di Claudia Andretta
La luce cristallina e il vento frizzante di primavera mi solleticano il viso, e fanno ondeggiare i fili d’erba sui quali cammino.
I miei passi non scricchiolano più, adesso che l’erba ha ceduto spazio al terreno. Quando lo calpesto, istintivamente rallento, e in capo a pochi secondi mi rendo conto di aver trattenuto il respiro.
Questo è un luogo sacro, penso. Normale che io lo tratti con deferenza. Con devozione.
Avanzo piano, cosciente e vagamente rassicurata della presenza di lui alle mie spalle, che mi segue silenzioso, fino a che non sono immersa completamente nell’ombra dell’albero davanti a me – e allora rimane a debita distanza, come se fosse intimorito. O se riservasse a questo luogo un timoroso rispetto.
Guardo in alto, alle fronde degli alberi che si confondono tra loro, e osservo le foglie oscillare dolcemente, trasportate dal vento, e proiettare le loro ombre sul terreno e su di me. Sul piccolo santuario davanti al quale, ora, m’inchino.
– Ciao sorella – dico solo.
La mia voce esce dalle mie labbra poco più che un sussurro sommesso, pregno di sentimenti repressi.
Inclino la testa e abbasso lo sguardo, e la frangia mi cade davanti agli occhi, sipario castano che cela il lucore di lacrime nascenti. E per un istante rimpiango che tutta la lunghezza dei miei capelli sia trattenuta sulla mia schiena da una lunga treccia stretta in un nastro nero: perché potrei nascondere la mia tristezza e barricare il mio dolore, dietro questa coltre sottile e liscia.
Invece alzo il viso rivolgendolo al cielo, ed inspiro profondamente, chiudendo gli occhi.
Inspiro l’aria fresca e profumata per riempire d’ossigeno i polmoni e controllare più facilmente le emozioni.
– Hai visto?
Lo chiedo a lei, e al mondo silenzioso che mi circonda, con la voce che trema contro la mia volontà.
– Sono venuta a trovarti.
E solo adesso mi accorgo della fragilità che mi cresce dentro, e che minaccia di frantumare tutte le mie ossa ed ogni molecola di me in cristalli di luce sottile.
Le mie gambe non hanno la forza di sostenermi, e la mia mente mi chiede un ulteriore gesto di rispetto, per questo santuario alla mia Ranya.
*****
– Ieriel, sta’ un po’ ferma! – disse Ranya, con una risata nella voce, mentre continuava ad intrecciare i capelli castani di sua sorella minore con i piccoli fiori colti quella mattina.
Erano già dieci minuti che se ne stava inginocchiata dietro di lei, nel tentativo di comporre un’acconciatura che la soddisfacesse con i capelli lisci della sua irrequieta sorellina.
– Oh, ma Ranya! È più di mezz’ora che sono qui ferma. Voglio raggiungere gli altri! – si lagnò Ieriel con voce squillante, piegando e distendendo le ginocchia nella smania di ottenere la grazia di essere liberata da quello che, per lei, era un vero supplizio.
La mamma l’aveva già obbligata a indossare un candido abito bianco e viola chiaro, quel giorno, e lei aveva accettato solo perché sapeva che le ci era voluto tutto l’anno trascorso dall’ultima festa di Primavera, per ricamarlo, e non voleva farle dispiacere.
Ma ora anche i fiori tra i capelli! Per lei era davvero troppo.
Ignorando volutamente i moti d’impazienza della sorellina, Ranya continuava intanto a intrecciare i suoi capelli, facendo scorrere le ciocche lisce tra le sue dita come una carezza affettuosa. Il sorriso non lasciava il suo volto.
– Non ti sembra di esagerare? – chiese a Ieriel, ridendo. – E poi hai otto anni, ormai. Stai crescendo, ed è ora che incominci a vestirti come una donna – disse, più seria.
– E – fece poi, troncando la nascente protesta di Ieriel, mettendole le mani aperte sui fianchi e voltandola delicatamente verso di sé – la festa di primavera mi sembra una buona occasione per iniziare. Non credi? – e la gratificò di un altro radioso sorriso.
