di Irene Panozzo
“I primi anni del nuovo secolo testimoniano una continuazione dei profondi e complessi cambiamenti della situazione internazionale e l’ulteriore avanzamento della globalizzazione. (…) La Cina, il più grande paese in via di sviluppo del mondo, segue la via dello sviluppo pacifico e persegue un’indipendente politica estera di pace. (…) Il continente africano, che comprende il più gran numero di paesi in via di sviluppo, è una forza importante per lo sviluppo e la pace del mondo. Le nuove circostanze creano nuove opportunità per le relazioni tra Cina e Africa, tradizionalmente amichevoli.”
Inizia con queste parole il documento programmatico che il governo di Pechino ha presentato il 12 gennaio 2006. Un documento non a caso intitolato “La politica della Cina in Africa”, che fotografa e allo stesso tempo costituisce la punta dell’iceberg di un fenomeno di ampia portata, in atto da anni ma sempre più all’ordine del giorno nelle riflessioni che riguardano l’Africa: la penetrazione cinese nel continente.
La pubblicazione di questo documento è tanto più notevole in quanto si tratta di un passo più unico che raro da parte del governo di Pechino. Infatti, l’articolazione di una politica specifica nei confronti del continente è la seconda del suo genere in tutta la storia della Cina popolare. Solo nel 2003 Pechino aveva preparato qualcosa di simile per mettere nero su bianco la sua politica nei confronti dell’Unione Europea. Ma nel caso dell’Africa la presentazione di questa sorta di ‘libro bianco’ sui rapporti cinesi con il continente si è inserita in un fittissimo reticolato di incontri, firme di accordi di cooperazione economica, visite ufficiali, appalti ricchissimi per la costruzione di infrastrutture e contratti energetici miliardari. A illustrare il documento alla stampa, c’era quel giorno il portavoce del ministro degli Esteri cinese. Il responsabile del dicastero, il ministro Li Zhaoxing, non era presente, perché impegnato altrove. In Africa, guarda caso, in un viaggio ufficiale di otto giorni, nel quale è passato da Capo Verde al Senegal, dal Mali alla Nigeria, dalla Liberia alla Libia. Sei paesi, sei tasselli ugualmente importanti per la strategia cinese, anche se per ragioni diverse: per la pesca Capo Verde e il Senegal, per il petrolio la Nigeria e la Libia, per il legname la Liberia e per il cotone il Mali. Ma al di là delle risorse naturali, tutti gli incontri bilaterali e gli accordi firmati da Li Zhaoxing con le controparti locali hanno riguardato anche la cooperazione tecnica e politica e quella in campo medico e culturale.
I buoni rapporti tra Cina e paesi africani non sono una novità. Fin dall’epoca delle indipendenze, della guerra fredda e del non-allineamento la Cina ha sempre intessuto relazioni diplomatiche anche importanti con parte dei governi del continente. Il primo paese africano a riconoscere la Cina popolare e a instaurare relazioni diplomatiche con Pechino fu l’Egitto di Nasser, nel 1956. Cinquant’anni fa e un altro panorama internazionale: erano gli anni della nascita del movimento dei paesi non-allineati, creato dallo stesso Nasser assieme al presidente jugoslavo Tito e a quello indiano Nehru: la Cina di Mao, i cui rapporti con l’Urss di Chručëv erano in fase di crescente tensione , era uno dei paesi a cui avvicinarsi. Tanto più che Nasser si trovava in rotta di collisione con i paesi occidentali per la questione di Suez ed era quindi pronto a guardare a quelli comunisti per ottenere i fondi necessari alla costruzione della grande diga di Assuan, soldi che arrivarono prontamente dall’Urss. Nei decenni successivi, la dottrina cinese del terzomondismo e l’arrivo al potere in alcuni paesi africani di padri della patria campioni del “socialismo africano” — primo tra tutti il tanzaniano Julius Nyerere, la cui politica di collettivizzazione agricola basata sulle ujamaa (solidarietà familiare in kiswahili), i villaggi comunitari rimasti la struttura portante del sistema agricolo tanzaniano per quasi vent’anni, era chiaramente ispirata ai princìpi della rivoluzione cinese — istituzionalizzarono ulteriormente i rapporti tra Pechino e alcune capitali africane.
