di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
Vittime (II)
Semantica del ‘noi’. Se dunque l’altro, sottoposto al processo di disumanizzazione, non è più percepito come vittima, chi saranno mai le vittime? La risposta sembra semplice: noi. Vero, ma non semplice. Non tutti coloro che non sono l’altro vengono automaticamente promossi al rango di noi. Occorre meritarlo, cioè aderire senza riserve, proprie o altrui, alla casamatta identitaria che nel contempo viene edificata. In Italia si è sempre stati molto esigenti al riguardo.
Com’è noto, durante la prima guerra mondiale – quella patriottica, democratica e liberale che il Presidente Ciampi evoca come un sol uomo ad ogni piè sospinto – morirono al fronte 500.000 soldati, il 90% di loro contadini, visto che «l’ardore guerresco di quella parte dell’élite fondamentale per assicurare l’efficienza militare fu straordinariamente flebile».[22] E se è vero che proprio quell’élite aveva voluto la guerra, è altrettanto giusto riconoscere che per goderne i frutti doveva pur rimanere viva. È per questo che in genere non si recava volentieri sul campo di battaglia: gli ufficiali caduti, in rapporto al numero, furono la metà dei coscritti e un terzo dei loro colleghi tedeschi. L’élite era molto severa nei confronti del soldato, perché l’élite era il noi, il soldato invece no, fino a prova contraria era l’altro. E la prova contraria prevedeva che morisse, o almeno si procurasse una grave mutilazione. Per aiutarlo a superare l’esame patriottico, lo Stato maggiore non lesinò i mezzi: sorvolando sulla dissennata condotta di guerra, l’addestramento inesistente, l’equipaggiamento inadeguato, l’infima qualità dell’artiglieria, la pessima organizzazione causò di per sé la morte per malattia del 30% dei fanti (a fronte di meno del 10% dei tedeschi, nonostante le privazioni dovute al blocco alleato). E poi il terrore: 400.000 gli incriminati per una qualche forma di diserzione, 240.000 i condannati; 4.000 sentenze di morte, di cui 3.000 in contumacia e 750 eseguite; circa 300 le decimazioni e fucilazioni dovute alla «giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe», come prescriveva una circolare del Comando supremo. Infine 100.000 morti in prigionia su 600.000, rispetto ai 20.000 francesi, «che ebbero lo stesso numero di prigionieri (e per un tempo maggiore)». Come mai questa abnorme strage di prigionieri? Gli è che l’élite, rappresentata nella fattispecie da Sonnino, Cadorna e poi Diaz, ritenne che i 600.000 nelle mani del nemico fossero al dunque traditori della Patria, gente che non aveva superato l’esame. Sicché per punirli bloccò la spedizione dei viveri, ostacolò la raccolta fondi per la Croce Rossa e a più riprese impedì finanche l’invio della corrispondenza, ottenendo per di più l’auspicato risultato di atterrire gli uomini nelle trincee: ora sapevano che li avrebbe attesi la morte per fame, se fossero scampati alla mitraglia nemica o alla forca amica. Mentre «la stampa francese aveva sostenuto con energia e successo l’obbligo morale di dare assistenza ai prigionieri», quella italiana, di diritto nell’élite, alle prime obiezioni venne in soccorso del governo e mentendo patriotticamente, ut solet, denunciò «la barbarie austriaca, lasciando circolare la voce che gli austriaci si appropriassero dei rifornimenti spediti dai privati (era falso, ma la voce non fu mai fermata)». Il tasso di mortalità fu più che doppio rispetto a quello