FLAVIO SANTI, L’ETERNA NOTTE DEI BOSCONERO, RIZZOLI 24/7, € 16
Impressionante e appassionante. Complesso come un labirinto catacombale di quell’ormai dimenticato successo popolare che fu I Beati Paoli di Luigi Natoli (da poco riedito), eppure capace di mesmerizzazione del lettore, con colpi di scena che non sono tali, poiché sono lenti rovesciamenti totali, sismatici, della narrazione – una narrazione incastonata in una narrazione incastonata a sua volta in una narrazione: qualcosa che da anni stiamo vedendo allargarsi nel panorama letterario e che con L’eterna notte dei Bosconero raggiunge apici di altissima levatura, anche grazie a uno stile inarrivabile, che dovrebbe mettere a tacere gli adepti della maniera Gadda, perché qui ci troviamo, senza peso per chi legge, all’incrocio più alto degli ultimi anni tra prosodia prosastica e poetica. Insomma, Flavio Santi [già intervistato su Carmilla da Danilo Arona], con questo suo “neogotico”, sfonda le barriere del suono fin qui ascoltato negli ultimi vent’anni, invera una poetica che in diversi scrittori italiani sta ottenendo i risultati migliori: i più potenti perché i più veritativi.
Di tutte le osservazioni compiute qui sopra, che vanno chiarite e motivate, direi che l’ultima è la fondamentale: L’eterna notte dei Bosconero è una meditazione di ineffabile teologia negativa e, al tempo stesso, antispiritualista e antimaterialista, condotta da un autore che, oltre a comprovate capacità poetiche e sapienze critiche, assomma competenze apparentemente distanti, in una colossale dote personale da portare alle mistiche nozze narrative col lettore: fisica, neuroscienze, cosmologia, storia, epistemologia, filosofia teoretica, teologia. Santi andrebbe soprannominato Santi Sanctorum per la profusione di conoscenze che detiene e che, senza minimamente appesantire trama, sviluppo e dinamiche del suo romanzo vomita letteralmente in superficie e sottotraccia – una gnoseologia in forma emetica, perché questo libro, che stento a definire romanzo e che invece determinerei all’antica proprio col termine libro, è una difesa del sapere nell’epoca del crollo dei saperi e, al tempo stesso, un libro contro il sapere, a favore non di un fumoso vitalismo, ma di un approccio coscienziale all’oggetto del sapere – approccio da cui emerge la meraviglia, cifra non settecentesca (il libro passerebbe a un primo sguardo per una sorta di stampo settecentesco), ma secentesco. La meraviglia conoscitiva, arto invisibile dell’autore che intercetta motivi odierni o universali ed è capace di allestire una sfilza di allegorie a tutto campo da rimanere basiti: così la putrida, lutulenta, virale Trinacria in cui si svolgono (ma si svolgono veramente? E si svolgono nel modo in cui l'”io”, il quale nient’altri è che Goethe, viene a conoscere?) le vicende di Federigo e della sua mefitica schiatta, così come la Napoli ferdinandea in cui si consumano sesso e orge enogastromiche inverosimili (con rimandi pop eccezionali, per esempio e, credo, esplicitamente a La grande abbuffata di Ferreri) – insomma questo corredo narrativo può sicuramente essere allegoria di una Sicilia perduta allo Stato italiano di oggi, può fare da metafora a una situazione di decadenza generalizzata del vivere civile, può addirittura essere l’America di Bush inerte davanti al profilarsi delle minacciose trombe del laico giudizio di Katrina. Ma, di fatto, non è così. Santi domanda al lettore di andare più a fondo e di percepire, secondo antichissime categorie empatiche su cui il ritmo frastico e la letteratura tutta da sempre si ergono. Percepire cosa? Che il libro, questo libro, L’eterna notte dei Bosconero, è l’uomo. E’, precisamente, una visione leopardiana au contraire dell’uomo. Così come Leopardi ammonisce sul vuoto e gioca sul niente attraverso i finti pieni che allestisce – soprattutto nelle Operette -, Santi fa muovere un enorme pieno che corrisponde a ciò da cui Leopardi parte per indicare il vuoto: lo stato di attualità perenne della Caduta, sorta di gnosticismo non risolutorio, non ermetico fino in fondo, in cui si allestisce, secondo un’applicazione quasi medianica o scientifica (il che in quest’ottica è lo stesso), il grande carnevale del mondo secondo le categorie di Bachtin. Già, ma quale Bachtin? E’ il Bachtin carnacialesco o quello che si intrude nei meandri titanicamente rocciosi di Dostoevskij? E’ il secondo Bachtin, mi pare, che in una lezione inedita sull’autore dei Karamazov lanciò una definizione che inizia e conclude il cerchio allestito da Santi: “Nessuno scrittore ha difeso mai tanto la fede e nessuno ha addotto tanti argomenti contro la fede”.