È pensando a questo passato che il documento del 12 gennaio richiama nel prologo i rapporti “tradizionalmente amichevoli” tra Cina e Africa, sottolineando come tutti i paesi, sia da una parte che dall’altra, siano da catalogare come paesi in via di sviluppo. Il panorama internazionale, però, non è più lo stesso degli anni Sessanta e Settanta. E anche la natura dei rapporti tra Pechino e il continente africano è cambiata radicalmente. Non sono più l’ideologia, la solidarietà con governi e partiti comunisti o socialisti considerati amici o le scelte di politica economica a determinare il destino delle relazioni tra Cina e Africa. Da più di qualche anno ormai la parola è stata lasciata alle monete sonanti con cui le concessioni petrolifere vengono pagate, a quelle degli ingenti investimenti cinesi nelle infrastrutture di molti paesi africani o a quelle che costituiscono i prestiti a tassi quasi inesistenti per paesi così indebitati da far difficoltà a ricevere finanziamenti dalle istituzioni internazionali o dai paesi donatori riuniti nel club di Parigi.
La Cina ha iniziato la sua nuova penetrazione in Africa circa dieci anni fa, attirata dalle ricchezze minerarie del continente, soprattutto dalle sue riserve di petrolio e gas (senza dimenticare però quelle di rame, cobalto, carbone e oro), necessarie per far mantenere al paese asiatico il rapido passo della sua crescita economica. Ma è stata anche la presenza di mercati di facile penetrazione, dove i manufatti cinesi, con buona tecnologia ma di poco prezzo, sbaragliano qualsiasi concorrenza, ad attrarre l’attenzione di Pechino. L’Africa soddisfa quindi le necessità primarie della grande crescita economica del gigante cinese, che ha saputo crearsi ampi spazi d’azione nel continente.
Solo da alcuni anni però la “conquista” cinese dell’Africa, iniziata senza fanfare e con molto pragmatismo, è diventata tanto evidente da attirare l’attenzione del resto del mondo. Degli analisti politici ed economici, ma anche di quei governi, a iniziare dagli Stati Uniti e dalla Francia, che si sono trovati ad aver perso terreno, a tutto vantaggio di Pechino, in un continente considerato strategico per i loro interessi sia economici che geopolitici. Bastano alcune cifre per capire quale sia la questione: stando ai dati ufficiali del governo cinese, il volume degli scambi commerciali tra la Cina e il continente africano è quadruplicato negli ultimi cinque anni. Solo nei primi dieci mesi del 2005 è cresciuto del 39%, arrivando a superare i 32 miliardi di dollari . Di questi, le esportazioni cinesi verso il continente hanno contato per 15,25 miliardi, mentre le importazioni hanno raggiunto quota 16,92 miliardi di dollari. Sempre negli stessi dieci mesi, aziende cinesi hanno investito nei paesi africani un totale di 175 milioni di dollari .
Ufficialmente, il punto di partenza di questa crescita esponenziale nei rapporti commerciali tra le due parti è da fissare tra il 10 e il 12 ottobre 2000, quando a Pechino si riunirono i ministri degli Esteri e della cooperazione internazionale della Cina e di 44 paesi africani, creando il Forum sulla cooperazione Cina-Africa, una “piattaforma realizzata dalla Cina e dai paesi africani amici per [dar vita] a consultazioni e dialoghi collettivi e a un meccanismo di cooperazione tra paesi in via di sviluppo che ricade nella categoria della cooperazione Sud-Sud” . Da allora Pechino ha cancellato i dazi su 190 tipologie di prodotti di importazione in arrivo sul suo mercato interno da 28 paesi africani meno sviluppati, mentre i manufatti cinesi invadevano il mercato africano.
