di Carlo Gazzotti

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Introduzione. La scena astratta

Idioti e idiozia sono oggi sinonimi di stupidità, d’insensatezza, di imbecille minorità psichica. A fissare i connotati della definizione corrente qualcosa che porta alla Francia del XII secolo o, più ancora, alla terminologia medica di stampo positivista.
Non così quando ‘idiota’ e ‘idiozia’ definivano tutto ciò che era proprio dell’uomo privato, dell’individuo naturale contrapposto all’uomo propriamente detto, all’uomo pubblico, civile, esperto, politico.
Dostoevskij non c’entra, e non c’entra nemmeno Pirandello. Qualche utile indizio può essere semmai contenuto nell’espressione ‘idiotismo’. Termine che designa, in ambito linguistico, ogni espressione dialettale, provinciale, ogni ‘cretinismo’ delle piccole comunità chiuse.

In fondo, tra le mura domestiche, nei nomignoli del lessico famigliare, nell’intimità più profonda, ognuno di noi è un emerito idiota. Da idiota sente, da idiota parla, da idiota si comporta. Idioti sono definibili i nostri tic, i nostri sogni, le nostre manie.
Insieme, da idioti che siamo, messi di nuovo i piedi per terra, giù dal letto, uscendo di casa, verso gli usati luoghi di lavoro, costretti a ciò dalla necessità o dal desiderio, abbandoniamo la nostra consueta e naturalissima vocazione inesperta per tornare a indossare i panni convenzionali delle nostre professioni, dei nostri incombenti assilli civili, economici, culturali. Persone (e quindi maschere) vigili, istruite, competenti. Politicamente corretti, tecnicamente informati al meglio, ci muoviamo, ci comportiamo come a negare quella primitiva ignoranza che, liberatoria, c’aspetterà di nuovo a casa, in camera nostra, o a cena, con qualche amico d’infanzia alfine ritrovato, davanti semmai ad un bicchiere di buon vino.
La prospettiva cambierebbe radicalmente si volesse calcare la scena. In questo caso, oppressi dalla necessità di far convergere verso di noi le attenzioni dei più, dovremmo a tutti i costi far ricorso proprio alla nostra personalissima e tanto altrimenti bistrattata carica idiota. Che infatti, più saremo capaci d’essere e di comportarci da idioti, più applausi riusciremo a strappare. E la cosa vale nella commedia, nella satira e financo nella tragedia. Si pensi per un istante ad Amleto ed alla sua insuperabile vocazione a fare l’idiota, a sragionare, a mettere il mondo sottosopra (per rimetterlo in sesto).
Posta in questi termini la storia di una vicenda teatrale minore come questa, nata e cresciuta sui banchi di scuola, può essere anche letta come la storia di un’idiozia. Storia di un’idiozia e della sua organizzazione. Che la scena, a ben vedere, altro non è se non questa stessa organizzazione dell’idiozia. E il racconto di quell’esperienza ben potrebbe definirsi, a sua volta, come la ricostruzione di quella trama.
Insomma, una sorta di idiozia al quadrato.

1. La scena calpestata (1986 – 1988)
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A giugno misi in scena coi miei studenti di quarta due brevi atti unici dal Giovanni Episcopo di D’Annunzio e da Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.
Li avevo allestiti unendo i banchi della classe a mo’ di palcoscenico, ovvero saltandoci letteralmente sopra. Fu lì che capii sul serio l’espressione ‘saltimbanco’.
Era il 1987. All’ex Casa del Popolo di periferia dove organizzammo la rappresentazione si presentarono alcune centinaia di spettatori. Tutti amici e parenti. Con loro, qualche isolato curioso, i vecchietti della locale bocciofila, i clienti abituali e gli avventori della Polisportiva a quel tempo lì ubicata. Dopo gli applausi, smontammo la teoria di teli neri che avevamo utilizzato a mo’ d’ambientazione e ce ne andammo tutti in vacanza. Stanchi morti, ma felici.