L’eterna notte dei Bosconero è una trappola. Una trappola che funziona a un duplice livello. Uno va a verificare, secondo i dettami delle poetiche di genere, e si dice: bene, qui viene disseppellito e portato a nuova gloria il genere “gotico” (e Santi non smentisce per nulla, anzi), solo che è un gotico contemporaneo, deformato – ed ecco che Santi avrebbe spaccato la gabbia del “gotico”, rivitalizzandone la poetica. Non è così. Quando si compiono affermazioni critiche simili – e ultimamente, con il trionfo del “genere” quale nozione critica monopolista e monomandataria, se ne fanno ogni giorno -, bisognerebbe domandarsi con cosa l’autore distorce la gabbia che è storicamente data. Ed ecco, di colpo, se si individua la sostanza con cui la gabbia del genere viene sciolta, siamo fuori dal genere. E’ infatti con il lavoro metafisico dell’immaginario puro che la distorsione viene compiuta da Santi, il quale enuncia addirittura una teologia manichea nel colpo di scena semi-finale del libro: fine della categoria “poetica dei generi”. Il fenomeno del vampirismo, tema centrale della saga dei Bosconero, altro non è che una figura dinamica di ordine teologico: una teologia del nulla, svolta secondo i ritmi preziosi di un Baltasar Graciàn del nostro tempo. Da ripetere, dunque: L’eterna notte dei Bosconero non è un calco settecentesco se non a una vista superficiale, perché è un libro che riprende le metafisiche secentesche, quelle che, peraltro, rinvennero allegoricamente la sede dell’anima nella ghiandola pineale.
Che ciò sia effettivo lo dimostra l'”io” narrante che, come detto sopra, è Goethe: maschera di una maschera (quella dell’autore), secondo lo schema del “manoscritto ritrovato” (che ha radici secentesche e non settecentesche), Goethe è còlto già morto, per conto terzi, in una scrittura postuma che fu l’ultima scrittura in vita. Sarebbe da richiamare Sartre su Baudelaire: lo schiaffo dato al morente può trasformargli tutta la vita in uno schiaffo, ma qui Goethe compie l’esatto contrario, cioè la revisione totale di se stesso attraverso un’esperienza che è un racconto riportatogli, il quale racconto lo conduce all’esperienza vera del Male e della Vita – Goethe morente si dà lo schiaffo da solo. Fossimo trent’anni avanti, Santi non avrebbe dato rappresentazione figurale al Male, cosa che del resto, nei suoi finali, solitamente fa anche Stephen King, altro chiaro nume tutelare del libro. Però è Santi o Goethe che arrischia la rappresentazione letteraria del Male? Perché cosa sarebbe il Faust, l’Ur-Faust? Ecco un ulteriore pozzo artesiano in cui Santi si cala: la letteratura, quando rappresenta il Male, invera il Male? Goethe doveva tacere? E dove aveva da tacere? All’interno del libro di Santi o nell’enunciazione della “luce” a fine Faust? Perché ciò che rappresenta il Male ha le medesime ripercussioni della rappresentazione del Bene. E’ contro una letteratura assoluta che sembra vanamente lottare Santi, poiché è nella letteratura assoluta che egli pone la sua scrittura. Con un differenziale: che è una silenziosa intenzionalità (in senso husserliano non teorico: pratico; e pratico secondo l’originario intento di Husserl nelle Meditazioni cartesiane, che prevedono esercizi, prassi, non astratti pensamenti…), un’intenzionalità a priori di autoseppellimento, di autochiamata in correo con se stesso, una duplicazione se non moltiplicazione di se stessi. L’autore ha molte facce: il che si dice anche della Bestia (Rushdie aggiunge: “E una di esse è triste”).
