[Il 28 ottobre 1964 la televisione della Repubblica federale tedesca trasmise
la seguente conversazione tra Hannah Arendt e Guenter Gaus, al tempo stimato
giornalista e in seguito alto funzionario nel governo guidato da Willy
Brandt. Questa intervista ricevette il premio Adolf Grimme e venne
pubblicata l’anno successivo col titolo Was bleibt? Es bleibt die
Muttersprache, in Guenter Gaus, Zur Person, Piper, Muenchen 1965. La
traduzione italiana si basa sulla versione inglese di Joan Stambaugh.]
TUTTI I LIBRI DI HANNAH ARENDT
Hannah Arendt: Io non appartengo alla cerchia
dei filosofi. La mia professione, se si puo’ considerarla tale, e’ la teoria
politica. Non mi sento affatto una filosofa, ne’ credo di essere stata
accolta nella cerchia dei filosofi, come lei gentilmente suggerisce.
Rispetto poi all’altra domanda da lei posta nelle sue osservazioni iniziali,
puo’ anche essere vero, come dice lei, che la filosofia e’ ritenuta in
genere una professione maschile, ma non per questo e’ destinata a rimanere
tale per sempre! E’ perfettamente possibile che un giorno vi sia una donna
filosofo… (1)
Guenter Gaus: Ma io la considero una filosofa…
Be’, non posso farci niente; ma personalmente non credo di
esserlo. Sono convinta di essermi congedata dalla filosofia una volta per
tutte. Come lei ben sa, ho studiato filosofia, ma cio’ non significa che da
allora non abbia cambiato strada.
Vorrei che lei precisasse meglio qual e’ la differenza tra
la filosofia politica e il suo lavoro di docente di teoria politica.
L’espressione “filosofia politica”, che io peraltro evito,
e’ straordinariamente sovraccarica di tradizione. Quando parlo di queste
cose, in termini accademici o non accademici, ricordo sempre che esiste una
tensione vitale tra filosofia e politica. Vi e’ cioe’ una tensione tra
l’uomo come essere che pensa e l’uomo come essere che agisce di cui non vi
e’ traccia, per esempio, nella filosofia della natura. L’atteggiamento del
filosofo di fronte alla natura non e’ diverso da quello di ogni altro uomo,
e quando dice cio’ che pensa su di essa egli parla nel nome dell’umanita’,
ma un filosofo non puo’ essere obiettivo o neutrale rispetto alla politica.
Non dopo Platone!
Capisco cosa vuole dire.
Vi e’ una sorta di ostilita’ verso la politica nel suo
complesso in gran parte dei filosofi, con ben poche eccezioni. Kant e’ una
di queste eccezioni. Tale inimicizia ha una grandissima rilevanza in questo
contesto, poiche’ non e’ una questione personale, ma dipende dalla cosa
stessa.
Lei non vuole avere nulla a che spartire con questa
ostilita’ verso la politica perche’ ritiene che potrebbe intralciare il suo
lavoro?
“Non voglio avere nulla a che spartire con questa
ostilita’”, proprio cosi’! Voglio guardare alla politica, per cosi’ dire,
con gli occhi sgombri dalla filosofia.
Capisco. Passiamo ora alla questione dell’emancipazione
femminile. Ha mai rappresentato un problema per lei?
Si’, naturalmente, come tale il problema si ripresenta
sempre. Il fatto e’ che io sono un po’ all’antica. Ho sempre pensato che ci
sono delle professioni che non si addicono alle donne, che non vanno bene
per loro, se posso esprimermi cosi’. Non e’ bello quando una donna si mette
a dare ordini. Se vuole rimanere femminile, una donna dovrebbe evitare di
trovarsi in situazioni simili. Non so se ho torto o ragione. Per quanto mi
riguarda ho sempre vissuto secondo questi principi in maniera piu’ o meno
inconscia – o meglio, piu’ o meno conscia. Nel mio caso questo problema non
ha pesato molto. Per farla breve, ho sempre fatto cio’ che mi andava di
fare.
