di Alberto Prunetti
[Dopo la pubblicazione di brani delle memorie di Erminia Mattarelli Carmilla pubblica alcuni estratti da Potassa di Alberto Prunetti: altre schegge di memorie che documentano la resistenza popolare all’avanzata dello squadrismo fascista. Il primo brano racconta una rissa scatenata dall’arrivo di un gruppo di squadristi a Tatti, un borgo di minatori con una forte tradizione rossa, posto sulle colline dell’Alta Maremma]
21 maggio 1922. Il brigadiere dei carabinieri Mauri, di stanza a Tatti, si avvicina al caffè del Martelli. Il militare ama il quieto vivere e si accorge con un po’ di contrarietà della presenza di un gruppetto di fascisti all’interno del locale. Si rende conto che nasceranno guai. La presenza di questi sei o sette “schiavisti”, come li chiamano tutti in paese, non passerà inosservata. Già i primi comunisti cominciano a rallentare il passo nei pressi dell’entrata del caffè. Il brigadiere si fa coraggio e tenta di intercedere con le buone. Si avvicina al tavolo dei fascisti. Loro sono solo di passaggio, vengono da Torniella, un paese vicino alla provincia di Siena che ha ospitato una manifestazione fascista. Il carabiniere li invita bonariamente ad affrettarsi, perché il paese è pericoloso per la folta presenza di sovversivi.
Il carabiniere Mauri ha fatto il suo dovere. Adesso torna in strada, ferma altri carabinieri e aspetta il volgere degli eventi. Per strada riconosce le facce dei soliti facinorosi, gente come il comunista Albano Innocenti, come il Civilini, come il turbolento Gorelli, che sa solo creare disordini, che passa le giornate a leggere la stampa sovversiva e a svuotare fiaschi di vino e ostenta sfida e disprezzo nei confronti delle autorità. I fascisti poi hanno capito così bene i consigli del brigadiere che cominciano a cantare “Giovinezza”, l’inno fascista. Il canto attira altri sovversivi: c’è chi staziona davanti al locale, chi ogni tanto entra, come per sorvegliare il contegno degli avversari. Uno di questi comunisti, il Gorelli, fissa negli occhi il brigadiere. Poi, ad alta voce, indirizza al milite queste parole: “Cantano i fascisti non gli fate osservazione, mentre a noi voi mascalzoni di carabinieri o ci arrestate o ci fate la contravvenzione.” E il tutto proferito con un tono ed un contegno provocatorio.
Il brigadiere si irrigidisce. Rivolgersi così a un pubblico ufficiale? A un milite nell’esercizio delle sue mansioni? Dov’è il rispetto per la divisa? Quest’uomo ha commesso un reato. Portarlo in caserma, con tutti i suoi compagni presenti, può creare altra tensione. Ma quando è troppo è troppo, ormai i sediziosi si permettono ogni affronto. Il militare vuol mostrarsi risoluto: chiama gli altri carabinieri e intima loro di arrestare il Gorelli. I carabinieri stringono le mani attorno alle braccia del sovversivo e lo spingono verso la caserma, ma non hanno fatto dieci passi quando la folla comincia a stringersi su di loro.