In questa pirotecnia della profondità, il lettore dispone immediatamente di uno specchio, una superficie su cui pattinare e vedersi per superarsi – ed è lo stile di Santi. Provo un’ammirazione che rasenta l’invidia per la sapienza linguistica e ritmica di Santi, ma qui vengo scaraventato letteralmente all’equatore perché questo autore inserisce una variabile insospettabile, che è la forza lemmatica e lessicale che dà la stura a un dettato che sa farsi improvvisamente gnomico, sentenzioso – e, sia chiaro, ciò non ha nulla del Settecento, semmai del Seicento rimetabolizzato nello Zibaldone da Leopardi, evidentemente stella fissa e segreta del libro. Copio un brano dal libro, aprendo a caso:
“Palermo… Non so da quanto tempo siete qua in città, ma sicuramente avrete notato che Palermo è la terra del viceré Caracciolo. Un francese. Lui si occupa di cose che non lo riguardano e rischia di dannarsi l’anima in eterno, perché il suolo straniero è la porta più vicina all’inferno e lui, incauto, sta sputando sulle dinastie siciliane, “caga su di noi e i nostri padri” come capita di sentire sul Cassaro. E’ come un cameriere nuovo in una vecchia casa aristocratica, che vuole far prendere aria a un grande tappeto che spicca nel salotto, pieno di tarli e scucito, e non sa che il tappeto vive il suo splendore nello stare così, mai messo fuori alla finestra, davanti al mondo. La polvere non va ripulita perché è il vero nerbo del tessuto. Ma proprio così fa il Caracciolo: maneggia della polvere e non capisce che può rovinare tutto, secoli di dolorose e delicate pieghe. E poi non si capisce: ma come, a Napoli il primo ministro è il marchese della Sambuca, un siciliano, e a Palermo ci sta ‘sto francese? Per spiegare questi fatti i nemici della Sicilia vanno dicendo orgogliosi: “Napoli vale cinque Palermo messi in fila”, “Napoli è la dominante, Palermo la vassalla”. E allora che fare? si reagisce come si può, con pasquinate, lazzi come quelli attaccati al busto della piazza della Fiera vecchia. Forse vi sarà anche capitato di leggerli: “Oh Caracciolo, t’ha cagato ieri il culo del mio mulo”, “Se Caracciolo crepa, mi do anima e corpo alla Madonna del Tìndari”, “Da quando i matti vanno al potere, Caracciolo si sente Dio”. Queste scritte sputano veleno, così tanto veleno da soddisfare ogni più spinto spirito di guerra. Guerra di parole però, l’unica che la Sicilia si permette da qualche secolo in qua, cauterizzata ormai qualsiasi vena bellica.
Ormai i viceré non si possono più cacciare via, come era successo secoli fa quando Luca Squarcialupo aveva assediato il viceré Ettore Pignatelli e il popolo a lanciar giù dalle finestre i giudici della Gran Corte… Bei tempi!
Credetemi, ormai i viceré sono il marcio che consuma le ossa dello stato. E lo stato è vecchio”.
Lingua alta e lingua bassa, indoramenti manieristici accanto a fulminazioni stercorarie di natura popolare ma inventata (e dunque un manierismo alla seconda), una metafora che regge una pagina in tutti i suoi sviluppi, evocazione del magico (l’inferno, il tappeto che è magico in tutte le tradizioni dell’immaginario e, se non magico, semplicemente volante: dal che la metafora assume tonalità antitetiche, ossimoriche): questa è la lingua della letteratura, la consapevolezza sciamanica che accade nel momento in cui si scrive e non si sa cosa, dopo essersi imbevuti di tutto quanto servirebbe a sapere cosa scrivere.
Ci sarebbero molte altre cose da dire circa i noduli carcinomatosi in cui Santi affonda il bisturi e crea metastasi: la descrizione di una fase di sviluppo scientifico in cui si percepisce nitida la folata della metafisica della tecnica, che sarà sostituita da noi contemporanei con l’ingenua metafisica della tecnologia; gli azzardi nietzschani sia sul piano aforistico sia su quello del vitalismo, contenuti con un’ironia di cui non si avverte il sorriso; gli affondi metaletterari che dovrebbero inoculare vergogna al 75% dei cosiddetti scrittori italiani, in grazia di una competenza teorica che alberga in pochissime menti nazionali; e così via. Non è qui la sede per stendere un saggio su questo libro: saggio che meriterebbe, sia chiaro. Mi limito a un accalorato invito: comprate e leggete L’eterna notte dei Bosconero di Flavio Santi, perché è uno dei libri più memorabili della nostra stagione, questo ciclopico work in progress che sta per rovesciare tutto e per inverare la massima goethiana che Santi pone in explicit: “Quel che era scomparso mi ritorna realtà”.