Nella sostanza l’obiettivo del suo lavoro – entreremo
sicuramente piu’ nel dettaglio in seguito – e’ la conoscenza delle
condizioni che rendono possibile l’azione e il comportamento politico. Le
preme esercitare una grande influenza con i suoi scritti oppure crede che ai
nostri tempi una simile influenza non sia piu’ possibile, o semplicemente la
cosa non le importa poi molto?
Sa, non e’ facile rispondere alla sua domanda. In tutta
onesta’ dovrei limitarmi a dire questo: quando lavoro l’influenza e’
l’ultimo dei miei pensieri.
E una volta che il lavoro e’ finito?
A quel punto anch’io ho finito. Cio’ che mi preme e’
comprendere. Per me scrivere significa cercare di comprendere, fa parte di
questo processo di comprensione… Certe cose vengono fissate. Se avessi
avuto in dono una memoria cosi’ prodigiosa da conservare davvero tutto cio’
che penso, dubito fortemente che avrei mai scritto alcunche’ – conosco la
mia pigrizia. Per me cio’ che conta e’ il processo stesso del pensiero.
Personalmente, una volta che sono riuscita a riflettere in profondita’ su
una questione, sono molto soddisfatta. Se poi riesco anche a tradurre in
maniera adeguata il mio processo di pensiero in scrittura, ne traggo
ulteriore soddisfazione. Ma lei mi chiede dell’effetto che i miei lavori
hanno sugli altri. Se mi consente una chiosa ironica, questa e’ una domanda
tipicamente maschile. Gli uomini vogliono sempre esercitare una grande
influenza, ma per me non e’ poi cosi’ essenziale. Se penso di esercitare
dell’influenza? No. Io voglio comprendere, e se altri comprendono – nello
stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento,
come quando ci si sente a casa in un luogo.
Le riesce facile scrivere? Formulare i suoi pensieri?
A volte si’, a volte no. Ma in generale posso dirle che non
scrivo fintantoche’, per cosi’ dire, non riesco a scrivere sotto mia stessa
dettatura.
Finche’ non ha sviscerato la questione.
Si’. Devo sapere esattamente che cosa voglio scrivere. Non
scrivo finche’ non lo so. In genere faccio un’unica redazione, e quindi me
la sbrigo piuttosto in fretta; dipende solo dalla velocita’ con cui batto a
macchina.
Al momento, al centro della sua opera vi e’ l’interesse per
la teoria politica, l’azione e il comportamento politico. Tenuto conto di
cio’, mi sembra particolarmente interessante un passo del suo scambio
epistolare col professor Scholem (2), dove lei scrive, se mi e’ consentito
citarla, che “in gioventu’ non provava alcun interesse per la politica o la
storia”. Signora Arendt, nel 1933, a ventisei anni, lei ha dovuto lasciare
la Germania perche’ ebrea. Vi e’ forse un nesso tra questi eventi e il suo
interesse per la politica, o meglio la fine della sua indifferenza verso la
politica e la storia?
Ovviamente, si’. Nel 1933 l’indifferenza non era piu’
possibile. A ben vedere, non era possibile neanche prima.
Anche per lei?
Ovviamente, si’. Leggevo i giornali con attenzione, avevo
delle opinioni, ma non appartenevo a un partito, ne’ ne sentivo il bisogno.
Sin dal 1931 ero certa che i nazisti avrebbero preso il potere. Discutevo in
continuazione di questi problemi, ma non mi sono occupata in maniera
sistematica di queste cose finche’ non ho deciso di emigrare.
Avrei un’altra domanda da porle su questo tema. Visto che
lei era certa che i nazisti avrebbero fatto di tutto per conquistare il
potere, non senti’ l’impulso di fare qualcosa per impedirlo – per esempio
aderire a un partito – o riteneva che non avesse piu’ alcun senso?
Personalmente pensavo non avesse senso. Altrimenti – anche
se e’ difficile stabilirlo con certezza a distanza di anni – avrei
probabilmente fatto qualcosa. Pensavo che la situazione fosse disperata.