In un primo momento Ieriel ricambiò con il suo sorriso sdentato, osservando il viso più maturo della sorella tredicenne, dicendosi che era davvero bella. Poi acquisì uno sguardo che Ranya non seppe subito interpretare: si morse il labbro inferiore e aggrottò le sopracciglia, come se fosse stata incerta su cosa dire o se dirla.
– Immagino… – si azzardò alla fine Ieriel – che non potrò portare con me Khristalia… – sputò fuori, tutto d’un fiato.
Ranya scoppiò in una genuina risata, gettando la testa indietro e coprendosi la bocca con una mano.
Khristalia era la spada di Ieriel: un’arma corta e leggera che la ragazzina aveva fatto forgiare dal mastro fabbro del loro villaggio – Çaragon, dove erano nate e cresciute- pagandola con i risparmi accumulati come ricompense per qualche favore fatto di tanto in tanto alle vecchiette di paese. Ci era così affezionata che non la lasciava neanche più un istante; e se prima la mostrava solo alle lezioni di scherma, adesso era diventata quasi un gioiello da ostentare, appesa al fianco in ogni momento.
Quando si avvide dell’espressione imbarazzata di sua sorella, Ranya smise di ridere.
– E va bene. – concesse alla fine, con una voce che la fece sembrare più grande della sua età e con un dolce sorriso sulle labbra. — Va’ a recuperare Khristalia e poi raggiungi gli altri.
Ieriel si aprì in un rumoroso: – Grazie sorella!
Dopo il quale si voltò e afferrò le gonne ricamate, per sollevarle quel tanto che bastava da consentirle di spiccare una corsa e allontanarsi in fretta.
*****
– Avrei dovuto darti un bacio, prima di correre via. E abbracciarti, e ringraziarti per le trecce.
Inconsciamente, afferro lo spessore della coda in cui sono raccolti i miei capelli, e portandoli su una spalla li liscio con le dita per un istante.
Poi li riporto dietro la mia schiena, dov’erano prima.
Tengo ancora la testa bassa, perché ho paura che la luce riflessa dalla pietra possa ferire i miei occhi. O semplicemente non ho la forza di affrontarne la vista.
Non ancora, almeno. Riesco a guardare la pietra che porta inciso il nome di Ranya, e che sta a guardia di questo sepolcro.
Così lontano da casa.
Così vicino a dove lei se n’è andata.
– Non erano tempi tali che io potessi anche solo avere l’incubo, una notte, di perderti per sempre. Allora la vita scorreva tranquilla, e la mia peggior pena era non poter uscire con i miei compagni d’arme dell’infanzia a causa di un raffreddore, o dover indossare un abitino ricamato per il giorno dell’Equinozio.
Scuoto la testa per un breve istante.
– Né sapevo ancora che non sarebbero passati che pochi anni perché io e te fossimo separate, dalla vita e dagli eventi. E dalle nostre stesse scelte.
Ero troppo giovane, allora, e troppo ingenua, per non pensare che tu saresti rimasta accanto a me per sempre, o che comunque ci saresti stata per il tempo sufficiente a vedermi grande.
Un sospiro.
E poi lo faccio: alzo la testa, e guardo la pietra.
Vedo il suo nome, RANYA, scritto in caratteri irregolari dalla spada che porto al fianco da sempre -da prima di quella Festa di Primavera.
E riesco ad affrontarne la vista, riesco a parlare con lei. A sentirla vicina, nonostante la patina di gelo e di nebbia che separa i nostri due mondi.
– Ora, che sono all’ombra di un albero, accanto a me solo lo spettro di ricordi e della tua presenza, mi viene in mente quel giorno di fine estate, quando la piccola Ieriel che fui disse di non credere alla Magia.
*****
Era una soleggiata metà pomeriggio, e gli ultimi sprazzi della stagione calda salutavano con i raggi dorati del sole e con l’indugiare del calore nell’aria.
Ieriel aveva appena rallentato la corsa che da casa sua l’aveva portata a ovest del villaggio di Çaragon, alla radura che si apriva sulle terre incontaminate al centro-nord dell’Ilendar.
Circondata dagli alberi, si guardò intorno, per scorgere dopo poco la sagoma graziosa di sua sorella Ranya, seduta in terra all’ombra di un albero, le gambe raccolte sotto di sé e l’abito verde chiaro drappeggiato attorno a esse. Aveva appoggiato un libro sulle ginocchia, lo sosteneva con una mano e leggeva attentamente. Ieriel ebbe bisogno di cambiare prospettiva, dall’albero dietro al quale se ne stava, per poter confermare la sua aspettativa: sua sorella stava studiando.