Ma all’ottobre 2000 Pechino era già presente in maniera importante in alcuni paesi africani. Uno per tutti il Sudan, diventato ufficialmente produttore ed esportatore di petrolio nel settembre 1999 soprattutto grazie all’intervento cinese. Che nel sottosuolo della regione al confine tra Nord e Sud Sudan ci fosse del petrolio lo si sapeva dalla fine degli anni Settanta. Ma la ripresa della guerra civile tra le due parti del paese nel maggio 1983 aveva impedito alle compagnie petrolifere straniere presenti sul terreno di lavorare. A metà degli anni Novanta, dopo anni di stallo e a conflitto ancora ampiamente in corso, un consorzio conosciuto con il nome di Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc) ha preso in mano sia i lavori di prospezione e sfruttamento dei blocchi 1, 2 e 4, sia la costruzione di una raffineria poco fuori Khartum e di un oleodotto di 1.600 km necessario a portare il greggio dai campi petroliferi del Sudan meridionale a Port Sudan, sul Mar Rosso. Con il 40% delle azioni , il partner di maggioranza del consorzio è la China National Petroleum Corporation (Cnpc), una delle più grosse (e delle più attive sui mercati esteri) compagnie petrolifere di Stato cinesi . Oltre alla partecipazione al Gnpoc, la Cnpc ha in concessione “in solitaria” anche l’intero blocco 6, mentre divide con altre compagnie straniere lo sfruttamento dei blocchi 3 e 7.
Il fatto che le compagnie cinesi non debbano rispondere delle loro azioni e del loro eventuale coinvolgimento in situazioni di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani a un’opinione pubblica sensibile a questi temi ha sicuramente favorito la stretta collaborazione che si è creata tra Pechino e Khartum. Il settore petrolifero rimane il più importante agli occhi della Cina, visto che oltre la metà dell’export sudanese di greggio va al colosso asiatico, coprendo così il 5% del suo fabbisogno. Ma non c’è solo il petrolio ad attrarre i capitali cinesi sulle sponde del Nilo. Ci sono anche le infrastrutture da creare ex novo — tra cui una pipeline di 470 km per portare l’acqua dal Nilo e dall’Atbara nell’arida regione orientale (un progetto siglato nel giugno 2005 e che costerà 345 milioni di dollari) e il più grande progetto idroelettrico in corso nel continente, una diga in costruzione 350 km a nord di Khartum, all’altezza della quarta cateratta del Nilo — e la vendita di armi, il settore delle telecomunicazioni su cui investire e la cooperazione tecnica e medica.
Il Sudan è il principale destinatario degli investimenti esteri cinesi e uno dei paesi africani con cui Pechino ha più scambi commerciali. Ma non è certo il solo. Innanzitutto perché non esiste solo il petrolio sudanese. Le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec, si stanno ritagliando sempre più spazio nello sfruttamento del greggio africano. Mentre la Cnpc è impegnata in prospezioni nel Sud del Ciad e nell’Etiopia occidentale, la Cnooc ha firmato nel gennaio scorso un accordo miliardario con la Nigeria per comprare il 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che comprende importanti giacimenti offshore sia di petrolio che di gas.
Accanto alle risorse energetiche però c’è dell’altro. I soldi cinesi stanno trasformando il paesaggio di molte capitali africane (da Yamoussoukro, in Costa d’Avorio, dove sono già in costruzione gli alloggi per i 225 deputati ivoriani, a Luanda, in Angola, dove aziende cinesi stanno restaurando un intero quartiere), in un make-up che rispecchia anche all’esterno un cambiamento radicato nel tessuto economico. Ma anche fuori delle capitali i cambiamenti sono visibili: sono cinesi i capitali e l’ingegneria della ferrovia costruita in Angola, ad esempio, o delle strade e dei ponti eretti in Ruanda, come anche dell’autostrada in Etiopia e di buona parte della rete dei trasporti dello Zimbabwe. La buona tecnologia a prezzi contenuti che la Cina offre nei suoi prodotti ha anche significato per molti paesi poter saltare alla telefonia cellulare senza passare dalla rete telefonica tradizionale, ancora largamente insufficiente anche in molte capitali africane.