dei militari italiani internati dopo l’8 settembre 1943 nei Lager nazisti, dove oltretutto erano esposti all’arbitrio omicida dei carcerieri. Chi ebbe in sorte di far ritorno a casa, «centinaia di migliaia di uomini bisognosi di ogni soccorso», trovò «soltanto disorganizzazione e diffidenza, spesso neppure un rancio caldo. Il Comando supremo, che era giunto a studiare di destinarli in Libia o nei Balcani, si adoperò per chiudere tutti i prigionieri in campi di concentramento per il tempo necessario a vagliare le loro posizioni, nella convinzione che molti dovessero essere denunciati per diserzione».[23] Tuttavia l’indignazione degli alti comandi dovette cedere «all’impossibilità pratica di concludere interrogatori e inchieste in tempi brevi», e dunque non se ne fece nulla. All’inizio del 1919 i prigionieri furono mandati in licenza e reintegrati per il congedo. Nei mesi successivi altri 50.000 morirono per le privazioni patite. Si dovettero attendere più di settant’anni perché ci si ricordasse di loro.[24]
Immunodeficienza. Chi sostenga a qualunque titolo – magari adducendo l’argomento difensivo – e a qualsivoglia grado la necessità e dunque la bontà di una sana cultura militare ne sposa l’essenza, gli intimi valori, che come l’atomo per le molecole sono identici ad ogni latitudine. Una siffatta cultura ha il pregio della massima chiarezza rispetto alla definizione di ‘vittima’, perché postula che l’altro non lo sia mai, e questo a monte del suo eventuale processo di disumanizzazione, compito che come si è visto pertiene piuttosto al laicismo istituzionale. In essere o in divenire, gli Stati per loro natura non possono e non intendono fare a meno di una buona dose di militarismo identitario, che diffondendosi in un corpo per ciò stesso malato tende a occuparne ogni cellula e a circuire strategicamente le difese immunitarie. Si pensi ad esempio alla reiterata locuzione di dissenso nei confronti delle spedizioni belliche: «avete mandato i nostri ragazzi a morire!». Non si dice mai «avete mandato i nostri ragazzi a uccidere!». Oppure all’etimo del sostantivo/aggettivo «militante», che implica che prima o poi alla parola segua la cosa: anche solo in funzione di castrazione prospettica dell’utopia, come mostra il caso di Franco Fortini, che pure non era un Pasolini, ma che pescava nel torbido quando affermava che «il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce».[25]
In ogni caso sul morbo è difficile vigilare. Esso induce al riflesso pavloviano anche i migliori. Così accade spesso a Gino Strada, e non solo a lui, di ricordare «i grandi cambiamenti che in un secolo ha subito il concetto stesso di guerra», considerando implicitamente vittime in grado minore i civili trasformati ope legis in soldati dalla coscrizione obbligatoria: «Dalla prima alla seconda Guerra Mondiale arrivando a oggi, il rapporto fra vittime militari e vittime civili si è invertito: un secolo fa l’85% dei morti in una guerra erano militari e solo il 15% civili, mentre oggi le guerre fanno strage di civili (il 90%)».[26] Inconsapevole e incondizionata, non c’è peggior resa di questa alla cultura militare. Oltretutto contribuisce a offuscare un dato fondamentale per capire la natura politica della guerra moderna: nulla ha superato in disumanità quanto accadde durante il primo conflitto mondiale. Eguagliato sì, ma non superato. Non c’è tassonomia degli orrori che tenga: al di là dell’abisso non si può andare.