Fece altri due passi sulla sinistra, il più silenziosamente possibile, per poter continuare a scrutare Ranya, assorta nella sua concentrazione, senza che lei se ne accorgesse, guardinga come solo una coraggiosa dodicenne sa essere.
Voleva prendere tutto il tempo possibile: a dispetto della risolutezza che aveva ostentato con sua madre, poco prima, quando le aveva chiesto dove poteva trovare Ranya, poiché doveva assolutamente e urgentemente parlare con lei, ora non sapeva come fare ad introdurre la conversazione senza scadere nel melodrammatico e ferire il suo proprio orgoglio, o diventare aggressiva e dire cose delle quali si sarebbe pentita.
– Per quanto tempo ancora hai intenzione di rimanere lì, Ieriel?
La voce di sua sorella interruppe le sue elucubrazioni: era stata scoperta.
Uscì dall’ombra protettiva dell’albero, e si diresse a piccoli, imbarazzati passi verso Ranya, che ancora sedeva placidamente, il libro aperto tra le mani.
– Ciao sorella – disse Ieriel una volta al suo fianco, timidamente e sottovoce. – Perdonami se ti ho disturbata…-
Ranya sorrise dolcemente; chiuse il libro che aveva tra le mani, piegando un angolo di una pagina per non perdere il segno, e appoggiò una mano per terra accanto a sé, facendo cenno a sua sorella. – Siediti vicino a me – le disse, con lo stesso sorriso tenero, picchiettando sull’erba con la mano aperta.
In silenzio, Ieriel la raggiunse: si sedette vicino a Ranya, portandosi le ginocchia al petto, sistemando Khristalia al suo fianco in modo che non le desse fastidio, e si abbracciò le gambe. Appoggiò il mento alle braccia, mentre guardava le pieghe candide delle gonne di Ranya, sistemate morbidamente intorno alle sue gambe e sull’erba.
Lei e sua sorella erano molto diverse, pensò con un sospiro: bastava guardare il loro modo di vestire. E se una volta l’anno, alla Festa di Primavera, Ieriel si concedeva di indossare abiti finemente ricamati dalle mani sapienti della loro madre, per tutto il resto dei giorni dell’anno solare andava in giro con brache di cuoio e una tunica lunga fino ai fianchi, stretta in vita da una cintura, la sua fedele Khristalia pendente al fianco destro.
Oggi, Ieriel indossava calzoni di cuoio marrone e una tunica verde, di una tonalità più scura dell’abito di sua sorella, sotto la quale iniziavano a far capolino, timide, le forme che sarebbero divenute quelle di una donna.
Dopo lunghi istanti di silenzio, durante i quali Ranya aveva ripreso a leggere silenziosamente, Ieriel alzò la testa, a guardare il viso dai tratti delicati incorniciato dai chiari capelli color rame di sua sorella.
– Perché vuoi entrare al Tempio della Capitale? – chiese, diretta come solo i bambini sanno essere.
Sempre sorridente, Ranya richiuse lentamente il libro e, stavolta, lo poggiò sull’erba, alla sua destra; dopodiché tornò a guardare sua sorella.
– Perché, – disse, con un tono per metà canzonatorio e per metà affettuoso, calcando la parola con una carezza sulla testa di Ieriel – voglio diventare Sacerdotessa di Keliyah e Bashemath, i nostri Dei Sposi.
– Sì, ma perché? – ripeté Ieriel, testarda.
Ranya non le aveva detto nulla che non sapesse già. Detestava l’idea che in capo a un ciclo lunare sua sorella sarebbe partita nella grande Sintoriah, Capitale dell’Ilendar, e aveva bisogno di capire per quale ragione volesse lasciarla.
Ranya sospirò e abbassò per un istante lo sguardo sulle sue gambe piegate: avrebbe dovuto aspettarsi che i giri di parole non avrebbero funzionato, con sua sorella, che sin da bambina aveva abituato se stessa alla disciplina delle armi. E, anche se era ancora troppo piccola per essere ritenuta disciplinata come un soldato e diretta come una spadaccina, non si lasciava comunque abbindolare facilmente da giochetti verbali di sorta.