Si ricorda di un particolare evento cui puo’ essere fatto
risalire il suo cambiamento d’atteggiamento nei confronti della politica?
Direi il 27 febbraio 1933, l’incendio del Reichstag, e gli
arresti illegali che ne seguirono la notte stessa: la cosiddetta custodia
preventiva. Come lei sa, gli arrestati finivano nelle celle della Gestapo o
nei campi di concentramento. Cio’ che accadde era mostruoso, anche se ora
appare nulla in confronto alle cose avvenute in seguito. Per me fu un vero
trauma, e da allora mi sentii responsabile, non pensavo piu’, cioe’, che si
potesse rimanere degli osservatori, e cosi’ ho cercato di rendermi utile in
molti modi. Ma cio’ che mi spinse a emigrare – se vale la pena di parlarne,
visto che e’ una cosa di nessuna importanza…
La prego, ce lo racconti.
Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin
dall’inizio che gli ebrei non potevano restare. Non era mia intenzione
vagare per la Germania come una cittadina di seconda classe, se posso
esprimermi cosi’. Per di piu’, ero certa che le cose sarebbero andate sempre
peggio. Comunque, alla fine, non me ne sono andata cosi’ pacificamente. E
devo riconoscere che ne vado orgogliosa. Venni arrestata e dovetti lasciare
il paese illegalmente – glielo raccontero’ fra un attimo – e fu per me una
grande soddisfazione. Pensavo: almeno ho fatto qualcosa! Almeno non sono
“innocente”. Nessuno avrebbe potuto dirlo di me! L’opportunita’ me la offri’
l’organizzazione sionista. Avevo diversi amici tra i suoi dirigenti, in
particolare ero molto amica dell’allora presidente Kurt Blumenfeld, ma non
ero una sionista, ne’ i sionisti cercarono mai di reclutarmi. Comunque, in
un certo senso, ne subivo l’influenza, in particolare per quanto riguarda la
critica, l’autocritica che i sionisti avevano suscitato nel popolo ebraico.
Ne subivo l’influenza e ne capivo l’importanza, ma politicamente non avevo
nulla a che spartire col sionismo. Ebbene, nel 1933 Blumenfeld e un altro
uomo che lei non puo’ conoscere mi contattarono e mi dissero che volevano
fare una raccolta di tutte le affermazioni antisemite che ricorrevano negli
ambienti piu’ ordinari: per esempio nelle associazioni, in ogni genere di
associazioni professionali, sulle riviste specializzate, in breve quel
genere di cose di cui all’estero non si viene mai a sapere nulla. Al tempo
fare qualcosa del genere significava rendersi complice di quella che i
nazisti definivano “propaganda dell’orrore”. I sionisti non potevano
occuparsene, perche’, nel caso in cui fossero stati scoperti, avrebbero
messo a repentaglio l’intera organizzazione… Cosi’ mi chiesero: “Vuoi
farlo tu?”, e io risposi: “Certo”. Ne ero ben felice; innanzitutto perche’
mi sembrava un’ottima idea, e poi perche’ mi confortava pensare che, dopo
tutto, si potesse pur fare qualcosa.
Fu arrestata per questa attivita’?
Si’. Venni scoperta, ma fui molto fortunata. Uscii dopo
otto giorni perche’ avevo fatto amicizia con il funzionario che mi aveva
arrestato. Era un tipo affascinante! Era stato appena promosso dalla polizia
criminale alla sezione politica e non aveva la minima idea di come
comportarsi. Che cosa doveva fare? Mi ripeteva di continuo: “In genere mi
trovo di fronte a qualcuno, consulto gli schedari e capisco come stanno le
cose. Ma che devo fare con lei?”.
Questo accadeva a Berlino?
