di Willer Montefusco
[«E se le persone che entrano
in modo silenzioso e ci aiutano a risolvere tanti problemi non si vedono, al
contrario le nostre strade e i nostri quartieri si affollano in tutta evidenza
di immigrati che si dedicano ad attività illecite, occupano giardini, stazioni
e altri spazi pubblici. La gente reagisce con ansia, ostilità, rancore». Così,
senza pudore, il ministro Livia Turco (I
nuovi italiani. L’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza, Mondadori,
Milano 2005, p. 17), che sull’adempimento del mandato europeo a straziare vite
migranti si è costruita una solida carriera: all’ombra, si capisce, del vecchio
apologeta dei massacratori di Budapest, da poco assurto alla vetta.
L’importante intervento di Willer Montefusco ha innanzitutto il pregio di
smascherare la ferocia pedagogica dei luoghi comuni istituzionali. RDC]
Il tema della relazione è «Culture,
intercultura, multiculturalismo». Ma non partirò da queste parole e concetti
ormai parte delle retoriche dilaganti in rapporto ai migranti per farne la
storia, per decostruirle in funzione critica, per mostrarne la funzionalità
politica. Vorrei piuttosto partire dai migranti stessi, anzi dalle parole di
una migrante, che ha partecipato ad un corso di formazione per l’insegnamento
della lingua italiana ai migranti organizzato alcuni mesi fa a Pordenone
dall’Associazione Immigrati.
Il corso è stato impostato in modo un po’ anomalo,
nel senso che era aperto non solo agli insegnanti, ma anche a questa figura
piuttosto ambigua, anzi molto ambigua, che viene definita mediatore/mediatrice
culturale. La ragione di questa impostazione è che, nei corsi, si parla di
migranti, dell’insegnamento della lingua italiana ai migranti, dei bisogni dei
migranti, di come sia meglio fare così o così per facilitare l’apprendimento
dei migranti, ma i migranti non ci sono mai. Sono sempre oggetto di teorie e
pratiche, mai soggetti. Fare intervenire i mediatori era un modo per dare
presenza corporea e voce ai migranti stessi, e per sottolineare il fatto che
l’insegnamento-apprendimento della lingua non è affare solo degli insegnanti,
ma soprattutto dei migranti. Devo dire che la cosa non ha funzionato, o almeno
non come ci si aspettava, perché la loro presenza, soprattutto femminile, è
stata sporadica, a causa dei ben noti problemi connessi alla condizione
migrante: precarietà, turni di lavoro, ecc. Tuttavia, tra i loro interventi, di
vario interesse, uno in particolare penso che vada isolato perché credo che ci
dica molte cose. È di una giovane signora polacca, che purtroppo è intervenuta
una sola volta, e che al forum di discussione del corso, scriveva:
«Sono della madre lingua
polacca e sono in Italia da l0 anni. fino ora ho avuto esperienze come
tradutrice, ma non come mediatrice, perciò questo corso mi interessa molto
perchè imparo nuove cose anche in vista di una possibilita di avere in futuro
esperienza come mediatrice. ma che cosa e’ per me adulta straniera una
accoglienza possibile? non sentirmi a disaggio come mi e’ capitato qualche
volta, non sentire la “curiosita” degli altri con gli occhi adosso a me. adesso
che conosco meglio la lingua e posso rispondere a le domande riesco anche a
difendermi, ma penso sempre che cosa puo sentire un bambino, ragazzo straniero
che si trova in una realta per lui del tutto nuova? per me la lingua e stata la
prima grande difficolta e penso che lo e anche per gli studenti stranieri che
arrivano qui».
Queste parole, e in particolare
alcune frasi, mi sembrano assai interessanti e dicono sui migranti molto più di
analisi più o meno sofisticate, ma fatte da un punto di vista esterno.
«Non sentire la curiosità
degli altri con gli occhi adosso a me»:
critica semplice e radicale di ogni forma
di inter- e multiculturalismo. ‘Curiosità’: fa venire subito in mente le parole
di Badiou: «Il fondamento oggettivo (o storico) dell’etica contemporanea è il
culturalismo, il fascino veramente turistico per la molteplicità delle
abitudini, dei costumi, delle credenze».[1] È il presupposto del
multiculturalismo, che pensa la ‘cultura’ come essenza delimitabile, definita,
omogenea, reificata, nascondendone così tutte le relazioni interne di potere e
tutte le tensioni e considerandola come complesso di prescrizioni che
determinano normativamente i comportamenti dei singoli. Così si parla della
cultura o civiltà islamica, delle culture africane, espressioni del tutto prive
di significato che coprono realtà diversissime e con le loro contraddizioni
specifiche situate nel tempo e nello spazio. ‘Cultura’ che si ha o non si ha o,
peggio, a cui si appartiene o non si appartiene, e a cui soprattutto si tiene.
