di Beppe Sebaste
[Uscito su l’Unità del 20-11-06, questo intervento dello scrittore Beppe Sebaste (nella foto; qui tutti i suoi libri) riveste, a parere della redazione di Carmilla, un valore civile che merita all’articolo la più ampia diffusione. Per questo lo pubblichiamo anche in Rete, ringraziando l’autore e auspicando che l’appello qui lanciato sia ripreso da parti multiple. gg]
L’Unità, unico giornale, riportava il 19 novembre scorso alcune delle testimonianze che si sono potute udire nel pubblico processo sul massacro nazista di Marzabotto, oltre sessant’anni fa. Non è solo il principio dell’imprescrittibilità del crimine, le cui carte giacevano occultate in un armadio polveroso della procura militare, a rendere importante questo processo in corso che pure riguarda i fondamenti costituzionali dell’Italia repubblicana, e coinvolge ogni cittadino come “parte civile”. La sfilata di oltre duecento testimoni, che travalica le stesse necessità processuali, riporta alla mente l’evento inaugurale dell’Era dei testimoni (come titolava il suo bel libro la storica Annette Wievorka): il processo Eichmann a Gerusalemme.
Lì i testimoni dei lager e i loro racconti furono l’insostituibile occasione di dare pubblica voce alle vittime di un genocidio. Ma fu anche l’inizio dell’irruzione della memoria viva e calda nella storia contemporanea: alla fredda compostezza del diritto e all’oggettività distaccata della storia si affiancò, a costo di turbarle, la parte della memoria, col suo bagaglio di soggettività e di empatia. Con la Shoah nasce la storia del presente, che porta a maturazione e coscienza l’importanza civile e politica degli archivi, orali e scritti.
Un libro recente, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica (ombre corte), scritto da un storico italiano che da tempo vive e insegna a Parigi, Enzo Traverso, fa il punto sulla questione analizzando con sobria lucidità gli usi politici della memoria. In quei Paesi in cui l’elaborazione del lutto e dei crimini commessi non è stata compiuta a dovere, il ritorno del rimosso può essere assai virulento e imbarazzante, e la memoria non riesce a costituirsi in Storia. Se è vero, come ha scritto Sergio Luzzatto, che ogni democrazia si fonda su una “gerarchia retrospettiva della memoria”, ha ragione Traverso ad osservare con preoccupazione che in Italia “la crisi dei partiti e delle istituzioni che incarnavano la memoria antifascista ha creato le condizioni per l’emergere di un’altra memoria, fino a quel momento silenziosa e stigmatizzata. Il fascismo è ora rivendicato come un pezzo di storia nazionale, l’antifascismo respinto come una posizione ideologica ‘antinazionale’”. Commemorazioni congiunte di tutte le vittime dell’ultima guerra, senza soffermarsi sui valori e le motivazioni dei loro atti, o l’ormai famosa formula usata da Luciano Violante nel 1996 (i “ragazzi di Salò”), sembrano rimettere in discussione le scelte fatte al momento della nascita della Repubblica.
Anche la nozione di archivio, che riguarda la conservazione della memoria contemporanea, è dunque una questione politica, anzi istituzionale. E che esista un problema cruciale di archivi lo dice l’allarme lanciato dal Corriere della Sera sul destino delle carte processuali relative alla strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969, “conservate” a Catanzaro. Un pezzo della storia più cupa d’Italia – la “perdita dell’innocenza”, come è stato detto da alcuni a sinistra – comunque sia una strage fascista tuttora senza colpevoli. «Piazza Fontana è il nostro 11 settembre. Eppure non tutti se lo ricordano. Se venisse fatto un sondaggio chiedendo che cosa è successo a Milano il 12 dicembre del 1969, non so quanti risponderebbero correttamente. Invece quella data dovrebbe far parte della nostra memoria collettiva». A parlare così è Marco Alessandrini, avvocato e figlio del magistrato che svelò per primo la pista nera.
Tempo fa una giovane giornalista, Maria Itri, descrisse l’imponente mole di fascicoli che giaceva nel caos dei sotterranei del tribunale, confusi tra di loro in scatoloni di supermercato, sottomessi al deperimento e all’illeggibilità. Senza parlare della completa mancanza di indicizzazione: “cercare un singolo documento in questa babele risulta praticamente impossibile, è come averlo perso per sempre”. Mario Porqueddu e Marco Nese sul Corriere della sera (7, 8, 12 novembre) hanno lanciato l’allarme: “Le carte giacciono da molti anni. Il tempo le consuma. Dicono che in tutto sono 500 mila fogli. Gli atti del processo per la strage di Piazza Fontana, le istruttorie, centinaia di fotografie, bobine, i reperti, perfino un giallo Mondadori che diedero a Pietro Valpreda quando chiese qualcosa da leggere in cella. veline che hanno più di 30 anni, manoscritti che rischiano di diventare illeggibili. Originali di cui non esiste una copia. Relazioni dei servizi segreti. Vecchi faldoni su “Ordine Nuovo”. Tutto questo pezzo di storia d’Italia rischia di andare perduto”. La notizia del rischio di dissolvimento dei documenti di Piazza Fontana ha mobilitato passioni civili in tutta Italia, e qualcuno ha evocato l’immagine, fresca dell’anniversario dei volontari in soccorso all’alluvione di Firenze quarant’anni fa, di “angeli della carta”: recuperare materiali, documenti, storia e storie, scritture, sottrarli alla cancellazione, ciò che non va lasciato ai singoli volonterosi, ma assicurato dallo Stato. Possibile che solo i parenti delle vittime debbano farsi carico della conservazione e cura di questi documenti, che sono la storia del nostro Paese? Milioni di pagine, documenti di stragi che si intrecciano tra loro, inchieste che si incrociano, gruppi eversivi che si sovrappongono in uno “spettro” di stragi spesso irrisolte con responsabilità ancora in ombra. Sempre sul Corriere il ministro della Giustizia Mastella ha assicurato la copertura finanziaria per digitalizzare le carte, informatizzare i documenti, rendere disponibile l’intero materiale su computer. Insomma, “salvarlo in memoria”, secondo la formula tecnologica. Ma è sufficiente? O non sarà che, come nella poesia di Hans Magnus Enzensberger, “salvare in memoria vuol dire dimenticare”?