E Ranya seppe di doverle parlare in verità.
– Beh, mettiamola in questo modo. – La guardò negli occhi, recuperando il sorriso rassicurante che era la sua arma, nella vita. – Voglio imparare quanto possibile, qui in Ilendar, sulla Magia.
Fece una piccola pausa, durante la quale gettò gli occhi al cielo terso e azzurro, percorso solo da qualche nuvola bianca e paffuta.
– E’ una cosa che mi ha sempre affascinata, che avrei sempre voluto poter conoscere – disse trasognata.
Quell’idilliaco volo pindarico fu interrotto dalla risata di Ieriel: la risata di una bambina, ancora, con una nota nella voce che faceva presagire che qualcosa stava già cambiando dentro di lei, attraversando il crocevia dall’infanzia all’adolescenza.
– Non puoi parlare sul serio, Ranya! – disse, irruente come suo uso.
E tuttavia quando guardò negli occhi sua sorella si rese conto di aver mancato di delicatezza e di rispetto per i suoi sentimenti. Si morse un labbro e cambiò espressione del viso, da derisoria a contrita e interrogativa.
– Volevo dire, sorella, che… la Magia non esiste – concluse, con un’aria che aveva dello strepitoso, tanto sembrava quella di un adulto che annuncia con cordoglio a un bambino che qualcosa in cui crede fermamente non è che un’invenzione.
Proprio per questa ragione Ranya non si rattristò, di quelle parole e di quelle precedenti, ma acquisì lo stesso sorriso dolce e sognante di poco prima.
– Tecnicamente, la Magia esiste, Ieriel – disse, puntigliosa. – Essa ha lasciato l’Ilendar e tutte le Terre di Diaphane cento e cento anni fa, relegata nel Mondo al di là delle montagne e delle nebbie – così dice questo libro. – Accennò alla sua destra all’ampio volume che stava leggendo quando la sua sorellina l’aveva raggiunta.
Ieriel sembrò prendere per buona quella risposta, o quantomeno non ebbe di che poter contrastare un testo scritto, e preferì tacere. Si rannicchiò di nuovo, con le ginocchia al petto ed il mento su di esse, meditabonda.
Essere immersa nel silenzio, rotto solo dal fruscio delle foglie trasportate dal vento, era qualcosa che le capitava di rado, lei che impugnava la spada e riempiva le sue orecchie del rumore cozzante dell’acciaio che incontra acciaio, e dei gemiti e degli ansiti della fatica, quando si batteva con i ragazzi del villaggio, o quando si allenava sotto la supervisione del vecchio Caporale Darewin: un soldato in pensione che aveva accettato di darle lezioni di scherma, da alcuni anni a quella parte.
Il silenzio la obbligava ad ascoltare la sua voce interiore.
Non voglio che se ne vada lontano, le diceva adesso quella voce.
Troppo orgogliosa lei, e troppo cresciuta, per verbalizzare quei pensieri.
Ma evidentemente non ce ne fu bisogno.
Evidentemente Ranya aveva ben compreso che tutto quel parlare inclemente di sacerdozio e ridicolizzare l’idea sola dell’esistenza della Magia significava una cosa ben precisa. Perché aprì il braccio sinistro e con quello avvolse sua sorella intorno alle spalle, avvicinandola a sé e stringendola in un abbraccio.
Rimasero così a lungo, strette nel loro affetto e in una sottile, pungente malinconia per l’infanzia terminata, il vento di fine pomeriggio che solleticava la loro pelle e intrecciava i loro capelli dalle sfumature delle foglie d’autunno.
Fu Ranya la prima a rompere il silenzio.
– Suvvia! – disse piano vicino alla guancia di Ieriel, un sorriso nella voce – Benché adesso ti sembri assurda l’idea di lasciare Çaragon, anche tu a sedici anni vorrai andare via di qui e trovare la tua strada nella vita, e imparare qualcosa che ti piace.
Passarono pochi secondi di silenzio, dopo quelle parole.
E la tristezza era stata probabilmente dimenticata in favore dell’imbarazzo che solitamente si accompagna alle rivelazioni, quando Ieriel, in maniera del tutto inaspettata, disse:
– Io lo so già dove voglio andare, quando avrò sedici anni.