La conseguenza è, secondo la collocazione politica, un arco di atteggiamenti
che va dalla irriducibilità e incomunicabilità delle varietà culturali –
del tipo «Padroni a casa nostra!» e difesa delle radici giudaico-cristiane
– fino al rispetto delle differenze (ma a patto che non siano troppo
differenti!), passando naturalmente per la tolleranza. Differenze che, nella
versione ‘buona’ del multiculturalismo andrebbero conservate e/o scambiate e
armonizzate. Grosso equivoco, perché non è affatto ovvio che chi le ‘ha’ le
voglia conservare; per molti anzi sono un bagaglio pesante e una situazione da
cui liberarsi, come per la maggior parte delle donne migranti dell’Africa e
dell’Asia, per le quali la migrazione è occasione per sottrarsi a rapporti
familiari e sociali spesso oppressivi, con buona pace dei cultori della sana
famiglia patriarcale e delle società dove ancora esistono legami saldi e dotati
di ‘senso’, e dove le mele hanno ancora il sapore di una volta. E questo deve
essere vero per la gran parte dei migranti, se è vero che sfidano leggi e
polizie e rischiano anche la vita per venire e passare e/o restare qui. Qui non
si vuole assolutamente teorizzare la superiorità della nostra ‘civiltà’ sulle
altre: si vuole semplicemente dire che ognuno, nelle condizioni date, decide
ciò che è meglio per sé e si muove di conseguenza.
‘Curiosità’ è parola comune e
quotidiana, e bella, nel senso che ci permette di capire la condizione della
migrante così come la vive ogni giorno, dal punto di vista della singolarità,
non delle astrazioni teoriche, e ci dà la percezione della sua collocazione
all’interno dei discorsi multiculturali che strutturano la sua vita. Si entra
in una pratica discorsiva già in una certa posizione, si entra come migranti,
stranieri, le domande a cui ci si aspetta che rispondano sono già formulate e
anche le risposte. Il lessico lo conosciamo: permesso di soggiorno, contratto
di lavoro, rinnovo, carta di soggiorno, clandestino, irregolare,
ricongiungimento familiare, e ancora, integrazione, rispetto delle differenze,
tolleranza, nella versione progressista. In sostanza fa del migrante un
portatore di ‘problemi’. Non si vuole dire che è il discorso che crea il migrante,
il discorso è funzionale ad una certa collocazione concreta nei rapporti di
lavoro e sociali. Ma anche qui, funzionale non nel senso che ne deriva, nel
senso che non si coglie l’uno senza l’altra, non si può leggere la collocazione
se non attraverso il linguaggio che la definisce e viceversa. Nel momento in
cui si entra in una lingua, da bambini o da adulti, si entra in un sistema di
presupposti impliciti, in una rete di gerarchie e di ruoli che definisce chi,
quando e come è autorizzato a parlare, chi come e quando è autorizzato a fare
domande e chi come e quando è tenuto a rispondere. E queste gerarchie sono
«concatenamenti collettivi di enunciazione, atti giuridici, equivalenti di atti
giuridici, che distribuiscono i processi di soggettivazione o le assegnazioni
di soggetti nella lingua…».[2] La parola non è comunicazione di
un’informazione: «ordinare, interrogare, promettere, affermare, non è informare
di un comando, di un dubbio, di un impegno, ma effettuare questi atti specifici
immanenti, necessariamente impliciti… Chiamiamo parole d’ordine […] il rapporto
di ogni parola o di ogni enunciato con presupposti impliciti, cioè con atti di
parola che si compiono nell’enunciato e possono compiersi soltanto in essi. Le
parole d’ordine rinviano a tutti gli atti che sono legati a enunciati da un
“obbligo sociale” […]. Non vi è enunciato che non presenti questo legame,
direttamente o indirettamente. Il linguaggio non può essere definito se non
dall’insieme delle parole d’ordine che insistono a un dato momento in una
lingua».[3]
Il tentativo di sfuggire a queste
parole d’ordine può assumere forme diverse. Una di queste è il semplice
rifiuto, il sottrarsi alla ‘curiosità’: è la deriva ‘comunitaria’, come si
dice, ognuno sta con i suoi, le ‘comunità’ non comunicano né tra loro né con la
società che vuole integrarli. È il cruccio delle politiche multiculturali
progressiste: noi vogliamo che si integrino, facciamo cose- convegni,
«politiche di integrazione» spendiamo anche soldi – pochi –, ma
loro restano separati, restano altri, non si mischiano. Nessuno si chiede: ma
perché dovrebbero? Eppure non c’è nessuna rivendicazione forte di identità
particolari nel rifiuto, nessuna ‘autenticità’ da preservare. Basta avere un
po’ di familiarità con le ‘comunità’ per capirlo. Nell’ultima festa ghanese
alla quale siamo stati invitati, chi si sarebbe aspettato di venire a contatto
con un pezzo di genuina cultura ghanese (?) o africana (?) sarebbe rimasto
drammaticamente deluso, visto che consisteva nell’elezione di miss Ghana in Italia.
