di Gaspare De Caro e
Roberto De Caro
Gli stessi rappresentanti dei governi di tutto il mondo
che organizzano conferenze di pace e parlano della «Lega delle Nazioni» e di
«Pace internazionale», contemporaneamente si preparano al riarmo mondiale in
vista di un nuovo massacro.
(Ernst Friedrich, Guerra alla guerra,
Berlino 1924)
Ai lettori
Occorre dirlo subito. Lo scopo di questa
riflessione in fieri sulla propaganda in tempo di guerra non è
affatto quello di mettere in guardia da possibili pericoli, poiché tutto si è
compiuto. Neanche si coltiva il progetto di alimentare irresponsabili ipotesi
palingenetiche, frenate in verità già dal ridicolo, né tanto meno di illuminare
didatticamente alcunché, poiché la didattica in sede critica è appunto
propaganda. Certamente l’impulso alla testimonianza, pur con i suoi limiti
coatti, gioca un ruolo decisivo, ma non è il motivo che sostanzia l’impegno.
Esso deriva piuttosto da consapevolezza storica: dal decifrare nelle lugubri
pieghe del presente gli ideogrammi di un secolo di experimenta in corpore
vili, incisi sulla carne dell’umanità da
scribi sempre attivi, che in questa pretesa postmodernità, subito declinata al
passato, rifanno scorta ingente d’inchiostro per costruire il futuro. È
necessario, dunque, e urgente separarsi senza ambiguità da quanti banchettano
all’orgia sacrificale, e in primo luogo dalle maschere sinistre, da chi le
delega e da chi invita a delegarle. La frattura irreversibile – morale,
politica, culturale – è l’esigenza primaria, pena la complicità. Non è
catarismo, è decenza.
* * *
Introduzione
L’aurora dalle dita rosa che aprì il secolo XX carica di doni e promesse mutò
presto colore e il giorno tinto di rosso preparò la nera notte di Valpurga. «Se
ci si tappa le orecchie, non si sentono più i gemiti», scriveva Karl Kraus, che
aveva visto sorgere dalle ceneri d’Europa il nuovo verbo universale: «il
paradiso umano comincia subito dopo l’inferno del prossimo». Che lezione, e che
maestri! Durava dal ’14, ma nell’agosto del ’45 il Bene finalmente esplose. Si
guardarono allora i potenti della terra, sgomenti per ciò che avevano fatto.
Durò poco, ma bastò per dare vita a nuovi statuti e convenzioni e carte e
istituzioni. Qui si bandiva la guerra, là si disegnavano colombe, i popoli si
giuravano fraterni, alle religioni non si credeva più e dopo l’Untergangster
dell’Occidente, come lo chiamava il gran viennese, ebreo di Boemia, la vergogna
impediva l’oscena ricerca di comuni radici. Certo, la bomba incombeva, ma per
massacrare in pace non si potevano più evocare i sacri valori. S’imponeva discrezione:
un po’ di coreani e un po’ di indocinesi, un po’ di algerini e un po’ di
tibetani, controrivoluzionari di tutto il mondo uniti e aborigeni incautamente
sopravvissuti, africani d’ogni dove e indonesiani d’ogni isola, sauditi e
yemeniti, israeliani ed egiziani, giordani e siriani, curdi e palestinesi,
caucasici e latinoamericani, indiani e pakistani, iracheni e iraniani, afgani e
cambogiani, baschi e irlandesi, tedeschi e ungheresi e dissenzienti ovunque fossero,
che tanto, dice il poeta, sono sempre odiati. Ma fu una carneficina!, obiettano
gli incontentabili, indifferenti al tantra dei dignitari dell’Eterno Presente:
nella foto non ci sono mai solo ombre. Infatti a illuminare il futuro una
fiaccola si accese: il Tabù della guerra. Un tabù è un tabù e quando viene
violato la coscienza non ammette scuse: non c’era più patriottismo che tenesse,
come fu chiaro al Paese di Dio, quando dai campus agli slums orde di
superstiziosi sfasciarono tutto pur di non tenersi il Vietnam. E ad alimentare
il Tabù, per quarant’anni ubicumque
musica e poesia, libri e teatro, cinema e letteratura, teologie libertarie e
Corani bruciati, Maggio per strada e fabbriche occupate, scioperi e amore
libero ed ogni altra inaudita liturgia di quell’inaudito sacro. Ma era troppo.