Sollevò la testa, per incontrare i grandi occhi verdi di sua sorella Ranya, spalancati per la sorpresa.
Ieriel sorrideva con tutta la luminosa spensieratezza dei suoi dodici anni, quando disse:
– Voglio andare al Licevm, l’Accademia d’Armi dell’Ilendar.
*****
– Ci sono cose che i monarchi nascondono al loro popolo, non è vero, sorella? – chiedo, certa che le lettere del suo nome qui incise, sulla pietra che è davanti a me, risponderanno con il gioco di luci e ombre del sole e delle foglie e delle nuvole che percorrono morbide il cielo sopra di me.
– Si diceva di Dilène Howthrone che combattesse come un elfo, te ne rammenti? – Sorrido, al ricordo, per uno e un solo istante.
– Non è più solo un modo di dire, né una frase detta con un’espressione sorpresa nel constatare che la Principessa ereditiera si batte con abilità non umane. Ora è un sospetto. Mai confermato, certo: ma neppure mai smentito.
Mi rendo conto di aver acquisito il mio tono tecnico di veterana, per i pochi secondi in cui ho pronunciato queste parole.
– Se gli Howthrone avessero condiviso la verità su come arrivare alle Terre del Crepuscolo, il Mondo al di là delle montagne e delle nebbie, forse chi, come te, desiderava conoscere la Magia, avrebbe realizzato il suo desiderio.
Abbasso lo sguardo sulle mie ginocchia, adesso, perché di nuovo la disperazione rischia di impossessarsi di me con tutta la sua dolorosa forza.
– Forse adesso saresti ancora viva.
Mi costringo a dirlo: tiro a forza queste parole fuori da me stessa, perché rischiano di soffocarmi, incastrate nella mia gola, brucianti e testarde.
– Se tu avessi potuto arrivare lì dove la Magia risiede, non mi avresti mai raggiunta.
*****
Ieriel stava tracciando a grandi falcate l’ampio diametro della Sala Grande, la stanza ottagonale che era il principale crocevia e punto d’incontro, al Licevm.
A sei delle otto facce del poligono corrispondeva l’accesso a uno dei sei cortili maggiori, dove si tenevano gli allenamenti. Le altre due uscite, le due restanti facce dell’ottagono, davano rispettivamente sulla Sala delle Udienze e del Ricevimento, e sugli intricati corridoi che portavano ai dormitori e alla sala mensa.
Ieriel si stava dirigendo da uno dei cortili alla Sala delle Udienze, ove era stata fatta convocare. Ora percorreva nervosamente i lunghi metri della Sala Grande, zigzagando tra la gente che l’affollava a ogni ora del giorno.
Si domandava chi, per i cinque figli di Bashemath e Keliyah!, avesse deciso di interrompere gli allenamenti di scherma – da sempre i suoi preferiti – tenuti dal giovane Tenente Jael Nerik. Non aspettava nessuna visita, per quanto ne sapeva: le lettere mensili che scambiava con sua sorella e con sua madre erano regolarmente giunte molti giorni prima, e lei aveva provveduto a far spedire le sue risposte. Non sapeva cosa aspettarsi, né immaginava chi avrebbe trovato dietro la porta della Sala delle Udienze. Si chiese per un istante, con una morsa allo stomaco, se non dovesse prepararsi a qualche cattiva notizia – benché non lo credesse.
Sua madre stava bene, e Ieriel ringraziava gli dei ogni giorno, per questo. Stava vivendo gli anni della sua mezz’età nella pace di Çaragon, mettendo a disposizione dei compaesani le sue abilità di sarta. Non aveva mai molto da raccontarle, nelle sue lettere, poiché la vita al villaggio scorreva sempre tranquilla e spensierata. Le uniche notizie degne di nota riguardavano le nascite di bambini o i decessi degli anziani. Ieriel rideva sempre quando sua madre tentava di presentarle una descrizione lusinghiera di questo o quel giovanotto, che avrebbe potuto piacerle o che aveva la sua stessa età o i suoi stessi interessi. Convinta com’era che non si sarebbe mai sposata – e probabilmente mai neppure innamorata – Ieriel non prendeva mai troppo sul serio quel tipo di discorsi, e fingeva di interpretarli unicamente come espressione della malinconia che sua madre sentiva di lei, e del desiderio di riaverla a casa.
