di Alessandra Daniele
Il primo anniversario della morte di Robert Sheckley è passato da poco, ma consolatorie celebrazioni ufficiali non gli si addicono. Non c’è niente di consolatorio nella sua narrativa. Al contrario è beffarda, sarcastica, iconoclasta, mirata allo spiazzamento cosmico del lettore. Fatta per smontare l’universo a partire dalla superficie delle convenzioni sociali, fino alle fondamenta delle leggi fisiche. Dimostrare l’assurdità di qualsiasi certezza di comodo, strappando la maschera della realtà per svelare l’inquietante nulla che la indossa.
Robert Sheckley esordisce negli anni ’50 nel settore della sf sociologica — che fa capo soprattutto alla rivista “Galaxy” di Horace Gold — e contribuisce decisamente a edificarne la grandezza. I suoi racconti sono proiettili infallibili, e inchiodano con la forza micidiale del paradosso e dell’ironia visionaria tutte le principali tendenze socio-politiche sviluppatesi dai suoi ai nostri tempi, e le eterne questioni etico-filosofiche che sottendono.
Il protagonista di Calore (“Warm”, 1953) borghese medio, normale fino alla banalità, comincia per caso a decostruire il suo piccolo mondo da un dettaglio trascurabile, e arriva a dissolvere l’intero universo, compresa la sua stessa esistenza. I robot-gendarme di Uccello da guardia (“Watchbird”, 1953 ) programmati per uccidere solo i potenziali assassini, applicano alla lettera la direttiva, e considerando un assassinio anche la soppressione di un microbo cominciano a sterminare ogni forma di vita sulla terra. Il pianeta de La montagna senza nome (“The mountain without a name”, 1955) rigetta la colonizzazione degli umani che ne devastano l’ecosistema, producendo terremoti e tsunami per spazzarli via. Ne I mostri (“The Monsters”, 1953) la pretenziosa ignoranza di un altro gruppo di colonizzatori terrestri soccombe invece alle implacabili tradizioni d’una cultura aliena che li considera mostri invasori. I cittadini de L’Accademia (“The Academy”, 1954) soggiacciono a uno “Stato di polizia psichiatrica” che li obbliga continuamente a certificare la loro salute mentale, trascinandoli al rincoglionimento farmacologico coatto. I concorrenti tv di The Prize of Peril (1958) per vincere devono ammazzarsi a vicenda. Nel suo famosissimo La decima vittima (“The Seventh Victim”, 1953 — racconto; “The 10th Victim”, 1965 – romanzo) l’intero mondo diventa un game-show nel quale uomini e donne si danno la caccia scambiandosi i ruoli di vittima e killer, trasformando così ogni incontro sociale, ogni rapporto umano in una potenziale insidia mortale che giustifica la paranoia come stile di vita.
Impossibile non riconoscere la realtà sezionata dalla sf caustica e ficcante di Sheckley: è la nostra, oggi più che mai. E siamo noi quei suoi astronauti di Mai toccato da mani umane (“Untouched by human hands”, 1952) perduti in un magazzino di viveri alieni, misteriosi, transgenici, dalle etichette invitanti quanto incomprensibili, dove cedere alla fame può significare essere mangiato da ciò che vorresti mangiare.
Nel 1965 La decima vittima diventa un ottimo film di Elio Petri, nel quale un Mastroianni sornione e una rapinosa Ursula Andress, circondati da geniali scenografie da fumetto, ricostruiscono efficacemente lo spirito della provocazione di Sheckley nonostante l’inevitabile parziale “tradimento”del testo.
Negli anni ’60-’70, a causa soprattutto della crisi delle riviste di genere, Sheckley si allontana dalla forma narrativa che gli è più congeniale, quella del racconto, per scrivere vari romanzi che sono però in realtà costituiti dalla concatenazione d’una serie di spunti diversi. Odissee interplanetarie immaginose, picaresche e psichedeliche, a tratti geniali, a volte ridondanti e farsesche. La più emblematica è Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton (“The Alchemical Marriage of Alistair Crompton”, 1978), descrizione di un universo nel quale la scissione psichica della personalità può diventare fisica. Quattro forme di schizofrenia associate alle quattro fasi alchemiche, e a quattro diverse bizzarre società future, diventano così l’occasione per una visionaria e barocca satira della società americana (e occidentale) scissa fra ossessivo efficientismo manageriale, vacuo edonismo patinato, ferina brama colonialista, e svampito delirio new age. Quando il protagonista sarà riuscito a ritrovare e reintegrare tutte le sue parti, però, scoprirà che l’equilibrio che sognava di recuperare in realtà somiglia molto al nulla assoluto.
Sono gli anni nei quali la sf percorre anche le strade della sperimentazione stilistica e contenutistica, alla quale Sheckley contribuirà soprattutto con Opzioni (“Options”, 1975), una caleidoscopica miscela di realtà parallele, onirica, destrutturata e spiazzante, che farà scuola. Col tempo anche Sheckley si “scinde”, produce due serie di thriller (il ciclo di Stephen Dain, e quello di Hob Draconian), collabora con il collega Robert Zelazny a una saga fanta-satirica (Millennial Contest, 1991-1995), viaggia molto, continua a sperimentare, estremizza la sua vena farsesca e paradossale, e ricomincia a scrivere racconti. Però non sempre esprime il suo meglio, e lavora spesso pressato dalle necessità economiche, che ammette con la consueta autoironia capace di rendere godibili certe sue interviste quasi quanto la sua narrativa. Alla domanda di Delos sul perché avesse scelto di scrivere sf invece di qualcos’altro, Sheckley rispondeva così: “Come dice Cab Calloway ‘Non vale niente, se non ha swing.’ La fantascienza aveva quel qualcosa in più, quel particolare swing, e io l’ho preso al volo a meraviglia”. E altrettanto meravigliosamente ha saputo trasmetterlo ai suoi lettori.