Coscrizione. Un paese ha per destino di compiere stragi nella misura in cui si identifica con le proprie forze armate. Lo Stato di Israele non fa eccezione, anzi è un buon esempio. L’equivalente generale, oltre a stabilire il saggio di diritto alla vita, ci aiuta a comprendere: nel 2005 Israele è risultato secondo solo agli Stati Uniti per spese militari pro capite (1.430 $, contro i 1.604 degli USA)[27] e settimo in rapporto al Pil (7,7%, gli USA con il 4.06% sono al ventiseiesimo posto).[28] Ciò indica una spiccata propensione all’uso politico di Tzahàl, l’esercito, confermata del resto dalla Storia e dalla cronaca. Israele è una democrazia e non un’iniqua tirannia alla stregua, poniamo, dell’Arabia Saudita (terza con 1.025 $, 10% del Pil). Si deve quindi presumere che la maggioranza della popolazione sia d’accordo, che non subisca un’imposizione. In effetti la gran parte dei cittadini ha un rapporto molto stretto con le forze armate, vi ha fatto parte e ne ha fiducia. Tuttavia un margine di dubbio rimane. Infatti, se si escludono i cittadini arabi per i quali la leva è facoltativa, tutti, uomini e donne, devono prestare servizio militare – «tappa fondamentale del riconoscimento sociale»[29] –, altrimenti vanno in prigione, poiché «Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza e non prevede servizio civile alternativo. Coloro che rifiutano di arruolarsi sono comunque convocati e inquadrati nell’esercito e subiscono le regole militari. Sono di solito processati per il rifiuto di un ordine militare e quando escono ricevono un nuovo ordine e così via. Rischiano, dunque, in teoria, una sentenza severa (formalmente fino all’età di 45 anni) o sono umiliati e riformati in quanto mentalmente disabili». Occorre anche tenere conto che «il rifiuto di arruolarsi è una decisione difficile, di coscienza appunto, perché nell’ethos israeliano l’esercito è la garanzia per la vita nazionale».[30]
Oggi le voci di chi si oppone al militarismo fondativo dello Stato sono soffocate, assai più che dall’oltranzismo di Destra, da coloro che da Sinistra invocano un pragmatismo moderato, come lo scrittore David Grossman, autorevole promotore di tale posizione.[31] Insieme a Abraham Yehoshua e a Amos Oz, Grossman si è immediatamente schierato a favore della recente guerra contro il Libano. Come tutti i pacifisti perbene, non vedeva l’ora che scoppiasse una «guerra giusta»[32] per poterla appoggiare: «Israele ha lanciato una controffensiva, e ha il pieno diritto di farlo», perché il Libano «è il padrone di casa di Hezbollah ed è dal suo territorio che partono i razzi Katiusha diretti a colpire le città e i villaggi israeliani. Membri di Hezbollah siedono nel Parlamento libanese e partecipano alle decisioni politiche di questo Stato». Certo, «non si può che provare rammarico e angoscia per i residenti di Beirut, di Sidone e di Tripoli costretti a pagare il prezzo degli errori e dell´impotenza del loro governo», chiosa umanitario. Poi fa appello alla ragionevolezza dei bombardati: «C´è forse però qualche cittadino libanese che non capisce che i guerriglieri di Hezbollah hanno cinicamente creato una situazione nella quale Israele non ha altra scelta che reagire con la forza a una provocazione tanto sfacciata?».