In quanto al resto, nelle sue missive la mamma si limitava a rispondere a quanto Ieriel le raccontava della vita accademica: dei suoi allenamenti, dei dolori, della fatica, delle soddisfazioni, degli Ufficiali e di ogni altro piccolo particolare relativo al Licevm di cui non parlava con nessun altro.
In quanto a Ranya, sapeva che le cose, per sua sorella maggiore, non andavano nel modo più felice.
La giovane, ormai ventunenne, viveva ormai da cinque lunghi anni a Sintoriah, nel Santuario degli dei dell’Ilendar, un tempo grata per le briciole di conoscenza magica che le venivano insegnate, poi con un crescente senso di frustrazione per l’acquisita consapevolezza che le briciole non sarebbero diventate pagnotta, con il passare del tempo.
Anche l’idea di aver giurato di rimanere casta e celibe per tutto il tempo in cui avrebbe indossato le vesti di Novizia e di Sacerdotessa aveva iniziato a starle stretta, da poco più di un anno a quella parte, poiché la conoscenza di un giovane della bassa nobiltà in visita alla Capitale l’aveva spinta a pensare a un amore diverso da quello meramente mistico per gli dei sposi.
Ieriel era stata a lungo silenziosamente angustiata, nel sapere sua sorella innamorata, e impossibilitata a prendere qualunque tipo d’impegno futuro con l’uomo che era l’oggetto del suo amore. Poi, da un mese all’altro, Ranya non aveva più parlato di lui, nelle sue lettere, e lei non aveva osato scrivere una sola parola che lo riguardasse, nel timore di riaprire ferite in lenta guarigione.
Le ultime notizie che Ieriel aveva ricevuto da sua sorella riguardavano l’investitura a Sacerdotessa, che doveva essere avvenuta qualche giorno prima, secondo i suoi calcoli.
O tra qualche giorno, pensò, di nuovo persa tra conte lunari e solari i cui cicli ancora le risultavano incomprensibili, e di cui invece sua sorella maggiore le scriveva con la scioltezza e la conoscenza tipiche della sua casta.
Scosse la testa tra sé per scacciare i pensieri, quando afferrò la grossa maniglia della porta che dava accesso alla Sala delle Udienze; la spinse in avanti con poca fatica, benché pesasse notevolmente: i mesi trascorsi in Accademia l’avevano abituata alle fatiche, e ora il suo corpo era allenato allo sforzo.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle senza il minimo cigolio o tonfo, rimbalzando sui propri cardini, Ieriel aveva già spalancato gli occhi, incredula all’immagine che proiettavano al suo cervello.
Davanti a lei, a non più di dieci passi di distanza, in piedi accanto a una delle panche di legno della Sala, se ne stava una donna, austera e bellissima nella lunga veste bianca da Sacerdotessa, le gonne finemente ricamate e le maniche tinte di cremisi, numerosi e tintinnanti braccialetti d’argento infilati ai polsi, una lunga collana di filigrana a tracciare i profili del collo eburneo e della scollatura, e una cintura di fili di platino intrecciati a trattenere in vita la veste, un corto pugnale foderato in una guaina d’avorio a penderle dal fianco sinistro.
I suoi capelli erano del colore dorato delle prime foglie autunnali, e le ricadevano lunghi e lisci sulla schiena, trattenuti sulle tempie da sottilissimi nastri d’argento.
– Ranya… – ansimò Ieriel, rimasta totalmente senza fiato.
Per lunghi istanti aveva creduto che Keliyah in persona, la loro bellissima e austera dea dai capelli color del miele, le fosse apparsa nella sua forma fisica.
Battendo i grandi occhi castani, arrancando due passi in avanti, ancora intontita dalla sorpresa e dall’estasi della luce che sembrava emanare da lei, si era resa conto che si trattava di sua sorella maggiore: la ventunenne Ranya, che finalmente indossava le vesti di Sacerdotessa di Bashemath e Keliyah.
E in un secondo il turbamento e lo stupore svanirono, dimenticati nei passi della corsa di Ieriel, che dopo il tempo di un battito di ciglia già stringeva in un abbraccio sua sorella. Lacrime involontarie e non benvenute le rigavano le guance, la sua mano percorreva la lunghezza setosa della chioma color rame.