Cosa da far rabbrividire i cultori delle culture e le anime delicate che amano
il rispetto delle differenze.
In realtà non c’è nessuno più integrato e facilmente integrabile dei migranti: non appena arrivano trovano lavoro
– nei quattro settori canonici: fabbrica pesante e nociva, edilizia,
servizi di pulizia e facchinaggio, badanti. Addirittura questi lavori li
aspettano prima ancora che arrivino. Al contrario, difficoltà di integrazione
ce l’hanno i giovani italiani, che non trovano lavoro – più precisamente
non trovano il lavoro che vogliono –, i cassintegrati, i licenziati di
una certa età, le donne. Ma non i migranti.
Non solo, la stessa legislazione
speciale sull’immigrazione non è altro che un meccanismo di inclusione, di
integrazione attraverso l’illegalità:
nel momento stesso in cui definisce procedure di inclusione legale e quindi di
limitazione, ne attiva il loro rovescio complementare, l’inclusione attraverso
la soglia di illegalità che la legge stessa produce. Non l’espulsione, ma la possibilità di espulsione, che definisce sia la condizione legale
che quella illegale – anche i migranti regolari possono sempre diventare
irregolari nel momento in cui vengono a mancare le condizioni della loro
regolarità – è il punto di sutura dei due processi.
Integrabilità ancora più evidente
se si considera che la caratteristica fondamentale di questo tipo di forza
lavoro è la estrema mobilità. Sebbene
siano diffusi in segmenti specifici del mercato del lavoro, la loro mobilità
all’interno di questi segmenti e tra un segmento e l’altro è altissima: proprio
ciò di cui la produzione basata sulla massima flessibilità ha bisogno. Il
rapporto di lavoro del migrante è essenzialmente intermittente: oggi lavora in
fabbrica, sei mesi dopo in un ristorante, dopo altri due mesi di disoccupazione
torna a lavorare in una impresa di pulizie. Il fondamentale nomadismo
degli immigrati, se non sostanziale,
almeno caratterizzante un segmento relativamente lungo della loro vita
lavorativa, li porta quindi a percorrere tutto il territorio, e i periodi di
disoccupazione, oltre a ricostituire la forza lavoro, vengono spesi nella
ricerca di lavoro o di condizioni migliori di lavoro. Questo significa che nel
loro vagare accumulano sempre maggiori quantità di informazioni e di conoscenze
sul territorio, sulle relazioni e le condizioni sociali che si intrecciano su
di esso, sulle istituzioni e sul loro ruolo. Se è vero che «il nuovo capitale
fisso è costituito dall’insieme dei rapporti sociali e di vita, dalle modalità
di produzione e di acquisizione delle informazioni che, sedimentandosi nella
forza lavoro, vengono poi attivate lungo il processo di produzione»,[4]
e se a questo si aggiunge il confronto continuo con una realtà estranea che chi
vive in un paese straniero deve sostenere e che aumenta continuamente la capacità
di maneggiare, manipolare e intrecciare codici linguistici, simbolici, reti
relazionali, si capisce come
non solo non sia possibile considerare marginale questo segmento di forza
lavoro, ma come anzi esso abbia tutte le caratteristiche essenziali della
nuova figura produttiva dell’epoca cosiddetta post-fordista. La produttività non è misurabile sulla base della
quantità di prodotto per ora lavorata e non è neppure riferibile ad una azienda
o ad un settore specifici; essa misura invece un insieme di fattori che
«trascendono il singolo lavoratore, permettendo a questo di essere creatore di
ricchezza in quanto membro di una collettività»:[5] da
questo punto di vista, la mobilità come determinazione essenziale fa dell’immigrato un individuo
immediatamente sociale,
capace di inserirsi, di integrarsi appunto, e attraversare gli ambiti e le reti
di relazioni diverse che strutturano e rendono produttivo il territorio.