Si’, a Berlino. Purtroppo ho dovuto mentire a quest’uomo,
non potevo certo mettere a repentaglio l’organizzazione. Gli raccontavo
delle storie fantasiose e lui non faceva che dirmi: “L’ho portata io qui
dentro, saro’ io a farla uscire. Non prenda un avvocato! Gli ebrei hanno
pochi soldi ormai. Risparmi il denaro!”. Nel frattempo l’organizzazione mi
aveva procurato un avvocato – ovviamente tra i suoi membri – ma io me ne
sbarazzai, perche’ l’uomo che mi aveva arrestato aveva una faccia cosi’
schietta e onesta che decisi di fidarmi di lui, convinta che fosse piu’
sicuro che affidarsi a un avvocato, spaventato quanto me.
Riusci’ quindi a uscirne e a lasciare la Germania?
Uscii dal carcere, ma dovetti passare il confine
illegalmente… l’inchiesta era ancora aperta.
Nel carteggio che ho menzionato in precedenza, signora
Arendt, lei ha respinto con forza, giudicandola superflua, l’esortazione di
Scholem a non dimenticarsi della sua appartenenza al popolo ebraico. Lei
scrive, cito ancora, “la mia ebraicita’ appartiene a quei dati di fatto
indiscutibili della mia vita che non ho mai desiderato di cambiare di una
virgola, nemmeno durante l’infanzia”. In proposito avrei alcune cose da
chiederle. Lei e’ nata a Hannover nel 1906, suo padre era un ingegnere, ed
e’ cresciuta a Koenigsberg. Ricorda che cosa significava per una bambina
appartenere a una famiglia ebrea nella Germania prebellica?
In tutta onesta’ non mi e’ possibile rispondere in termini
generali alla sua domanda. Per quanto mi riguarda, non ho preso coscienza in
famiglia della mia identita’ ebraica. Mia madre non era affatto religiosa.
Suo padre e’ morto in giovane eta’.
Si’, mio padre e’ morto quand’era ancora giovane. Suona
tutto molto strano. Mio nonno era il presidente della comunita’ liberale
ebraica e consigliere comunale a Koenigsberg. Vengo da una vecchia famiglia
ebrea. Comunque, la parola “ebreo” non veniva usata quando ero bambina. Mi
ci sono imbattuta per la prima volta ascoltando le battute antisemite – che
e’ meglio non ripetere – dei bambini per le strade. Da quel momento ho
avuto, per cosi’ dire, un'”illuminazione”.
Fu un trauma per lei?
No.
Non le venne da pensare: ora sono qualcosa di particolare?
Be’, vede, questa e’ un’altra faccenda. Non fu affatto un
trauma per me. Mi sono detta: cosi’ stanno le cose. Se ho avuto la
sensazione di essere qualcosa di particolare? Certo! Ma non e’ il caso che
mi dilunghi sulla questione ora.
In che senso si senti’ diversa?
Oggettivamente, penso che avesse a che fare con la mia
ebraicita’. Per esempio, da bambina – benche’ da bambina un po’ piu’
grandicella, in questo caso – sapevo di avere delle fattezze ebraiche, di
essere diversa dagli altri bambini. E ne ero pienamente consapevole, ma non
nel senso che mi sentissi inferiore: semplicemente le cose stavano cosi’.
Peraltro anche mia madre, la mia cerchia familiare, per cosi’ dire, erano un
po’ fuori dalla norma. Erano cosi’ particolari, anche rispetto alle famiglie
di altri bambini ebrei o di altri bambini nostri parenti, che non era facile
per un bambino capire che cosa vi fosse di speciale.
Mi piacerebbe saperne di piu’ sulla peculiarita’ della sua
cerchia familiare. Lei ha detto che sua madre non ritenne necessario
soffermarsi sulla sua identita’ ebraica finche’ lei non ne fece esperienza
sulla strada. Forse sua madre aveva perso quel senso della propria
ebraicita’ che lei rivendica nella sua lettera a Scholem? Non svolgeva piu’
alcun ruolo nella sua vita? Si era completamente assimilata, o almeno cosi’
lei credeva?
