Giorgio Bona, Erano voci, pref. A. De Filippi, ed. Il Molo, Viareggio, 2006, pp. 162, € 10,00
Erano voci è un romanzo nel quale l’autore riversa la saggezza antica dell’introspezione, l’amore, la pazienza, l’arte del dosare pause ed emozioni, e la convinzione che ogni storia personale abbia inizio e fine da una descrizione assolutamente soggettiva e non condivisibile da altri esseri umani. Un romanzo che consiglio vivamente a chi si sente affogare nel narcisismo dei dialoghi intessuti per sfoggiare cultura e non certo per introiettare, anche se momentaneamente, ciò che offre l’interlocutore.
La professione di Giorgio Bona, traduttore di poesie, fiabe e narrazioni dall’inglese e dal russo, ha certamente raffinato la sua sensibilità. Erano voci è il libro del viaggio, dell’antica arte del viaggiare, della riscoperta del percorso vero, cioè quella linea che non è unire la distanza da A a B, ma una fitta rete di accadimenti emotivi e riflessivi che portano allo stupore e all’innamoramento verso il nuovo, o il vecchio rivisitato.
Se pensiamo al viaggio come a un profondo sradicamento dell’individuo abbandonato dalle sue certezze, aggrappato a residui inarticolati quasi privi di senso, come fotografie o rubriche di numeri telefonici che sembrano senza volto — quel trauma dell’estraniamento che la tecnologia funzionale di un intercity vorrebbe annullare senza riuscirci del tutto – Erano voci vi accoglie con benevolenza tra i suoi adepti.
Il viaggio, quello del romanzo, è una ricerca, disperata nell’apparenza e nella sostanza. Si tratta di partire al più presto per Mosca, città ben nota all’autore, nel giro di pochissimi giorni, visto permettendo, e rintracciare uno scrittore scomparso nel nulla, sparito nel più profondo lager dell’epoca più buia dell’egemonia culturale sovietica, e nell’ancor più inquietante buia e arrendevole memoria dell’èlite intellettuale, poco propensa a cedere i pochi privilegi, tali solo ai nostri occhi, in cambio dell’appiattimento.
Un viaggio improvvisamente impellente, il richiamo di un’amica, un pretesto per verificare ancora tante cose non chiarite del tutto. L’unico viaggio capace di scivolare sui paesaggi e raccoglierne l’anima è quello sul treno. E un viaggio di tre giorni ha il potere di essere infinito, sempre apparentemente sullo stesso binario ma capace di svelare improvvise variazioni di idiomi e di coltivazioni agricole, conformismi comportamentali e inaspettate modernità, figure che paiono caricaturali, e figure che lo sono per mestiere, caricature di un turismo alla ricerca dei suoi stereotipi.
Compagni di viaggio, che alla fine del viaggio saranno il viaggio stesso, lunghe bevute, allegria sincera e forzata lucidità, notti interminabili solcate da interminabili ore di veglia frammiste a rumori che da sottofondo diventano centrali, sonnolenze improvvise che colgono all’alba, sogni sfumati dal passaggio dei carrelli della colazione, dal russare incessante del vicino.
Il viaggio, che ha per scopo iniziale scoprire che fine ha fatto lo scrittore Kibintskij, le cui uniche opere Mockva-Petuski e Appunti di un matto, erano state censurate, egli stesso cacciato dall’università, finito alcolizzato nei bassifondi della società sovietica, sembra prendere strade sempre diverse ma inaspettatamente riportare alle origini stesse della ricerca. I contatti con Mosca sono quelli tipici di un’investigazione zeppa di depistaggi: sembrano tutti voler sminuire, deresponsabilizzare, per esacerbare l’ideologizzazione propagandistica, barattare la verità con l’urgenza storica, il mito con le sue prigioni. E gli affetti, quelli che rimangono anche solo come segnale di una sofferenza personale e collettiva, quasi generazionale, hanno l’aspetto e il racconto del dolore antico.
La compagna di Kibintskij ricorda con lucidità, a fatica, solo dopo lunghe sorsate di alcool puro, quello forte, quello che si beve solo nei romanzi dell’ ‘800, inizi ‘900. E’ la storia di un amore e di intrighi internazionali che hanno l’aria di aver sacrificato decenni a qualcosa di inutile ed eccessivamente elaborato e contorto. Assomiglia per certi versi a un fatto recente di cronaca, che riguarda la Chiesa polacca e il Vaticano, storie di spionaggio e di pressioni internazionali, quindi c’è da pensare che qualcosa di vero “oltre” il romanzo possa effettivamente esserci stato.
Il protagonista adotterà tutte le metodiche classiche per ottenere informazioni in Russia e nel resto dell’Est, dalle continue mance o mazzette, dagli amici “che hanno saputo che”, agli adescamenti nei bar, ai giri di mala, a tutta quella frangia di società che fa girare il mondo del business e della vita più in generale. E si sa che certe frequentazioni possono portare a cattive, se non pessime, conseguenze. Con la differenza che il dialogo è sempre interiore, è una continua poesia, è una rivisitazione costante della vita e dei fatti in chiave interpretativa e radicale.
La straordinaria bravura di Giorgio Bona sta proprio nella sua capacità di descrivere l’anima delle cose, e come l’uomo misero e solo, uno tra miliardi, sia comunque sempre un universo poliedrico di specchi riflettenti dotato di incredibile sintesi poetica.
Mentre mi accingevo scrivere di Erano voci, mi è arrivato un altro libro di Giorgio Bona, Ciao, Trotzkij. Spero riusciate a recuperarlo, è edito dalla Besa Editrice. Un libro che è una serie di racconti infinitamente circoscritti, e di conseguenza universali, sui fatti drammatici legati alla seconda guerra mondiale, al fascismo, all’ideologia, alla coerenza e alla disillusione. Dalla memoria di un corpo anziano nei ricordi della passione e dell’amore, alla scoperta che ogni corpo, anche se sfatto, grasso e disperatamente presente ogni notte al nostro fianco, quasi inutile nella sua funzione seduttiva, svilito della sua funzione riproduttiva, inservibile, può essere motivo di omicidio e di rancore, di pentimento e colpa eterni. Perché eterno è il tempo di vita di una persona, che volente o nolente non sa rinunciare alla propria immortalità.