Ritornato a scuola non persi tempo. A Novembre chiesi formalmente l’istituzione di un corso di animazione teatrale in orario pomeridiano rivolto agli alunni delle classi quinte, gli stessi coi quali ero andato in scena a giugno, ma il Consiglio d’Istituto, tenutosi due giorni dopo, respinse la richiesta in quanto “rivolta a pochi studenti”. Arte e democrazia non potevano andare d’accordo. Lo sapevo di già, ma adesso ne avevo avuto la prova provata.
Presi allora una copia dello spartito musicale del brano di John Lennon e Paul Mc. Cartney With a little help from my friends e la utilizzai a mo’ di cornice per un foglio più piccolo nel quale avevo elencati i precedenti più importanti dell’attività di un così autodefinito: ‘Gruppo di lavoro sul teatro presente nell’istituto’. Posi in calce al tutto un centinaio di firme di alunni e insegnanti della stessa scuola che avevo raccolto per giorni in maniera certosina, firmai a mia volta ed esposi il tutto nella fatiscente bacheca della scuola destinata alle locandine di enti e organismi esterni. Il tono di fondo del messaggio suonava polemico e sarcastico, da qui il titolo della famosa canzone dei Beatles, come se, alla richiesta di un piccolo aiuto dagli amici si fosse risposto alla solita maniera. Ottusamente e in forma rigidamente burocratica. Era fatta. Mi schieravo contro il preside, contro la direzione, contro tutti coloro i quali lì dentro non volevano si facesse teatro.
Nei mesi successivi maturai la decisione di autoesiliarci da noi, avendo nel frattempo ottenuto sufficienti assicurazioni in merito alla possibilità di essere ospitato per la nostra attività all’interno del teatro SGB. Una sala pubblica ubicata all’interno dei locali di un pensionato per anziani gestito dal Comune, a ridosso degli uffici che ospitavano anche la V circoscrizione cittadina.
Fu così che a Marzo, su mia esplicita sollecitazione, il preside inviò al presidente della V Circoscrizione del Comune una missiva nella quale dichiarava essere il sottoscritto un docente che “(…) svolge da più di un anno attività di ricerca e di produzione teatrale con alcuni allievi dei propri corsi, come risulta dalla sua stessa programmazione didattica (…)”, ovvero che “(…) la ristrutturazione edilizia del nostro Istituto, attualmente in corso e destinata a proseguire fine al termine dell’anno scolastico, non consente di fornire ai ragazzi e agli insegnanti in questione spazi adeguati per svolgere le attività di cui sopra”.
Mancava il protocollo ma andava bene così. Lui avrebbe sempre potuto smentire la cosa, ma ai responsabili della circoscrizione sarebbe bastavo e se andava bene a loro, a me non sarebbe potuto andare meglio.
I due documenti che ho citato testimoniavo che durante l’anno scolastico 1986-87 si era costituito presso la scuola nella quale lavoravo da due anni un gruppo scolastico di ricerca e di produzione teatrale; che questo gruppo era limitato alle classi quinte di quell’anno ed era coordinato dal sottoscritto, ovvero che io facevo espressa menzione della suddetta attività teatrale nella mia programmazione didattica approvata dai Consigli di classe competenti e dallo stesso preside il quale finisce addirittura per citarla; che l’istituto, preso atto ed in un qualche modo avallato tale attività, le negava in buona sostanza diritto di cittadinanza per presunti motivi di forza maggiore (come la mancanza di locali idonei all’interno della propria struttura scolastica); che la richiesta di un corso con operatori teatrali era stata respinta dal Consiglio d’Istituto in quanto riguardante ‘solo alcuni studenti’; che gli stessi studenti avevano rappresentato un proprio lavoro presso i locali di una sala pubblica e che tale gruppo aveva imbastito rapporti con la Circoscrizione n.5 del Comune. Amen. O forse no.