Mia madre non aveva una grande predisposizione per la
teoria. Non credo avesse le idee molto chiare in proposito. Come mio padre,
anche lei proveniva dal movimento socialdemocratico, dal circolo dei
“Sozialistische Monatshefte” (3). La questione dell’ebraismo non svolgeva
alcun ruolo nella sua vita. Ovviamente era un’ebrea. Di certo non mi avrebbe
mai battezzata! Penso che mi avrebbe preso a schiaffi se fosse venuta a
sapere che avevo ripudiato l’ebraismo. Era qualcosa di impensabile, per
cosi’ dire. Fuori discussione! Ma la faccenda si e’ fatta ovviamente molto
piu’ seria negli anni Venti, quand’ero ragazza, di quanto non fosse mai
stata per mia madre. E quando sono diventata adulta il problema si e’ fatto
molto piu’ pressante per mia madre di quanto non fosse in precedenza. Ma
cio’ era dovuto a delle circostanze esterne. Per quanto mi riguarda, per
esempio, non credo di essermi mai considerata una tedesca – nel senso
dell’appartenenza a un popolo e non della cittadinanza, se mi e’ consentita
questa distinzione. Mi ricordo di una discussione con Jaspers – doveva
essere il 1930 -> in cui lui mi diceva: “ovviamente lei e’ tedesca!”, e io
ribattevo: “ma se si vede bene che non lo sono!”. Comunque la cosa non mi
infastidiva, non la vivevo come un segno di inferiorita’, in alcun modo. Ma
per tornare ancora alla questione della peculiarita’ della mia famiglia, va
detto che tutti i bambini ebrei facevano esperienza dell’antisemitismo, e
molti ne pagavano le conseguenze. La differenza nel nostro caso e’ che per
mia madre era fondamentale non farsi mai umiliare. Bisogna difendersi!
Quando i miei insegnanti facevano delle osservazioni antisemite – in genere
non nei miei confronti, ma di altre ragazze ebree, per lo piu’ studentesse
ebree provenienti dall’Est – avevo l’ordine di alzarmi immediatamente,
abbandonare la classe, tornare a casa e fare un resoconto dettagliato di
cio’ che era avvenuto. A quel punto mia madre scriveva una delle sue
numerose lettere raccomandate e per me la questione era chiusa. Avevo un
giorno di vacanza in piu’ ed era meraviglioso! Ma quando le osservazioni
giungevano dagli altri bambini, non mi era permesso riferirne a casa. Non
era ammesso: dalle offese degli altri bambini bisognava sapersi difendere da
soli. Percio’ queste cose non rappresentavano affatto un problema per me. Vi
erano delle regole di comportamento che, per cosi’ dire, garantivano la mia
dignita’, e mi sentivo protetta, assolutamente protetta, a casa.
Lei ha studiato a Marburgo, Heidelberg e Friburgo con i
professori Heidegger, Bultmann e Jaspers e si e’ occupata soprattutto di
filosofia e, quindi, di teologia e greco. Come e’ arrivata a scegliere
queste materie?
Be’, sa che le dico, me lo sono chiesto spesso anch’io!
Posso solo dirle che ho sempre saputo che avrei studiato filosofia. Sin
dall’eta’ di quattordici anni.
Perche’?
Avevo letto Kant. Ma detto cio’, lei potrebbe chiedermi:
perche’ ha letto Kant? Per me le cose stavano piu’ o meno in questi termini:
o studiare filosofia o farla finita, per cosi’ dire. Non perche’ non amassi
la vita! Al contrario! Come ho detto in precedenza, avevo questo bisogno di
comprendere… Nel mio caso il bisogno di comprendere si e’ manifestato
molto presto. Vede, a casa c’erano tutti questi libri; bastava allungare le
mani e tirarli giu’ dagli scaffali.
A parte Kant, ci sono altre letture di cui ha un ricordo
particolare?
Si’, in primo luogo la Psychologie der Weltanschauungen
[Psicologia delle visioni del mondo], pubblicata, mi pare, nel 1920 (4).