Dopo dieci anni di caccia all’eretico, i potenti della terra si dettero una
nuova occhiata e alla prima occasione distrussero l’incongruo idolo. Il muro
era crollato e un Nuovo Ordine attendeva impaziente: un paio di mesi di
propaganda televisiva e fu di nuovo Guerra Giusta e pure Umanitaria. La vecchia
cassetta degli attrezzi, bestia bionda in parte a parte, fu dissepolta e
risultò utilissima. Chez nous,
un’insigne gorgone democratica si affrettò a divorare per l’ennesima volta il
suo passato: benedisse i bombardamenti su Bagdad e impietrì i discepoli
ammonendoli che Kant non serviva più, che il diritto discendeva dalla forza e
che da quel momento al prossimo bisognava volergli bene hegelianamente. E la
Moltitudine, come si regolò la Moltitudine? Be’, come quasi sempre, poiché
– per dirla ancora con Kraus – «il tipo meschino che nega la
sofferenza degli altri per assicurarsi la propria incolumità appartiene a
questa regione e a questa nostra epoca».
* * *
Lessico universale ragionato
Mito fondativo
Dicesi mito fondativo la favola edificante capace di accreditare
una transizione di regime allorché l’anima
popolare non sia sufficientemente matura da sopportarne la rappresentazione
veridica. Costituiscono il mito fondativo: a) una interpretazione similstorica, che taccia quello
che c’è da tacere, inventi quello che bisognerà ricordare, esibisca la
necessità della transizione e convalidi le credenziali del nuovo ceto politico;
b) l’enunciazione delle
soddisfazioni di cui si dovrà appagare l’anima popolare in conformità con il
nuovo regime; c) l’obliterazione
di ogni diversa attesa dell’anima popolare. Secondo due noti esperti del ramo
(Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914–1918, Sansoni, Milano 2004, p. XVII), epigoni non
necessariamente consapevoli del lascito fascistoide di Vilfredo Pareto e
Gaetano Mosca, «qualunque Paese o movimento che si rispetti ha i suoi ‘miti di
fondazione’, il problema insorge quando è troppo scettico e incredulo per
averne». Da questa importante e autorevole proposizione si evincono altre
condizioni del mito fondativo: d)
il dubbio, vuoi sistematico o pirroniano vuoi metodico o cartesiano, deve
essere rigorosamente bandito: la credulità è irrinunciabile condizione di
esistenza del mito fondativo; e)
la rispettabilità di un Paese o movimento è funzione della sua credulità: tanto
più dabbene quanto maggiore la dabbenaggine; f) l’efficacia di un mito fondativo si misura dunque
sul tasso decrescente di razionalità dell’anima popolare ed è massima quando ne
sia stato rimosso ogni residuo e la fede nel mito fondativo abbia saturato gli
spazi vuoti. Si sono visti vari esempi di questa pienezza nel passato remoto,
ma soprattutto in quello recente. I due autori menzionati peraltro non sembrano
attribuire importanza a questi precedenti, preoccupandosi piuttosto che un
eccesso di incredulità renda difficile ad un Paese di godere di un buon mito
fondativo. Essi comunque non propongono rimedi ad una tale perniciosa anomalia;
in proposito l’orientamento prevalente tra gli esperti del settore sembra
infatti di delegare l’insorgere del problema ad apposite istituzioni
correttive.
Mitografia.
Contestualmente al suo insediamento, la classe politica ispira il mito
fondativo del nuovo regime e ne appalta l’elaborazione ad una speciale
categoria di esperti detti mitografi,
generalmente già in esercizio nel precedente regime, ma anche esordienti
ansiosi di identità professionale. Poiché la credulità nel mito è l’indice più
attendibile dell’ampiezza e della tenuta del consenso popolare, è importante
per il regime che il mito stesso sia massimamente inverosimile. L’autorità ed
il prestigio professionale del mitografo dipendono dunque dalla sua creatività,
la quale peraltro, lungi dall’essere una mera dote naturale, come si potrebbe
pensare, si consegue attraverso una lunga e spesso logorante milizia
mitografica. In proposito gli autori sopra richiamati forniscono una
illuminante testimonianza, riconoscendo due fasi distinte nella propria
frequentazione della disciplina. Originariamente indirizzarono l’agenda dei
loro lavori «verso la protesta, il dissenso, la repressione»; poi – si
sa, l’età, la famiglia, la carriera, c’eravamo tanto amati, c’è un tempo per piangere
e un tempo per ridere –, insorse «il problema di come si affermino forme
di disciplinamento delle masse e di governo delle istituzioni, con tutti i
processi organizzativi e mentali che vi corrispondono, tra coercizione e
partecipazione» (ivi, pp. XII s.). Il mitografo si deve considerare maturo
quando, al termine di questa evoluzione, sia in grado di apprezzare l’infame
carnaio della Grande Guerra (13 milioni di morti) come «un memorabile accumulo
di vissuto collettivo» (ivi, p. XIII) e di scrivere ai giornali invocando una
giornata di magnificazione delle Forze Armate. Con narcisistica presunzione di
sé può allora riassumere questa evoluzione dicendosi mitografo «di lotta e di
governo» (ibid.), ossimoro solo
apparente, lubricamente mutuato dal lubrico linguaggio dei politici. Tuttavia
ci sono altri modi di dire la cosa. Un vecchio detto recitava: A
vent’anni giacobino, a trenta girondino, a quaranta codino. Poi anche l’età media dei mitografi si è allungata e
il vecchio detto non aiuta più. Lasciamo al lettore stabilire che cosa sia un
mitografo a settant’anni. Non è difficile.