Al problema della conservazione materiale e alla lacuna di una seria costituzione di archivi si aggiunge forse un problema di rimozione, un delegare la memoria che rischia di perderla se non si costituisce in Storia, ovvero in Archivio. La memoria, si sa, si declina sempre al presente,, è il passato che resta presente, come nel lutto. Ma la temporalità propria degli archivi, ha insegnato il filosofo Jacques Derrida, è il “futuro anteriore”, il futuro nel passato: perché gli archivi riguardano il nostro avvenire di cittadini, gli archivi costruiscono le opere future. Anche il nesso tra archivio e democrazia è al centro da anni della riflessione di filosofi e storici, a partire dalle ricerche di Michel Foucault, per il quale l’archivio è nel crocevia tra ciò che si dice e ciò che non si dice: si tratta di ampliare la visibilità e la dicibilità degli eventi, contro l’invisibilità e gli interdetti del potere, ridurne la zona d’ombra. Il potere di certificazione degli archivi deve essere al servizio dei cittadini, della sfera pubblica e sociale. Insomma, l’archivio — l’apertura e la conservazione pubblica degli archivi — è tutt’uno con la democrazia, ciò che permette di continuare a scrivere la Storia e di trasmettere la memoria.
«Partiamo dal fatto che le carte del processo di piazza Fontana sono una montagna — ha detto il ministro Mastella – il problema di salvare i documenti e la memoria storica non riguarda un solo processo. Gli attentati che in questo Paese hanno provocato delle stragi negli ultimi 30 o 40 anni sono purtroppo numerosi. Non c’è solo piazza Fontana, ma anche la strage sul treno Italicus, quella della stazione di Bologna, il Dc9 di Ustica e via di seguito. Vorrei realizzare una banca dati generale che comprenda tutti i processi per strage». Un archivio informatico consultabile anche via Internet. «Così verrebbe reso un servizio a tutti. Le carte devono rimanere per un certo numero di anni nelle sedi di competenza, ma poi si possono rimuovere e portarle in altra sede”. Facciamo nostre le parole del Ministro. L’unico esempio virtuoso di materiale ordinato e conservato, non solo digitalizzato ma indicizzato, è a Brescia per la strage di Piazza della Loggia, dove è stata costituita una “casa della memoria”. Ad esso si affianca il “museo della memoria” delle vittime di Ustica, la cui edificazione è in corso d’opera a Bologna, in un sito creato appositamente e a cui darà un contributo nell’allestimento il grande artista della commemorazione Christian Boltanski. Sarà un grande evento artistico e informativo, perché già l’impatto sul visitatore del relitto del Dc9 di Ustica, ricostruito come un puzzle che riproduce simbolicamente il lungo mosaico processuale per arrivare alla drammatica verità di quell’atto di guerra in tempo di pace, è molto forte. Ma le carte processuali relative a Ustica, la documentazione vera e propria attualmente a Rebibbia, sarà collocata nella sede regionale dell’Istituto Ferruccio Parri, dove già si trovano le carte attinenti alle indagini, alle perizie, agli atti istruttori e ai processi in possesso dell’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica creata da Daria Bonfietti. Ecco la proposta che lanciamo da queste pagine: il modello messo in atto per il Museo, cioè la conservazione dei documenti presso un istituto di storia, un’istituzione vera, diventi un modello per il caso di Piazza Fontana, ma anche per tutti gli altri casi che inevitabilmente si presenteranno, ed evitare che la dispersione degli atti giudiziari sulla vicenda di piazza Fontana annunci la dispersione probabile di altri atti di altre stragi di questi anni.
Il referente nazionale dell’Istituto Parri è l’INSMLI — Parri, ovvero Istituto Nazionale di Storia del Movimento di Liberazione in Italia, che riteniamo essere il referente giusto attorno al quale fare ruotare anche l’operazione per la raccolta del materiale di Piazza Fontana – la sede nazionale dell’istituto è a Milano, c’è anche quindi una pertinenza geografica. Ma c’è anche il prestigio del Presidente dell’Istituto, Oscar Luigi Scalfaro. Attorno questo istituto di comprovata affidabilità può nascere un progetto serio che deve trovare le gambe nel contributo di molti — a partire dal Ministero della Giustizia, alle Regioni a Enti che possono mettere in campo risorse anche tecniche, Cnr, Cineca.
Resta un problema di grande spessore: quello della memoria e della storia, quello da cui abbiamo preso le mosse. Le associazioni e i comitati di cittadini in Italia hanno fatto molto per contribuire alla ricerca della verità, tenere desta la memoria, scuotere le coscienze. Una grande supplenza civile. Ma la storia deve essere riconsegnata alle sue istituzioni. Per questo si deve aprire un serio dibattito a partire dalla mobilitazione di questi giorni. Dobbiamo continuare a inventarci sottoscrizioni, manifestazioni, comitati per conservare documenti? Per farne cosa, poi? Il punto cruciale è trovare formule istituzionali corrette a cui affidare la memoria, la riflessione, lo studio. Le nostre carte. Senza le quali siamo tutti — noi cittadini italiani, dei sans papier — che in francese vuol dire clandestini, senza documenti. Senza cittadinanza.