[33] Passano 25 giorni, muoiono un migliaio di persone, tra cui numerosi israeliani, e il trio si dichiara soddisfatto. Con un appello al governo «preparato […] come se stessero lavorando nell’ufficio legale del Ministero degli Esteri»,[34] il 7 agosto ribadiscono urbi et orbi che «l’operazione militare, di per se stessa, era moralmente giustificata […] e consona alla legittimità secondo le norme internazionali»; stabiliscono l’incommensurabilità tra i morti libanesi e quelli israeliani, poiché «sebbene in questa azione siano disgraziatamente rimasti colpiti molti cittadini del paese nemico, il suo obiettivo non era di per se stesso l’uccisione di civili, contrariamente al comportamento di Hezbollah, che sotto la protezione del governo libanese, ha lanciato migliaia di missili contro i centri abitati israeliani, uccidendo decine di civili, ebrei e arabi»; infine, constatato che «gli obiettivi ragionevoli e possibili di questa operazione militare sono già stati raggiunti» e che «la determinazione di Israele di difendere in modo deciso i propri confini e i propri cittadini è stata sufficientemente chiarita al popolo libanese», armati di buona volontà chiedono alla Patria «il suo assenso immediato al cessate-il-fuoco reciproco».[35] «Giusta Retribuzione», questo il nome ufficiale dell’offensiva. Ma quando si gioca con Ares e con Nemesi se ne risponde alle figlie della Notte. Una settimana dopo l’appello, un giorno prima del cessate il fuoco, il figlio ventunenne di Grossman, Uri, viene ucciso in battaglia. Il 15 agosto lo scrittore pronuncia l’orazione funebre, anch’essa immediatamente pubblicata sulla stampa di tutto il mondo. È un commosso ricordo di una vittima che ha avuto almeno il privilegio di non rimanere oscura. Ma è anche un manifesto del pacifismo moderato, un patriottico elogio delle virtù morali del soldato, quintessenza del militarismo. Grossman rammenta la
«lotta per essere ammesso al corso di comandanti di tank. Non ti sei arreso ai tuoi superiori, sapevi di poter essere un buon comandante […]. E oggi i tuoi amici e i tuoi subordinati raccontano del comandante e dell’amico, di quello che si alzava per primo per organizzare tutto e che si coricava solo dopo che gli altri già dormivano. […] Eri il “sinistroide” del tuo battaglione, ma eri rispettato, perché mantenevi le tue posizioni senza rinunciare ai tuoi doveri militari. […] mi hai raccontato della tua “politica dei posti di blocco”, perché anche tu sei stato non poco ai posti di blocco. Dicevi che se c’era un bambino nell’auto che avevi fermato, innanzi tutto cercavi di tranquillizzarlo e di farlo ridere. […] quanta paura aveva di te e quanto ti odiava, e a ragione. Eppure facevi di tutto per rendergli più facili quei momenti tremendi, compiendo al tempo stesso il tuo dovere, senza compromessi. […] Quando sei partito per il Libano […] avevamo molta paura […] che saresti corso dritto in mezzo al fuoco per salvare un ferito, che saresti stato il primo a offrirti volontario per portare il rifornimento-di-munizioni-esaurite-da-tempo. […] Ricordo quanto fossi indeciso una volta se punire un soldato in seguito a un’infrazione disciplinare. Quanto per te quella decisione fosse sofferta perché avrebbe scatenato la rabbia dei tuoi sottoposti e degli altri comandanti, molto più indulgenti di te riguardo a certe infrazioni. E infatti punire quel soldato ti è costato molto da un punto di vista dei rapporti umani, ma proprio quell’episodio si è trasformato in una delle storie cardinali dell’intero battaglione […] esempio di un giusto comportamento del comandante. […] Uri era il compendio dell’israelianità come io la vorrei vedere».[36]
Una perfetta macchina da guerra.
Die Zukunft. Il bilancio finale, ma non definitivo, delle vittime della guerra in Libano è, secondo stime dell’Unicef, di oltre 1.180 morti (30% bambini), 4.390 feriti, 255.780 sfollati tra i libanesi (45% bambini), senza contare che il paese è distrutto e che su 140 chilometri di costa si sono riversate 15.000 tonnellate di greggio; tra gli israeliani si contano 154 morti e molti feriti.
