze in campo, e non da un fine insito nella specie (incidentalmente, non è secondario che il concetto di separazione ecologica sia usato dalla pedagogia nell’ambito di una prima differenziazione del bambino dall’adulto). Tutto questo sembra indicarci che la presunta immediatezza nell’identificazione con l’attività sia un prodotto della nostra osservazione, fuorviata dalla lentezza dei processi evolutivi del vivente. E che tale lentezza sia causata non da una diversa dotazione naturale, ma da un minore bisogno di adattamento a un ambiente estraneo, ovvero da un minore bisogno: che sia di natura pragmatica, e non ontologica.
3. Storicamente l’animale ci inquieta, e la scoperta della sua presenza dentro di noi ha aumentato il nostro timore: nella natura siamo abituati a vedere il ricettacolo di quegli istinti che non amiamo riconoscere in noi, e lo smascheramento della “natura umana” da parte di Darwin ha indotto Lombroso a parlare della civiltà come di una sottile mano di vernice sugli istinti e le passioni animali, e Taine (la cui influenza sul pensiero di fine Ottocento è tanto misconosciuta quanto incalcolabile) ad ammonire: «la zoologia ci mostra che l’uomo ha i denti canini; stiamo attenti a non provocare in lui l’istinto carnivoro e feroce». E persino Konrad Lorenz (per tacere di Nietzsche) ha avuto talora parole sprezzanti per l’istinto gregario. Ma in esso l’etologia ci mostra oggi una manifestazione di quell’agire del vivente ordinato, secondo Dante, in funzione di una vasta moltitudine (in tanta multutudine ordinatur) che la tradizione averroista vedeva come l’elemento di distinzione fra l’umano e l’animale: «Vi è così un operare che è proprio dell’universale degli uomini, e a quello l’umanità nella sua così vasta moltitudine è preordinata: un operare a cui non può giungere né un uomo solo né una famiglia sola, né un vicinato, né una città sola, né un regno particolare. Quale sia questo operare, sarà chiaro se si rivelerà l’estremo attuarsi della potenza dell’umanità nel suo tutto» (De Monarchia, I-3, 4). Al contrario, Kipling ha rappresentato nell’assemblea dei lupi la propria utopia politica — la fusione tra il principio democratico e il rispetto della sapienza degli anziani, mentre Saramago ha più volte rappresentato nello sguardo del cane quella pietas che sente oggi venir meno. I cani di Saramago e i lupi di Kipling sembrano suggerire l’esistenza di una comunanza fra il vivente, umano e non: quella che Deleuze chiama “zona d’indiscernibilità” fra l’uomo e l’animale, la cui origine è nel corpo come potenza, cioè come luogo delle potenzialità nelle quali si esplica la cosiddetta natura umana. Indiscernibilità fra l’umano e il non umano significa patire la sofferenza dell’animale nella sofferenza umana: «non si tratta di un adattamento dell’uomo alla bestia, né di una somiglianza , si tratta piuttosto di una identità di fondo, di una zona d’indiscernibilità più profonda di qualsiasi identificazione sentimentale: l’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo. È questa la realtà del divenire» (Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione). Vedere nel corpo il luogo potenziale dell’umano e del non umano insieme, il luogo della sofferenza come evento, si oppone alla considerazione del corpo come strumento, come oggetto-merce da sfruttare o da torturare in nome di imperiali Enduring Freedoms. La proposta di una carta dei diritti del vivente non umano che tuteli tutto ciò che afferma la potenzialità dell’animale in quanto tale (Martha Nussbaum) ha dunque un evidente interesse umano. E ancora, il divenire animale come potenza dell’umano può ampliare la dignità dell’umano recuperando, contro l’alienazione possessiva — contro il bisogno di dire “mio” (Anders) — la dimensione comune e moltitudinaria (Dante) del nostro essere. Con le parole di Gadda: «la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io».