È il momento di fare i conti con i compagni dell’arrestato. Albano Innocenti, noto caporione, comincia ad urlare: “Lo vogliamo levare dalle mani dei carabinieri!”. La folla si fa ancora più minacciosa. L’Innocenti sovrasta tutti colla sua voce: “Andiamo, via, lo vogliamo fuori!”. Il brigadiere è consapevole di rappresentare l’autorità, non può permettere di farsi sottrarre l’arrestato. Decide che è il momento di preservare l’onore della divisa che indossa e affrontare l’Innocenti, per far intendere a tutti che lui si opporrà con energia ai propositi dei sediziosi. L’Innocenti non rimane affatto impressionato dall’atteggiamento dell’uomo di legge, arriva addirittura a scagliarsi contro questi senza alcun timore. La colluttazione è violenta, gli altri sovversivi non stanno a guardare e si accalcano sul brigadiere Mauri. C’è chi lo strattona, chi cerca di immobilizzarlo. Girolano Civilini, un altro ribelle, lo tira per una gamba per farlo cadere a terra. Tutta la strada è occupata da questo violento parapiglia. Adesso Innocenti tenta di disarmare il brigadiere, riesce a staccare il correggiolo della fondina, ma il Mauri è lesto ad impugnare l’arma per primo. I due lottano intorno alla pistola, l’Innocenti morde la mano del carabiniere. Si fa sotto anche Robusto Biancani[nella foto, ndr], il calzolaio, che senza pensarci due volte si attacca ad una gamba del brigadiere, col proposito di farlo cadere. Ed infine questi cade. Tenta di rialzarsi, quando vede Temistocle Coli, vecchia tempra d’anarchico settantaduenne e amante del buon vino, dirigersi contro di lui con un bastone in mano. Nonostante l’età il Coli non vuol farsi sfuggire la buona occasione per regolare certi vecchi conti. La sua mano è salda: vibra un colpo sul fianco del carabiniere che produce un’escoriazione profonda.
Ma intanto rimbombano dei colpi d’arma da fuoco. Segno che anche i fascisti cominciano a farsi sentire. C’è un attimo di sconcerto, quanto basta al brigadiere per premere il grilletto di quella pistola che è riuscito a non mollare. Colpisce il Civilini, che non ha smesso di malmenarlo. Ma gli spari non si fermano, anzi, aumentano d’intensità. Il brigadiere si rialza e sebbene stordito si dirige verso la caserma. Fatti pochi passi viene raggiunto da altri carabinieri, che accorrono per vedere cosa sta accadendo. D’un tratto si fermano. C’è un uomo riverso per terra. Ormai è morto, lo riconoscono: è Patrizio Biancani, il padre sessantenne del comunista Robusto.
D’un tratto la strada si libera. Il tumulto è finito, la gente – sconvolta per l’assassinio del vecchio tatterino – si dilegua. Il brigadiere pensa solo a come redigere il verbale. L’importante è chiarire la propria posizione, evitare grane a se stesso e, nei limiti del possibile, ai fascisti. Riflette: lui non può aver ucciso il Biancani. La sua pistola ha sparato, ma si sono sentiti altri colpi. C’erano anche i fascisti, ed erano armati, è probabile che fossero armati, ma lui non ha potuto vederli. E in ogni caso dirà che tutti loro si sono difesi, perché i sovversivi li hanno provocati. Sembra credibile. È questo perlomeno che si deve sapere, che lui metterà a verbale, che la stampa deve scrivere e – immancabilmente – scriverà. Raccoglie le idee mentre procede verso la caserma, quando il gruppetto di fascisti lo raggiunge. Lo vedono ferito per le botte dei sovversivi. Gli propongono di vendicarsi: in poche ore possono far accorrere centinaia di squadristi da mezza Toscana. Ma il brigadiere ama il quieto vivere. Li dissuade dai loro propositi e li invita ad andarsene. Ha capito che il tempo delle vendette sui sovversivi è arrivato. Questione di giorni, di settimane, e la sfrontatezza dei sovversivi sarà ormai cosa del passato: non mancheranno occasioni di rivalsa. E poi in fondo lui è un uomo d’ordine, e non vuol fare l’eroe nemmeno per i fascisti: meglio stendere un bel verbale. Si siede sulla sua scrivania, attende per un po’ la musa, ma l’ispirazione tarda. Se la cava con un più prosaico codice penale e un modulo prestampato collo stemma sabaudo impresso.
[Potassa continua raccontando la storia del figlio di Biancani, morto durante gli scontri del 21 maggio. Per vendicare il padre Robusto Biancani insieme ad altri sovversivi ucciderà il 22 maggio 1922 due ricchi agrari del luogo, uno di note simpatie fasciste. La ritorsione dei fascisti a questo episodio non si farà aspettare: quella sera stessa 400 squadristi arriveranno a Tatti per devastare il paese e metterlo a ferro e fuoco. Biancani si renderà irreperibile. Fuggirà prima in Francia, poi in Unione Sovietica. Là morirà nel 1938, vittima delle purghe staliniste. ] A.P.