A testimoniare in che misura da entrambe le parti agisca la logica disumanizzante di considerare l’altro come nemico, è l’assoluta indifferenza – quando non il compiacimento – con la quale lo si guarda soffrire. Mentre Hezbollah festeggiava una vittoria assai problematica sul piano militare, ma sicura sul fronte interno, in Israele si scatenava un’inedita e quanto mai rivelatrice protesta popolare contro il governo, colpevole di aver malamente condotto le operazioni belliche. Lo strazio dell’infanzia libanese, il dolore inflitto a milioni di persone al di là del confine, la loro disperazione, non erano in alcun modo tra le preoccupazioni di questo movimento. «La gioventù confusa che piagnucolava seduta con chitarre e candele nella piazza di Tel Aviv in seguito all’assassinio di Rabin, è ora seduta nel Giardino delle Rose, di fronte all’ufficio del Primo Ministro», scriveva su Ha’aretz Gideon Levy. Tra loro molti riservisti con familiari al seguito: «la maggior parte di questi votò per Kadima – oltre che per il Likud o per i laburisti». Protestavano per il conflitto, sì, ma perché era già terminato: «Gli argomenti trattati […] si riassumono sotto due aspetti […]: il primo, che le Forze di Difesa Israeliane non erano preparate per la guerra; e il secondo, che esse si sono ritirate troppo rapidamente». È il segno dei tempi, dell’innesto esiziale e universale dei sacri valori dell’ethos militare nel tessuto civile, uno scarto che non sfugge allo sconforto di Levy:
«I peccati originali verso i quali dovrebbero rivolgersi le proteste sono: la determinazione, la presunzione smisurata e l’odio che ha animato l’autorità nella prima fase di questa guerra. È deprimente vedere che nessuno dei manifestanti si pone delle questioni morali. Un movimento di protesta che non si pronuncia contro la terribile distruzione che infliggiamo al Libano, che tace di fronte al modo in cui uccidiamo centinaia di civili innocenti e di fronte alla maniera con la quale trasformiamo decine di migliaia di persone in rifugiati ridotti a povertà, non è definibile come movimento morale. Per quanto tempo ancora continueremo a stare ripiegati su noi stessi e vedere solamente la nostra propria miseria?
È troppo chiedere ai manifestanti, che si suppone siano il quadro dell’avanguardia, di guardare a ciò che abbiamo fatto all’altra nazione? Come poter comprendere perché dopo i massacri di Sabra e Chatila, che non erano direttamente opera nostra, la gente uscì in massa nelle strade, mentre oggi nessuno dice nulla sulla distruzione che abbiamo seminato in Libano?».[37]
I manifestanti però erano stati ingenerosi nei confronti dell’establishment politico-militare, che non aveva scelto di porre fine alle operazioni, ma vi era stato costretto dal grand bruit della comunità internazionale e infine dagli stessi Stati Uniti, che consideravano ormai chiusa la stagione di caccia. Inoltre ne sottovalutavano le ampie vedute, la perizia strategica sul lungo periodo. Condi Rice un bel dì comunicò a Olmert che il bonus si stava esaurendo, ma non lo colse impreparato: negli ultimi tre giorni, «quando sapevamo che si era vicini a una risoluzione Onu e quindi alla fine della guerra»,[38] l’esercito israeliano ha sparato il 90% di tutte le cluster bomb impiegate nel conflitto. Di regola le micidiali bombe a grappole rimangono inesplose per circa il 15-20%, un rapporto che in questo caso sale misteriosamente al 40%. Ecco di cosa dovranno occuparsi i libanesi nei prossimi anni, e senza che i riservisti rischino nulla. Gli ordigni hanno già cominciato il loro lavoro di morte tra i contadini che per sopravvivere cercano di raccogliere gli agrumi. Ma la contabilità non è che all’inizio. Gli sminatori Onu sono al lavoro: «In due mesi abbiamo tra tutti i team rimosso 45mila mine, da record. Ne rimangono circa un milione 100mila, sganciate con 790 raid aerei e da 1800 missili, calcolando 650 cluster per missile e 644 in ogni aereo. Finora abbiamo contato 780 siti colpiti ma continuiamo a scoprirne di nuovi».