Il pianeta ha una voce e l’America la sta ignorando. Quest’ignoranza trascinerà il globo, entro il 2050, a un mutamento climatico che definire impazzito sarà un eufemismo di cui la specie non potrà permettersi il lusso: il collasso bioclimatico non aprirà un’èra di eufemismi o tantomeno di lussi.
Il mondo ha una voce e l’America la sta ignorando. Quest’ignoranza trascinerà il Medioriente in una situazione ancora più caotica sul piano etnico, civile, militare – e questo accadrà tra al massimo 60 giorni, se l’entusiasmo con cui George W. Bush ha accolto la sentenza a morte di Saddam Hussein troverà un appoggio nella decisione della Corte d’Appello, che già tutti sappiamo essere un fantoccio angloamericano.
Ieri la versione on line di Repubblica ha pubblicato un’emblematica sovrapposizione di icone, che è tipica del cattivo gusto ormai regnante in Occidente per merito dei barricaderi anglo-brianteo-texani: è la foto qua a fianco, dove si riprende la reazione di un uomo a cui si è detto in quel momento che morirà impiccato, mentre accanto si nota la statua celebrativa dello stesso, abbattuta con un cordame legato a nodo scorsoio. C’è tutto di noi, in quella doppia immagine: la nostra civiltà strapazzata da otto anni di deriva antiumana messa in prassi con guerre preventive, spezzati i protocolli geopolitici e militari che strappavano qualunque trattato di consolidata funzionalità (mi riferisco a quello di Westfalia), decerebrato l’istituzione già pericolante delle Nazioni Unite, fino a giungere all’immorale ma algebrico esito di una risata granguignolesca, un entusiasmo da boia che è lo specchio esatto di quanto fu, prima di cadere, il candidato alla forca Saddam Hussein. E’ inutile evocare l’efferatezza di quest’ultimo, per giustificarne quest’atto che sta tra l’apotropaico pre-neanderthaliano e l’aiutino per le elezioni di mid-term, dove Bush preconizza una possibile fine anticipata ai suoi giochi di sangue, petrolio ed emissioni di anidride carbonica. Quanti dittatori saranno persuasi, dalla fine comminata a Saddam, a rabbonirsi? Quante stragi e pulizie etniche non hanno sortito il medesimo esito, con una potenza che si autopretende imperiale e va nei quattro cantoni a “esportare la democrazia”? Quanti Mobutu o Amin Dada hanno stimolato l’intervento della Riserva Nazionale USA perché era ingiusto quanto avevano perpetrato nei loro Paesi? E anche adesso, in Darfour, perché non intervenire con i medesimi mezzi?
Tuttavia, questi sono argomenti che provengono da una prospettiva di civiltà in cui ci sentiamo iscritti. Purtroppo non è la prospettiva delle élites che, la guerra in Iraq, l’hanno voluta e l’hanno disastrosamente fatta. Si poteva organizzare una cover-action per assassinare il dittatore, risparmiando non so più quante vittime civili, mentre so per certo quanti soldati americani: tremila. Una guerra chirurgica che ha preso talmente la mano al chirurgo, che se l’è resecata. Stiamo pure sul piano delle ipocrisie, ammettiamo che gli ideali, spacciati alle masse con i ritmi propagandistici della menzogna à la Goebbels, siano effettivi: l’Occidente (gran parte di esso, noi italiani compresi) va in Iraq a “esportare la democrazia”. Ebbene, ecco la democrazia: inizia con una condanna a morte. Inizia con una Corte capitanata da un sosia curdo del capitano Picard dell’Enterprise (c’è da rimpiangere Kirk), il quale assume toni di voce e mimiche facciali che sono identici a quelle del giudice nazista che processò (si fa per dire: la condanna era scontata) Von Stauffenberg e i congiurati che attentarono fallimentarmente alla vita di Hitler (in Rete è disponibile il filmato di quel processo: invito chi ha tempo e voglia a verificare le analogie tra i due magistrati). L’intero sistema legale del nuovo Iraq è stato elaborato da esperti angloamericani. Difensori di Saddam sono stati via via eliminati, attraverso soppressione fisica. Ho a cuore la vicenda curda, e tuttavia mi sembra ai limiti della follia eseguire una sentenza che altri risultati non sortirà che rendere una polveriera ancora più instabile e pericolosa un’intera regione, non soltanto l’Iraq.