Avevo quattordici anni. Poi ho letto Kierkegaard e le due cose si
integravano a meraviglia.
Ed e’ qui che entra in scena la teologia?
Si’, le due cose si integravano a tal punto che mi parevano
quasi coincidere. Mi chiedevo soltanto come ci si potesse occupare di
teologia essendo ebrei… come si potesse fare; non ne avevo proprio idea,
capisce? Avevo delle forti perplessita’ che si sono poi dissolte da se’ col
tempo. Col greco le cose stavano diversamente. Ho sempre amato molto la
poesia greca, e la poesia in genere ha avuto una grande importanza nella mia
vita. Cosi’ ho scelto anche il greco. In fondo era la scelta piu’ comoda,
perche’ lo conoscevo di gia’.
Complimenti!
No, lei esagera.
Le sue doti intellettuali, signora Arendt, si sono palesate
molto presto. Non e’ che quando andava a scuola o da giovane studentessa
cio’ ha contribuito ad allontanarla, magari dolorosamente, dalle normali
relazioni quotidiane?
Le cose sarebbero andate cosi’ se ne fossi stata
consapevole. Il fatto e’ che io credevo che tutti fossero come me.
Quando ha capito che le cose non stavano cosi’?
Piuttosto tardi. Preferisco non precisare quanto tardi. La
cosa mi imbarazza; ero incredibilmente ingenua, in parte per l’educazione
che avevo ricevuto a casa. Non si discuteva mai dei voti, perche’ lo si
considerava un argomento non degno. Ogni genere di ambizione era considerata
poco dignitosa. Comunque, la situazione non mi era del tutto chiara.
Talvolta provavo un senso di estraneita’ rispetto agli altri.
Un’estraneita’ che credeva dipendesse da lei?
Si’, assolutamente. Ma questo non ha niente a che vedere
col talento. Non l’ho mai collegato a esso.
Cosi’ le e’ capitato ogni tanto di provare disprezzo per gli
altri in gioventu’?
Si’, e’ capitato, e molto presto. E ne ho anche sofferto
perche’ sapevo che non era giusto, che non era lecito, eccetera
Quando lascio’ la Germania nel 1933 si trasferi’ a Parigi
dove lavoro’ in un’organizzazione il cui compito era di far emigrare giovani
ebrei in Palestina. Vuole dirmi qualcosa in proposito?
Questa organizzazione trasferiva dei giovani ebrei di eta’
compresa tra i tredici e i diciassette anni dalla Germania alla Palestina e
li alloggiava presso dei kibbutz. E’ per questo che conosco piuttosto bene
questi insediamenti.
E dai loro primi passi.
Si’, dai loro primi passi. A quel tempo avevo grande
rispetto per loro. I ragazzi ricevevano una formazione professionale e una
nuova formazione scolastica. In alcuni casi sono riuscita a far entrare di
nascosto anche dei ragazzi polacchi. Si trattava di un lavoro sociale ed
educativo regolare. Nel paese vi erano dei grandi campi in cui i ragazzi
venivano preparati al trasferimento in Palestina, andavano a lezione,
imparavano a coltivare la terra e, soprattutto, mettevano su’ qualche chilo.
Il nostro compito era di vestirli da capo a piedi, cucinare per loro, ma
soprattutto procurar loro i documenti, trattare coi genitori e, prima
ancora, procurar loro dei soldi. In cio’ consisteva gran parte del mio
lavoro. Lavoravo insieme a delle donne francesi e questo e’ piu’ o meno
quello che facevamo. Forse lei vuole sapere ora perche’ ho deciso di
intraprendere questo lavoro?
Certo.