[39] Calcolano di terminare per la fine del 2007. Se tutto va bene. Se non scoppia una guerra civile. Se l’Onu non finisce i soldi. E poi, chi assicura che all’occorrenza non ne verranno sparate altre di cluster bomb? O peggio ancora? Olmert si sta già attrezzando e ha messo in campo l’arma segreta, il Nobel per la pace Shimon Peres: «La guerra in Libano ha dimostrato che abbiamo bisogno di piccole armi e questo è il futuro», ha dichiarato recentemente allo Yediot Ahronot. Si riferiva ai «calabroni bionici», un suo progetto. Si tratta di «veicoli volanti in miniatura, telecomandati e in grado di scattare fotografie, ma anche di lanciare piccoli razzi contro obiettivi mirati, che potranno volare indisturbati e senza destare attenzione nelle città palestinesi dove verranno impiegati».[40]
Schuldfrage. Merita in ultimo riproporre, anche per eventuali resipiscenze, una lettera pubblicata – chissà per quali misteriose vie – in un giornale interventista, la Repubblica, il 28 febbraio 2002, pochi mesi e molte migliaia di morti e feriti dopo il pronunciamento bipartisan a favore dei bombardamenti umanitari in Afghanistan, che peraltro continuano devastanti nel silenzio generale (2.095 attacchi negli ultimi sei mesi, contro gli 88 in Iraq).[41] Per queste vittime rimane indelebile l’individuale responsabilità politica e morale di coloro che scelgono di non esercitare l’elementare e unico diritto politico consentito all’obiezione di coscienza: non recarsi alle urne. Costoro (in Italia, alle elezioni del 2001, furono l’81,4%, l’83,6% alle ultime) preferiscono delegare simili questioni ai carnefici, mandanti perciò anche del rinnovato, unanime appoggio alla missione afgana e del plebiscitario e cupamente gravido viatico alla spedizione in Libano. Peggio ancora se nel farlo si autoassolvono con il falso, nel metodo e nel merito, alibi bipartisan del male minore. A loro, incluso chi non usa il diritto politico garantito di manifestare con l’astensione il proprio rifiuto della guerra, è indirizzata la lettera.
Io sono nata a Kandahar 22 anni fa ma ho vissuto in Italia per quasi tutta l’infanzia. Poi sono tornata in Afghanistan e ora al popolo italiano che ho amato tanto voglio raccontare la mia storia. In Italia c’è la mafia che si è diffusa come un cancro, ma sono felice che nessuno per questo abbia mai pensato di bombardarvi. Ero a Kandahar quando sono cominciati i bombardamenti occidentali. Ero là con il mio bimbo e il mio uomo. Lui è andato a combattere. Non volontario, non terrorista. È partito perché i ragazzi vengono arruolati dagli eserciti in tutto il mondo quando c’è la guerra. Aveva 20 anni e se n’è andato senza guardare il suo bimbo che piangeva. Forse immaginava che non l’avrebbe visto più, non voleva ricordarlo in lacrime. Cadevano le bombe l’ultima volta che l’ho visto vivo, il rumore era assordante e la gente gridava e correva in cerca di rifugi. Così non so se ha sentito il mio saluto. L’ho accompagnato per alcuni metri lungo la strada e per una volta ho gioito di indossare il burqa: non ha visto le mie lacrime. La notte ho stretto forte il mio bimbo che non dormiva più. Chiedeva perché. Una notte la casa è esplosa su noi abbracciati. Mio figlio non ha urlato, questo lo ricordo. L’ho fatto io ed era un grido animale. Sentivo del sangue scivolarmi lungo le gambe e speravo fosse il mio. Non lo era. Ho chiesto a Dio di mandare un’altra bomba a uccidermi, sentivo di non farcela. Invece stavo già correndo, cercando aiuto, tra le bombe e le fiamme e altre mamme con fagottini sanguinanti tra le braccia. Il mio bimbo vivrà senza le gambe, urla tutto il giorno, si lamenta tutta la notte. Ho affidato la mia lettera a un’amica che è scappata in Europa. È per gli italiani. Non credo che nessuna delle belle persone che ho incontrato lì avrebbe voluto pagare con le sue tasse la bomba che ha tolto le gambe e la speranza a mio figlio. Eppure quella bomba l’avete pagata voi.