Il rapporto tra Cina e Africa, quindi, è interessante per entrambe le parti. Ed è questa situazione che il documento programmatico pubblicato il 12 gennaio fotografa. Il “nuovo modello di partnership strategica” che il ‘libro bianco’ propone non tralascia nessun possibile ambito di cooperazione: politica, economica, sociale, infrastrutturale, culturale e via dicendo, per un totale di circa trenta diversi settori. E non c’è dubbio che ai paesi africani la proposta possa apparire allettante, tanto più che Pechino non pone condizioni politiche. O, meglio, ne pone solo una, facile da rispettare: aderire al principio di “una sola Cina”, rifiutando di avere relazioni ufficiali con Taiwan. Una scelta che, a conti fatti, evidentemente è conveniente fare, se la stragrande maggioranza dei paesi africani preferisce Pechino a Taipei.
L’ultimo in ordine di tempo a rompere con Taiwan per riaprire i rapporti diplomatici con la Cina popolare è stato il Senegal, che è stato subito premiato. Nella sua visita in Africa di metà gennaio il ministro degli Esteri Li Zhaoxing ha fatto tappa anche a Dakar, dove ha dichiarato che la Cina vuole espandere la cooperazione tra i due paesi in qualsiasi campo, dall’agricoltura all’istruzione e dalla sanità alla cultura. Nel frattempo, ha firmato assieme alla sua controparte senegalese un accordo di cooperazione economica e tecnologica.
La mancanza di condizioni politiche, one China principle escluso, è ribadita anche dall’enfasi che la Cina pone a ogni buona occasione sul mutuo rispetto dei confini territoriali, della non aggressione e (soprattutto) della non interferenza negli affari interni dei singoli paesi. Il che significa non fare questioni né porre condizioni di nessun tipo neanche a governi non democratici, violatori dei diritti umani o altamente corrotti. L’esempio sudanese non è l’unico neanche in questo senso. La politica dello “sguardo a oriente” inaugurata da Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, in risposta al progressivo boicottaggio e isolamento internazionale con cui i paesi occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno reagito alle ripetute frodi elettorali e alla violenza usata dal regime per espropriare i settlers bianchi ha ricevuto un caloroso benvenuto a Pechino. Non solo a parole: quando nel luglio 2005 Mugabe si è recato in visita ufficiale in Cina, ha ricevuto tutti gli onori riservati a un capo di Stato, ma non è neanche stato lasciato tornare a casa a mani vuote. In cambio di concessioni minerarie, Mugabe ha ottenuto prestiti (tra cui uno da sei milioni di dollari da usare per importare mais) e accordi commerciali, un’iniezione vitale per l’asfittica economia di un paese ormai ridotto alla fame, privato da qualche anno degli aiuti economici occidentali e dell’assistenza finanziaria di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Il radicale cambiamento nell’orientamento della politica estera del paese si è rispecchiato anche nelle scelte del ministero dell’Istruzione, che nel gennaio 2006, in occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico e accademico, ha annunciato che il cinese diventerà materia di studio in tutte le università del paese, per favorire il turismo e gli scambi commerciali con Pechino .
Le cose non sono andate molto diversamente neanche in Angola, il secondo produttore di petrolio africano dopo la Nigeria, che sta risorgendo dalle sue ceneri dopo una guerra civile quasi trentennale. Il forte indebitamento del paese e la totale mancanza di trasparenza, che — non è un mistero — nasconde un sistema altamente corrotto, impediscono di fatto all’Angola di accedere all’assistenza finanziaria del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, come anche ai crediti dei principali paesi donatori. Il vuoto che le regole del club di Parigi hanno creato è stato prontamente riempito dalla Cina: nel marzo 2004 la banca cinese Eximbank ha concesso al governo di Luanda una linea di credito di più di due miliardi di dollari, da utilizzare, progetto dopo progetto, per ricostruire le infrastrutture (rete elettrica, strade, ponti, aeroporti, ferrovie e così via) del paese devastato dalla guerra. In realtà, però, i dettagli dell’accordo non sono mai stati resi noti. Ciò che si sa è che il credito ricevuto viene ripagato con forniture di petrolio alla Cina. Tanto che le importazioni del greggio angolano sono andate crescendo, fino ad arrivare a toccare, nei mesi di gennaio e febbraio 2006, 456mila barili al giorno, una cifra che basta a coprire il 15% del fabbisogno giornaliero cinese. L’Angola è così diventata il principale fornitore di greggio di Pechino, superando non solo il Sudan, finora il principale fornitore africano della Cina, ma anche Iraq e Arabia Saudita .