Da sottolineare ci sarebbero forse ancora la pressoché totale latitanza del corpo docente; l’apertura del gruppo a ex studenti e alla collaborazione di figure artisticamente significative del panorama artistico e teatrale cittadino; la presenza di testi prodotti dagli stessi studenti del gruppo, ovvero il tono poetico tra l’estetizzante e l’arrabbiato delle sue ingenue ambizioni drammaturgiche; l’assenza di problematiche specificamente teatrali legate al linguaggio del corpo; l’impostazione di parola e la netta preponderanza della componente linguistico-letteraria, pur palesemente ingenua e dozzinale; l’attenzione per l’elemento musicale e per l’ambientazione sonora elettronica (costante anche in tutti i successivi miei lavori); la presentazione pubblica e gratuita dei propri allestimenti, ovvero la pratica dell’autofinanziamento; l’atmosfera notturna, gotica, ebbra, che aleggiava un po’ ovunque nei due allestimenti dei quali s’è fatta menzione caratterizzati infatti da azioni sceniche lente, grossolanamente ieratiche, sovente impacciate, tra voci registrate, fumo di nebulizzatori, pose divistiche a metà strada fra l’ingenuamente grecizzante e il cinematografico glamour di certe sofisticherie americaneggianti. Paludamenti adolescenziali e narcisismi letterari fecero il resto: insomma, quanto di peggio può partorire un teatro scolastico privo d’ogni più elementare correttezza metodologica e d’ogni necessaria consapevolezza drammatica. Ma tutto questo sarebbe troppo per ogni racconto a meno che il racconto non sia, come in questo caso, il racconto di un’idiozia.
Il lavoro successivo lo scrisse Marcello, un mio ex studente diciottenne, uno che i colleghi avevano solo saputo bocciare, nonostante il nove in italiano. Marcello era uno che beveva forte. Tutti si beveva forte, allora. Titolo: La Casa dei Gatti. Un atto unico che raccontava della mesta tristezza di casa sua. Dei litigi con la sorella e con la madre. Del padre assente. Della tv perennemente accesa. Si andò in scena a Febbraio, in un teatro di paese ai piedi dell’appennino, lo stesso nel quale cinquant’anni prima mia madre aveva recitato da ragazzina.
Achille e Patroclo, questo il titolo del lavoro successivo, lo allestimmo invece al SGB, nella sala che avevamo indicato allo stesso preside come il luogo del nostro esilio, in quella che sarebbe diventata una sorta di vera e propria seconda nostra casa. Ci impiegammo due mesi appena, che infatti s’andò in scena il 21 Maggio di quello stesso 1988 e sempre alle ore 21.30.
Ispirato ad uno dei Dialoghi con Leucò di Pavese e ambientato in una Parigi alla vigilia della Grande Guerra, il nuovo lavoro contenne insistiti richiami letterari.
L’età della ragione e Il rinvio di Sartre, Viaggio al termine della notte di Celine, Conversazione in Sicilia di Vittoriani, e ancora passi da Malaparte, Osborne, Gide, anche se fu soprattutto la gita nella capitale francese compiuta con gli studenti protagonisti dei due precedenti allestimenti ad accompagnare sullo sfondo tutto quanto il lavoro, con le sue rocambolesche corse in metropolitana, l’intero pomeriggio trascorso nel museo di arte muraria del Trocadero, l’incontro ravvicinato con le avanguardie artistiche novecentesche e col borgogna.
Eco insistita e prolungata di queste scoperte, di queste epifanie, Achille e Patroclo finì per muoversi sulla falsariga del dialogo tra i due personaggi di Pavese, rispettivamente interpretati da me e da Roberto. Trentatre anni io, diciotto lui. Entrambi protesi a costruire una sorta di “trait d’union” tra la nostra stessa vita e quel maldestro tentativo di scena che avevamo iniziato a calcare insieme. Tra l’esperienza artistica condivisa e il senso di vertigine, di isolamento, che simile esperienza produceva in noi al contatto quotidiano con una realtà scolastica sentita quale dato insieme ineludibile e opprimente.