Vede, io venivo da una formazione puramente accademica e,
da questo punto di vista, il 1933 ha lasciato su di me una traccia
indelebile. Anzitutto in senso positivo e poi negativo. Forse farei meglio a
dire prima in senso negativo e poi positivo. Oggi molti pensano che per gli
ebrei l’ascesa di Hitler al potere sia stato uno shock. Ma per quanto
riguarda me e quelli della mia generazione posso dire che questo e’ un
curioso equivoco. Ovviamente si trattava di un fatto grave, ma era politico,
non personale. Non avevamo bisogno dell’ascesa di Hitler al potere per
capire che i nazisti erano nostri nemici! La cosa era assolutamente chiara
ormai gia’ da quattro anni per chiunque avesse un minimo di cervello. E
sapevamo anche che moltissimi tedeschi erano dalla loro parte. Cio’ non
poteva rappresentare una sorpresa o uno shock nel 1933.
Vuole dire che il vero trauma fu scoprire che gli eventi da
politici si stavano trasformando in personali?
Non tanto questo. O meglio anche questo. In primo luogo
cio’ che era politico in senso lato divenne un destino personale al momento
dell’emigrazione. In secondo luogo… gli amici si “uniformavano” o si
allineavano. Il problema, il problema personale, non era cio’ che facevano i
nostri nemici, ma cio’ che facevano i nostri amici. Sull’onda della
Gleichschaltung (uniformazione) (5), che era relativamente volontaria – in
ogni caso, non ancora indotta dal terrore – era come se intorno a noi si
fosse creato uno spazio vuoto. Io vivevo in un ambiente intellettuale, ma
conoscevo anche altra gente, e tra gli intellettuali la Gleichschaltung era,
per cosi’ dire, la regola; non cosi’ per gli altri. E non l’ho mai
dimenticato. Ho lasciato la Germania ossessionata dall’idea – ovviamente un
po’ esagerata – che… mai piu’! Non mi immischiero’ mai piu’ in nessun
genere di attivita’ intellettuale. Non voglio avere nulla a che spartire con
quella genia. Per di piu’ allora non credevo che gli intellettuali ebrei o
tedeschi si sarebbero comportati in maniera diversa se la loro situazione
fosse stata diversa. Non lo credevo affatto. Ero convinta che dipendesse
dalla professione, dal fatto di essere degli intellettuali. Sto parlando al
passato. Ora ne so di piu’ in proposito…
Note
1. Le ellissi, qui e altrove, rispettano quelle del testo originale e non
indicano manomissione del materiale (nota di Jerome Kohn [curatore di Hannah
Arendt, Essays in understanding 1930-1954, Harcourt Brace & Company, 1994,
di cui i due volumi di Archivio Arendt, Feltrinelli, Milano 2001-2003, sono
la traduzione italiana]).
2. Gershom Scholem (1897-1982), sionista tedesco, storico ed eminente
studioso del misticismo ebraico, era una vecchia conoscenza di Hannah
Arendt. Il 23 giugno del 1963 Scholem le indirizzo’ una lettera molto
critica sul suo libro Eichmann in Jerusalem (trad. it. di P. Bernardini, La
banalita’ del male, Feltrinelli, Milano 1964); cfr. Eichmann in Jerusalem:
an Exchange of Letters, in “Encounter”, 22, 1964 (trad. it. Eichmann a
Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in
Hannah Arendt, Ebraismo e modernita’, a cura di G. Bettini, Unicopli, Milano
1986, pp. 215-228). La citazione e’tratta dalla replica della Arendt, datata
24 luglio 1963 (ivi, p. 221) (nota di Jerome Kohn).
3. I “Sozialistische Monatshefte” (Mensile socialista) erano un famoso
giornale tedesco del tempo (nota di Jerome Kohn).
4. Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen (trad. it. di V. Loriga,
Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950), fu pubblicata
originariamente a Berlino nel 1919 (nota di Jerome Kohn).
5. Il termine Gleichschaltung, o uniformazione politica, indica il diffuso
cedimento, all’inizio del periodo nazista, al mutato clima politico,
motivato in genere dal desiderio di preservare la propria posizione o di
trovare un lavoro; denota, inoltre, la politica nazista di trasformare le
organizzazioni tradizionali – gruppi giovanili e ogni altro genere di
associazione o circolo – in organizzazioni specificamente naziste (nota di
Jerome Kohn).