Legami economici e commerciali, investimenti nelle infrastrutture, cooperazione tecnica e militare, copertura politica senza fare domande: sono questi i punti di forza del rapporto di crescente amicizia tra la Cina e l’Africa. E non manca neanche l’elemento più strettamente diplomatico. A cinquant’anni dall’instaurazione delle prime relazioni diplomatiche tra Pechino e un paese africano, la Cina si pone quindi come reale alternativa al monopolio Usa. Ed è ormai chiaro anche per Washington che non si tratta di una concorrenza che riguardi solo l’ambito economico. Un’inequivocabile offerta di sostegno in ambito internazionale arriva anche dal documento programmatico del 12 gennaio, che afferma che “la Cina rafforzerà la cooperazione con l’Africa all’interno delle Nazioni Unite e in altri sistemi multilaterali, assicurando sostegno alle giuste richieste reciproche e alle posizioni ragionevoli”, mentre in un altro passaggio, i policy-makers di Pechino ribadiscono la disponibilità di “continuare a rinforzare la solidarietà e la cooperazione con i paesi africani nell’arena internazionale e a cercare posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali” .
Una tale apertura di credito, questa volta politico, non è certo destinata a passare inosservata agli occhi di molti regimi africani, visto che la copertura diplomatica in tutte le piazze che contano, a partire dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu di cui Pechino è uno dei membri con diritto di veto, non è un elemento di poco conto per governi che, in molti casi, hanno parecchie cose da nascondere. E i paesi africani sanno che la Cina non promette invano. Anche in questo caso è l’esempio sudanese a fare scuola. Con l’escalation della guerra in Darfur, nell’estate 2004, gli Stati Uniti hanno ripetutamente proposto al Consiglio di Sicurezza di adottare delle sanzioni economiche contro il Sudan per indurlo a più miti consigli. Si era parlato di un embargo sul settore petrolifero, su quello degli armamenti e di misure finanziarie mirate contro i principali esponenti del governo. L’adozione di qualsiasi sanzione, anche la più leggera, è stata però bloccata dalla minaccia di veto della Cina, pronta a difendere a spada tratta quello che al momento era ancora il suo principale fornitore di greggio in Africa.
Dopo molti tira e molla, il 30 luglio 2004 il Consiglio di Sicurezza ha adottato, con 13 voti a favore ma con l’astensione di Cina e Pakistan, la risoluzione 1556 che concedeva a Khartum trenta giorni di tempo per riportare l’ordine in Darfur e imbrigliare le milizie janjawid, i “diavoli a cavallo” diventati tristemente famosi negli ultimi anni per le atrocità commesse ai danni delle popolazioni africane della regione, promettendo in caso di mancato adempimento “ulteriori azioni, incluse quelle previste dall’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite”. Khartum ha risposto alla minaccia con deboli misure di facciata, che non hanno di fatto cambiato la situazione sul campo. Il governo sudanese era sicuro di avere le spalle coperte dall’appoggio della Cina e, in seconda istanza, della Russia, dalle cui società il Sudan ha spesso acquistato armi pesanti. Così in effetti è stato: nonostante l’inadempienza di Khartum, in settembre il Consiglio di Sicurezza ha adottato un’altra risoluzione di contenuto simile a quello della 1556, senza però prevedere alcuna delle “misure ulteriori” annunciate a fine luglio.
Anche le velate minacce dell’estate sono state alla fine sacrificate sull’altare degli equilibri diplomatici in seno all’Onu, sempre per la strenua opposizione della Cina a ogni misura anche blandamente punitiva contro Khartum. Alla fine di una molto pubblicizzata riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza a Nairobi, la quarta fuori dal Palazzo di Vetro in tutta la storia dell’organizzazione, il 19 novembre 2004 è stata adottata all’unanimità una risoluzione totalmente “annacquata”, da cui era stato eliminato qualsiasi riferimento a eventuali future sanzioni, mentre in Darfur la situazione non accennava a migliorare.
[fonte: n.3/2006 della rivista di geopolitica LIMES]