Qualcosa che ci appariva non del tutto dissimile dal sentimento provato per la guerra achea o per quella imperialista dai protagonisti dei testi letterari saccheggiati, nel tentativo, forse, d’interpretare e di rivivere il tema dell’infanzia come unica fonte di salvezza e quale continuo motivo d’ispirazione. Ciò anche assecondando una linea poetica da sempre cara alla lirica italiana, da Leopardi, a Pascoli, allo stesso Pavese, ad Elsa Morante con quel suo titolo emblematico, de Il mondo salvato dai ragazzini.
Temi e motivi dominanti, come già era accaduto ne La casa dei Gatti: il sangue, il sesso, l’infanzia tragica, la madre, la morte, la poesia. Proprio quest’ultima sarebbe stata più degli altri elevata a difesa e ad esaltazione dell’”ingenuità” di chi, diceva il testo, “non è ancora cerebralmente contaminato”. Insomma, per parafrasare la citazione di Pavese che chiudeva il fittume verbalmente melenso del pieghevole contenente le note di regia, era come se un gruppo di giovani studenti d’arte ed un loro solitario professore si stessero comportando al pari di certi innamorati o di quelli che hanno un forte odio interiore. Costoro, si sosteneva con Pavese, più degli altri risulterebbero capaci di aderire al mondo simbolico e per questo stesso semplice fatto parrebbero atti quasi di per sè a generarlo, essendo proprio della passione conferire unicità alle cose, ovvero dar loro una forte connotazione maniacale, rituale, primitiva, selvaggia.
Eravamo molto lontani dal tono buonistico e pedagogicamente irreprensibile col quale sovente le esperienze teatrali scolastiche e i loro animatori parrebbero oggi operare. Inutile citare singoli casi, l’atteggiamento igienista, filantropico, salutista, risulta essere una delle più incontrovertibili costanti di tutta quanta la letteratura sul ‘teatro dei ragazzi’ e ciò appare oltremodo incomprensibile a chi ha sempre sperimentato in prima persona un automatismo eversivo del teatro. A scuola e non. Screzi, eccessi, violenze verbali, momenti di vera e propria rissa, anche fisica, caratterizzarono sempre l’esperienza teatrale mia e dei mie studenti. Per questo, forse, la nostra masnada non sembrò mai un gruppo di alunni, ma una vera e propria banda, una gang, un’associazione a delinquere. Che noi tramavamo, appunto. Tramavamo l’idiozia.
Questo anche perché Roberto sembrava proprio votato a celebrare lo struggimento caratteristico del ‘loner’ americano, dello sconfitto, del solitario. E a lui, in fondo, facevano riferimento lo stesso Marcello e Raul, un altro autore diciottenne col quale scrissi un atto unico ambientato su di una goletta di aristocratici esiliati ai tempi del terrore giacobino. Roberto significò inoltre dover fare i conti con una recitazione secca, disincantata, priva di fronzoli e di eufemismi di maniera. In fondo è possibile far risalire la scaturigine prima dell’intera esperienza teatrale del gruppo di cui sto dicendo proprio a un suo componimento libero di italiano nel quale egli si identificava con l’immagine del perdente, del bambino-adulto disorientato e respinto. Non a caso il grosso della struttura drammatica e scenica di Achille e Patroclo fu proprio giocato sul rapporto tra il maturo e professorale Achille, interpretato da me in quella che rimane la mia unica apparizione diretta sul palco, e il suo giovane amico Patroclo (per l’appunto interpretato dallo stesso Roberto). A cominciare dalla stessa prima scena che vedeva il più giovane dei due intento a scrivere mentre il suo più maturo compagno entrava a sua volta leggendo dal giornale.
Ricavai l’intera sequenza utilizzando le prime pagine di Ricorda con rabbia di Osborne con quello scontroso iniziale: “Io mi domando perchè passo così tutte le domeniche. Persino le recensioni dei libri sembrano le stesse della scorsa settimana. I libri cambiano, le recensioni no.” Dopo Osborne incollai qualcosa da I Falsari di Gide (non a caso ambientato tra giovani liceali parigini coetanei di quelli che bazzicavo io) con quel: “Fate male a leggere i libri! Vi fa salire il sangue alla testa” e con alcuni riferimenti al movimento politico dell’Action Francaise di Maurras che nascondevano malcelati rimandi allo sdoganamento cossighiano dell’estrema destra di casa nostra. Meglio sarebbe stato lasciar perdere gli articoli di politica ci saremmo poi detti, preferendo loro, semmai, il raccontare la storia non di un personaggio, ma di un posto.