A questo si aggiunga il fatto che
la maggior parte dei migranti non provengono affatto da sperduti luoghi
dell’ex-terzo mondo, ma da grandi o medie metropoli, se è vero che in Asia le
città crescono al ritmo del 3% annuo e in Africa si arriva al 4%, e i processi
di globalizzazione, con la distruzione dell’agricoltura tradizionale, attirano
sempre più in città persone che vi vedono migliori opportunità che non nelle
campagne. L’indebolimento dei legami tradizionali, il tipo di esperienza di
vita, il tipo di sapere necessario per sopravvivere in una città non
differiscono di molto, pur con le loro specificità, dalla nostra esperienza del
dissolvimento delle relazioni sociali e del ‘sapere di strada’ necessario per
orientarsi e vivere nelle nostre città, e costituiscono una base non secondaria
della integrabilità e produttività dei migranti.
Se poi per problemi di
integrazione si intendono i conflitti derivanti dalle ‘differenze culturali’,
dal ‘rapporto con la diversità’, secondo l’antropologia turistica di cui parla
Badiou, o, con un linguaggio più dotto, con ‘l’Altro’, a costo di semplificare
al massimo, è bene dire che sono di per sé tanto rilevanti quanto le liti di
condominio. Liti di condominio, perché di questo si tratta, laddove si
producono. Chi non ha o non ha avuto problemi con qualche vicino, perché tiene
il volume del televisore troppo alto o perché litiga spesso con la moglie? E
però, se questo capita tra italiani, nessuno ci fa caso e i soggetti coinvolti
se la sbrigano come credono – discussione pacata, accordo, insulti, vie
di fatto o l’avvocato. Se accade con o tra migranti viene elevato alla dignità
di problemi politici e di organizzazione generale della società
‘multiculturale’. Irrilevanti, se non servissero a strutturare e rendere
dominante una certa pratica discorsiva, che ha poi valenza performativa. Il
fatto stesso che si ‘solleva il problema’ crea il problema, serve a creare la questione dell’integrazione del
migrante e quindi il migrante come
portatore di problemi di convivenza culturale sulla cui pelle si fanno
regolamenti, convegni, si programmano interventi con gli inevitabili esperti:
la solita cantilena dei ‘diritti e dei doveri’, il cui obiettivo è produrre
ulteriori regolamenti e leggi, cioè ulteriori doveri fin nelle pieghe dei
comportamenti individuali.
E volendo, dopo la
semplificazione, recuperare il livello di complessità, è anche bene dire che se
problemi di ‘integrazione’ e di ‘convivenza’ esistono, essi coinvolgono non
tanto e non solo i migranti, ma l’intera
articolazione degli spazi entro
cui si strutturano oggi le relazioni sociali, e investono «il diritto di
esistere in un determinato luogo piuttosto che un altro, e la questione della
prossimità spaziale adombra piuttosto il diritto di alcuni gruppi ad occupare
determinati spazi in virtù del loro potere».[6] Anche qui, i migranti,
più che esserne la causa, sono semmai nello stesso tempo il punto di massima
rappresentatività del problema e il punto di massima esposizione, costituendo
il gruppo che per definizione ha meno potere.
«Posso rispondere a le domande»: a quali domande? Tutta l’esistenza dei migranti è
fatta di domande: Chi sei? Da dove vieni? Dove lavori? Quando sei arrivato? E
così via. Sul lavoro, negli uffici, a scuola e soprattutto in questura:
Hai il passaporto? Hai il permesso di soggiorno? Hai la
fotocopia della busta paga? E avanti. Tutta la condizione migrante è
marcata in modo esemplare da quell’«Ehi, tu!» del poliziotto, dell’insegnante,
dell’impiegato del comune… che caratterizza l’interpellation, la chiamata di cui parla Althusser[7] (con
una leggera differenza, che è essa stessa significativa: l’espressione usata da
Althusser è: «Ehi! lei, laggiù!», che di solito è riservata agli italiani), e
in base alla quale «è la polizia che dà inizio alla chiamata in virtù della
quale un soggetto è costituito socialmente. Il poliziotto non solo rappresenta
la legge, ma la sua apostrofe “Ehi, tu!” ha l’effetto di vincolare la legge a
colui che viene chiamato. Questo ‘qualcuno’ che non sembra in una situazione di
trasgressione prima della chiamata (per il quale, dunque, la legge stabilisce
che una data pratica è trasgressiva) non è un soggetto sociale completo, non è
pienamente soggettivizzato, poiché non è stato/a ancora rimproverato/a. Il
rimprovero non solo reprime o controlla il soggetto, ma costituisce un momento
fondamentale della formazione giuridica e sociale del soggetto. La chiamata è
formativa, se non performativa,
proprio perché inizia l’individuo allo stato assoggettato di soggetto».[8]
«Posso rispondere»: ovviamente non in termini di correttezza
grammaticale e sintattica. Il poter rispondere va collegato al «riesco
a difendermi», rispondere ciò che è meglio
per me, per la mia difesa contro
le domande, per capire cosa le domande del potere vogliono da me per poter
rispondere nel modo migliore per me.