Anna – Kandahar
[Fine. La prima parte di Vittime qui]
[22] MacGregor Knox, Alleati di Hitler. Le regie forze armate, il regime fascista e la guerra del 1940-1943, Garzanti, Milano 2002, p. 175.
[23] Cfr. Mario Isnenghi – Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914–1918, Sansoni, Milano 2004, pp. 247-252; 338-349. Gli autori giudicano il comportamento dell’élite nei confronti dei soldati «il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiano nella Grande Guerra», e affermano amaramente: «Non è possibile trovare giustificazione o razionalità nella politica del Comando supremo verso i prigionieri, avallata dal governo e accettata dalla stampa» (pp. 346 s.). Siccome invece, come si è visto, è impresa facilissima, ci troviamo di fronte a un caso flagrante di patriottismo omertoso.
[24] Grazie allo studio di Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Editori Riuniti, Roma 1993.
[26] Mauro Banchini, Un signor ospedale sulle rive del Nilo Azzurro, in Prima Pagina, 6 giugno 2006.
[29] Joseph Algazy, Israele, i cittadini di seconda classe, in Le Monde Diplomatique, ottobre 2005.
[30] Così Raya Cohen, docente israeliana di Storia all’Università Federico II di Napoli, in Italo Arcuri, Israele, Raya Cohen: «L’Europa presti più attenzione e solidarietà ai refusniks», in Diario21, mensile, ottobre 2006. Cfr. anche Yigal Bronner, Obiettare alla guerra, in Mosaico di pace, maggio 2003; Neta Ziv, Il coraggio di rifiutare l’occupazione. L’obiezione di coscienza al servizio militare in Israele, in Il Cosmopolita, 6 aprile 2004.
[31] Cfr. Jonathan Cook, Visioni ingannevoli sul futuro della Palestina. La pace avrà bisogno di qualcosa di più di David Grossman o… Uri Avnery, in http://italy.peacelink.org.
[32] «Molte volte in passato il movimento pacifista israeliano ha criticato le operazioni militari delle sue forze armate. Questa volta no. […] Il movimento pacifista israeliano dovrebbe sostenere il tentativo di pura e semplice autodifesa da parte di Israele finché questa operazione prende di mira soprattutto l’Hezbollah e risparmia, quanto più possibile, le vite dei civili libanesi (compito non sempre facile visto che i lanciamissili Hezbollah usano spesso civili libanesi come sacchi di sabbia umani)» (Amos Oz, Io, scrittore pacifista: è una guerra giusta, in Corriere della Sera, 18 luglio 2006).
[33] David Grossman, Le ragioni di Gerusalemme, in la Repubblica, 14 luglio 2006.
[34] Tom Segev, Someone to fight with, in Ha’aretz, 11 agosto 2006.
[35] David Grossman – A.B. Yehoshua – Amos Oz, L’appello: tre scrittori israeliani chiedono il cessate il fuoco, in la Repubblica, 7 agosto 2006.
[36] In la Repubblica, 17 agosto 2006.
[37] Gideon Levy, In Israele il movimento di protesta è illusorio, in Ha’aretz, 5 settembre 2006, tr. it. a cura di CIRE in www.comedonchisciotte.net.
[38] Jan Egeland, funzionario Onu, sottosegratario generale agli affari umanitari in Libano: Cluster Bomb e non solo, in www.amisnet.org, 1 settembre 2006.
[39] Gianluca Ursini, Libano, con gli sminatori di cluster bomb, in la Repubblica, 2 novembre 2006. Cfr. anche R. Staglianò, La guerra infinita delle ‘cluster bomb’, in http://multimedia.repubblica.it, 2 novembre 2006.
[40] Israele, calabroni-robot contro i palestinesi, in www.repubblica.it, 18 novembre 2006.
[41] Cfr. Karzai: «L’instabilità del Paese compromette la visione di una regione pacifica e prospera», in L’Osservatore Romano, 19 novembre 2006.