La partita a carte che decidemmo d’inscenare, ci avrebbe consentito a quel punto di spulciare tra le righe del Viaggio al termine della notte di Celine con quell’incipit che pare una fucilata. In esso il giovane studente Arturo Granate si rivolge all’amico Bardami/Celine sostenendo che, in fondo: “La gente, a Parigi, ha sempre l’aria affaccendata, ma in pratica va a spasso dalla mattina alla sera”. Insomma, nessun cambiamento, nessuna speranza sembravano ormai possibili e noi due avremmo proceduto sino al termine della ‘pièce’ su di una comune falsariga anarchica, da sconfitti, approdando ad un nichilistico inno col quale amore e Dio avrebbero finito per divenire tutt’uno e per apparire come “Un porco con le ali d’oro” (nonostante il copione pudicamente aggiungesse a fianco dell’affermazione blasfema “Questa no!”).
Il presunto dialogo tra Achille e Patroclo sotto le mura di Troia, quello che aveva fatto scrivere a Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò: “Superfluo rifare Omero. Noi abbiamo voluto semplicemente riferire un colloquio che ebbe luogo la vigilia della morte di Patroclo.” diveniva così il dialogo tra i due amici parigini del ‘viaggio’ di Celine ovvero ancora, quello mio e di Roberto, fatto di mattinate spese a sostare e a conversare fittamente sulle malefatte del mondo e degli uomini, durante gli intervalli tra le lezioni, lungo i corridoi della scuola, o in auto, rincasando a tarda ora dalle prove in teatro.
Parigi irrompeva invece all’improvviso, contemporaneamente alla nostra uscita di scena. Ad iniziare la caleidoscopica passerella di tipi e di ritratti metropolitani l’effigie della ‘République Franaise’, impersonata da Maria Cristina, oggi stimata giornalista delle tv locali di qua, alla quale venne messa in bocca una riflessione di Curzio Malaparte sugli occhi abbacinati di Goethe alle prese con l’immagine dei giovani volontari che a Valmy andavano contenti a farsi sbudellare “(…) per la difesa dell’inedita finzione patriottica (…)” e, a seguire, scene ricavate da Sartre e dagli altri autori citati, sino all’epilogo ed al nostro ritorno in pedana per il finale tratto pressoché integralmente dal dialogo I due dello stesso Pavese.
Il tutto secondo un procedimento antologico-cumulativo e un ordito testuale iperbolico e metaletterario. Come di trattasse di dar vita ad un montaggio ravvicinato fatto di brevi citazioni antologiche con tanto di metrò, prostitute, reduci dal fronte, flic, infermieri, fidanzate abbandonate, il vecchio Omero psicopatico e cieco.
Portato in scena Achille e Patroclo al SGB, lo replicammo di lì a poco in un pub della città, con tanto di rissa finale, provocazioni del pubblico (e al pubblico), coltelli a serramanico e cazzotti. Forse anche per questo, forse per non smentire proprio questo, decisi di proporre al gruppo Troppo buoni con le donne di Queneau. La ‘pièce’, ambientata negli anni della ‘grande insurrezione’ irlandese, non ebbe però la fortuna dei dialoghi di Pavese e il lavoro abortì, anche perché Raul venne chiamato a ben altri compiti dall’imminente paternità e i rapporti di profonda e irriverente complicità tra quelli che erano stati i membri fondatori lasciarono il posto, in quei giorni, a screzi, baruffe e incomprensioni. Le sedute di prove di Troppo buoni con le donne coincisero anche con l’inizio delle riprese di Banditi, un progetto di film in VHS poi abortito.

(1-CONTINUA)