Applicazioni. Mito della Resistenza. Il mito fondativo presenta una vasta gamma di
modalità applicative a seconda della natura del regime cui si riferisce. Un
regime che preveda un capo supremo e inamovibile, per esempio, avrà caro che si
insista sulla natura provvidenziale e anzi misterica della designazione e della
perpetuità e sulla natura sacrilega di ogni idea di ricambio; al contrario, un
regime a rotazione delle cariche chiederà al mitografo di enfatizzare il mito
dei miti, la madre di tutti i miti, il mito della libera scelta popolare. In
entrambi i casi è richiesto un massimo di invenzione da una parte e di
credulità dall’altra. Al di là di questi temi obbligati il mitografo può dare
prova della sua creatività elaborando liberamente motivi mitici complementari
di collaudata presa sull’anima popolare. Per esempio, nel primo caso, può
evocare una ascetica solitudine pensosa del bene comune nelle stanze appartate
e silenti di questa o quella Città Proibita, interrotta di quando in quando da
straordinarie esibizioni sportive concesse all’adorante ammirazione dei fedeli;
nel secondo caso possono esaltare la fantasia del mitografo sia la periodica
inconsulta felicità con cui il popolo delega la propria vita ai suoi despoti
sia il ben motivato fair play di
questi.
Scendendo dal generale al particolare il mito della Resistenza italiana si
presta bene ad esemplificare l’irrinunciabile utilità dei miti fondativi. Non
sono mancati e tuttora non mancano i tentativi di delegittimare questo mito di
fondazione della Repubblica, cui eminentemente si contesta la versione
unilaterale delle atrocità della guerra civile. Tra i contestatori non mancano
attualmente alcuni di coloro che a suo tempo hanno contribuito all’elaborazione
del mito, a conferma che in tema di miti fondativi la resipiscenza è canonica
nella terza età. Non è chiaro tuttavia di che si lamenti chi si lamenta. Un
mito è bugiardo per sua natura e la guerra è universalmente atroce per la
natura sua, come sanno bene gli storici prima di diventare mitografi e
inventare miti sui diversi tassi di umanità degli eccidi e delle torture o i
politici che deplorano il tabù della guerra, che per loro è generalmente
gratis: quale che sia la guerra, guerreggiata e non, sociale, di liberazione,
di indipendenza, santa, umanitaria, atlantica, delle Nazioni unite, in missione
di pace. Sembra pertanto più pertinente esaminare sinteticamente il mito
fondativo della Resistenza in relazione alle esigenze che lo dettarono e ai
risultati che ne conseguirono.
Il problema della Resistenza come mito di fondazione era di dover accreditare
come fondazione, inizio, palingenesi la continuità e la conservazione. Il
vecchio Stato non c’era più ma c’era ancora. Aveva tradito cercando codardo
scampo al Sud o asservendosi al nemico al Nord. Aveva tradito anche prima,
prima ancora di nascere, nelle fucilazioni garibaldine di Bronte, e poi in
infinite stragi come quella di Milano del ’98, nella vergogna dell’emigrazione
di massa, trascinando il Paese in due massacri mondiali, consegnandolo al
fascismo. L’aveva anche profondamente corrotto implicandolo in ignobili guerre
coloniali contro popoli inermi, nella strage sanfedista in Spagna, rendendolo
complice dell’infame legislazione razzista. La Resistenza non fu solo guerra ai
tedeschi e ai fascisti, fu guerra contro questo Stato e riscatto da questo
passato. E fu anche consapevolezza e lotta di classe, come nello sciopero
generale del marzo ’44. Il mito fondativo della Resistenza fu la rimozione di
questi significati, la loro mistificazione mirata alla continuità delle
istituzioni. Servì a questo la favola per nulla innocente della Resistenza come
«secondo Risorgimento», affiancata allo stesso fine da altre pie leggende
alimentate dai migliori intellettuali su piazza: il mito del fascismo come
digressione senza radici nelle tradizioni nazionali e quello del razzismo da
mera suggestione esogena. Con queste convergenti malleverie mitografiche lo
Stato si mondò dei peccati del secolo, diventando rispettabile come vogliono i
mitografi; la Resistenza fu dissuasa dall’insistere, arruolata nelle
istituzioni, impegnata a promuovere il mito e bandire i riottosi. Dispensate a
piene mani amnesia, rimozione e concordia nazionale, ogni esame di coscienza
dello Stato e della nazione divenne superfluo. Che cosa sia uno Stato riciclato
su queste premesse è problema che non può essere lasciato alle parodie dei
mitografi.