Quando lei ricambiò l’abbraccio, stringendo la sorella minore intorno alla vita e accarezzandole la schiena, si accorse che Ieriel era più alta di lei di almeno quattro pollici, e che le sue braccia erano salde, intorno a lei, con muscoli forti e scolpiti che premevano contro la sua pelle anche attraverso gli abiti.
Siamo sempre state così diverse, io e lei. Sin da bambine, pensò Ieriel, gli occhi umidi di lacrime, quando si slacciò dall’abbraccio nel quale erano rimaste avvolte per parecchi minuti, ammirando Ranya avvolta dalle candide vesti, la chioma finemente acconciata. Dopo tutti quei mesi al Licevm, era un lusso anche solo guardare dei capelli ben sistemati. Al pensiero, le venne da sorridere, e mentre scambiava i saluti di rito con la sua maggiore, la condusse nei giardini ben curati sui quali si affacciava la Sala delle Udienze.
Mentre passeggiavano lentamente, l’una accanto all’altra, l’odore della primavera in avvicinamento a solleticare i loro sensi, il vento frizzante a soffiare sui loro sorrisi felici, Ieriel si sorprese a sentirsi come mille altre volte nella sua vita, e scoprì di ricordare cosa significasse essere bambina: lei e Ranya, che chiacchieravano sotto i raggi del sole, i loro capelli dalle sfumature delle foglie d’autunno sollevati e intrecciati dal vento, abbigliate in modi così radicalmente differenti, unite dall’affetto e dalle loro stesse diversità.
– Allora sorella, come mai una Sacerdotessa degli Dei Sposi appena investita viene fin quaggiù a trovare un umile soldato? – chiese ad un certo punto Ieriel, sorridendo al volto radioso di sua sorella.
E tuttavia, a quella domanda Ranya perse il sorriso solare che aveva mostrato fino ad allora, e che era sempre stato il suo marchio distintivo. Assunse invece un’aria meditabonda e malinconica, aggravata dalla solennità che era stata inculcata nel suo contegno, negl’anni di noviziato al santuario di Sintoriah.
– In realtà, Ieriel, sono qua per dirti che ho deciso di lasciare il Tempio e le vesti di Sacerdotessa.
Una risposta secca e senza preamboli non era decisamente nello stile di Ranya: eppure quelle parole nude e crude erano uscite proprio dalle sue labbra.
Gli anni e gli eventi l’hanno cambiata, pensò Ieriel, mentre il tono e le parole penetravano la sua mente, facendole comprendere che nessuna obiezione sarebbe stata ammessa, e che la decisione era presa.
– Tornerai a Çaragon dalla mamma? – chiese solo Ieriel dopo lunghi e lenti passi, consapevole che quelle erano le sole parole sensate che avrebbe potuto pronunciare.
Non aveva il diritto di indagare le ragioni di quella decisione, rischiando di scavare dolorosamente in questioni che sua sorella stava probabilmente tentando di seppellire. Alla luce delle disillusioni accumulate da Ranya nell’ultimo anno, comunque, non era difficile per Ieriel immaginare almeno da lontano quali fossero, queste ragioni.
– No. – rispose Ranya, essenziale, scuotendo la testa e fissando i suoi piedi calzati in preziosi sandali dorati, che a ogni passo facevano capolino da dietro le gonne bianche.
– Ci insegnano a usarlo, al Tempio. – disse ad un certo punto Ranya, fermandosi e rompendo il silenzio con il rumore metallico del pugnale che veniva estratto dalla guaina al suo fianco. Ne osservò per alcuni istanti la lama riflettere la timida luce del sole, prima di tornare a fissare sua sorella.
– Ci insegnano a impugnare anche la spada, ma questo non te l’avevo detto. – e accompagnò le sue parole con un sorriso che non aveva niente di solare e di allegro, e che gelò il sangue nelle vene di Ieriel. Il silenzio che seguì non servì a sciogliere il ghiaccio intorno a loro.
– Vuoi arruolarti. – disse solo la diciassettenne, un groppo in gola, battendosi contro se stessa per scacciare il presagio infausto che, suo malgrado, le era salito dal cuore.
Tutto ciò che Ranya fece fu annuire.
(1-CONTINUA)