Mezza Baghdad ha festeggiato l’annuncio della corda per il suo ex dittatore con la veemenza degli imbecilli: “adesso ti faccio vedere come parla un italiano”, posso dire ricalcando un motto ambiguo subito penetrato nei nazionalismi più beceri, e sostenere che quella stessa veemenza gioiosa fu sperimentata a piazzale Loreto in Milano, quando appesero i cadaveri di Mussolini e della Petacci. Con la differenza sostanziale che fu la lotta partigiana, quale ultimo atto di guerra, a comminare l’omicidio del dittatore, e non un Paese straniero invasore a farlo per stappare la bottiglia di champagne millesimato (cioè ridotto ai millesimi) della nuova democrazia iraqena. Chi sottovalutasse l’impatto simbolico dell’uccisione di Saddam per impiccagione, non si lamenti poi dei riflussi epigastrici spaventosi che l’Islam scaricherà sui responsabili: non tanto gli sciiti, quanto gli europei e gli americani.
L’immoralità della pena di morte è patente rispetto alle nostre conquiste in termini di civiltà. Non si dà nemmeno per scherzo arretrare, come generalmente si sta facendo, sui diritti acquisiti (e si arretra invece sui diritti civili acquisiti ovunque, in Occidente: diritto sul lavoro, diritto sulla propria esistenza, diritto alla propria riservatezza…). Qui, tuttavia, l’Occidente mostra il suo volto definitivo, la sostanza lugubre che regge la fintissima democrazia di cui tanto va fiero. Con l’impiccagione di Saddam, l’Occidente impicca se stesso.
Non basta. Saddam è una variabile storica, mentre l’ostinato rifiuto di Bush ad allinearsi al protocollo di Kyoto non lo è: mette a repentaglio l’intera specie. Lui che governa il 5% della popolazione mondiale ha la potestà sul 25% del totale planetario delle emissioni nocive all’atmosfera. Nel corso del suo primo mandato, per decreto ha abolito gli unici residuali di controllo e ammortizzamento degli inquinanti prodotti dalle fabbriche statunitensi. Poiché soltanto l’argomento economico sembra suscitare sensibilità in questa Weimar allargata che è l’Occidente in piena decadenza, varrà la pena di ricordare quanto recentemente pubblicato su Repubblica:
Fino al 20 per cento del prodotto lordo mondiale perso per colpa del global warming. E fino a 200 milioni di profughi, l’esodo più massiccio della storia moderna, in cammino per scappare dal deserto. Sono le due cifre che riassumono lo scenario del futuro climatico dipinto non da un ambientalista ma da un ex dirigente della Banca mondiale, l’economista Nicholas Stern.
Il rapporto, anticipato da The Observer, cade come un colpo di frusta nel salotto buono dell’economia che finora aveva cercato di minimizzare le conseguenze dei cambiamenti climatici prodotti principalmente dal modello energetico basato sul petrolio e sui combustibili fossili. In uno studio di 700 pagine, commissionato dal governo britannico e pubblicato oggi, Stern analizza con puntiglio l’impatto del riscaldamento globale sui vari comparti produttivi da oggi al 2100, e lo scenario che emerge è impressionante.
Nella migliore delle ipotesi il 5% del prodotto lordo dovrà essere speso per riparare i danni prodotti dal nuovo clima, ma nello scenario peggiore si arriverà al 20%, cioè a 5,5 trilioni di euro. L’effetto combinato dall’aumento dei fenomeni estremi (siccità, alluvioni, uragani), del collasso di interi settori agricoli e dell’aumento del livello dei mari costituisce un pericolo gravissimo per la capacità di tenuta dell’economia mondiale e per gli equilibri politici, nonché per le specie viventi, delle quali il 40% sarebbe a rischio. L’inaridimento di interi paesi costringerà fino a 200 milioni di persone a mettersi in marcia per cercare una terra in cui sopravvivere: una pressione demografica rapida e violenta destinata a far crescere tensioni già alte.
Sono argomenti per me disgustosi, ma che tatticamente possono essere utili a forare il cerone di questa tecnocrazia scatenata, non solamente americana, che sta conducendo il mondo al collasso e le popolazioni a praticare l’oblio sistematico rispetto a eventi spaventosi, e per questo ammonitori e memorabili, come lo tsunami che, soltanto due anni orsono, causò la morte di 280.000 indonesiani – e che adesso nessuno ricorda, con la medesima intensità con cui il popolo arabo si ricorderà invece della stimmata che il Presidente texano avrà inciso sul loro corpo inoccidentalizzabile.