Eventualmente per mentire:
pratica assai diffusa tra i migranti, il cui aspetto concreto è il fiorente
mercato di documenti falsi, ondate di patenti rilasciate tutte nello stesso
periodo e nello stesso paese straniero, pronte per la conversione, permessi di
soggiorno rivenduti, fotocopie di documenti con foto di neri in cui il volto è
una macchia nera che impedisce qualsiasi tentativo di identificazione (tanto
sono tutti uguali!) – ed è bello anche questo giocare con e sulla propria
pelle nera. Che non ci si possa fidare dei migranti è perciò un pregiudizio
diffuso ed è abbastanza fondato:
è vero i migranti mentono spesso e a volte spudoratamente. Anche noi che
lavoriamo con loro da 15 anni, quando vengono perché hanno bisogno di qualcosa,
scartiamo sempre e subito la prima versione dei fatti: quando poi spieghiamo
che non abbiamo niente a che fare con la questura, vengono fuori storie
incredibili e percorsi funambolici. Ormai è una specie di rituale: adesso che
ci hai raccontato le tue balle, dicci come stanno veramente le cose, se no non
possiamo fare niente per te.
Mentire necessita di una
conoscenza almeno dell’essenziale della lingua e della situazione, della lingua
che serve in quella situazione. «Mentendo ci si rivolge ad altri […],
destinando all’altro […] una serie di enunciati […] di cui il mentitore sa, in
piena coscienza, una coscienza esplicita, tematica e attuale, che essi
costituiscono delle affermazioni totalmente o parzialmente false. Questo
sapere, questa scienza e questa coscienza sono indispensabili all’atto del mentire,
e la consapevolezza di questo sapere non deve riguardare solamente il contenuto
di ciò che è detto ma il contenuto di
ciò che è dovuto all’altro, così
che il mentire appaia pienamente al mentitore come un tradimento, un torto,
l’inadempimento di un debito o di un dovere».[9] Quale inadempimento,
che cosa è dovuto all’altro, al poliziotto, allo Stato? La risposta alle
domande, la sottomissione all’interpellation dello Stato, e non solo, eventualmente
dell’assistenza sociale ecc., insomma lo Stato in tutte le sue articolazioni.
«La menzogna comporta una manifestazione di tipo performativo, implica una
promessa di verità, anche laddove la tradisce, dal momento che mira anche a
creare un evento, a produrre un effetto di credenza laddove non c’è nulla da accertare
o quantomeno laddove nulla si esaurisce in una constatazione».[10]
L’evento è di volta in volta il permesso di soggiorno, il ricongiungimento
familiare, il nullaosta per questo e per quest’altro, i soldi per l’affitto,
ecc… Lo Stato non fa altro che rincorrere le menzogne e riaggiustare le
domande. Infatti adesso hanno dovuto escogitare l’identificazione
dattiloscopica, più avanti magari col DNA e sarà interessante sapere cosa i
migranti si inventeranno per mentire anche a queste domande, contribuendo così
allo sviluppo della biologia molecolare. Facendo riferimento alla teoria degli
atti linguistici, si potrebbe dire che la lingua non serve per comunicare, ma
per comandare: «Il linguaggio non è fatto nemmeno per essere creduto, ma per
obbedire e far obbedire […]. Si comunica soltanto la quantità minima
d’informazione necessaria all’emissione, trasmissione e osservazione degli
ordini in quanto comandi».[11] Si potrebbe allora dire dal punto di
vista che ci interessa che il modo fondamentale della lingua, di ogni lingua, è
l’imperativo. Quando il poliziotto dopo, l’«Ehi, tu!» al migrante passa alla
domanda: «Hai il permesso di soggiorno?», in realtà dice: «Fammi vedere il tuo
permesso di soggiorno! Fammi vedere ciò che mi è dovuto. Mostrami la tua
obbedienza!» E la risposta del migrante spesso è la menzogna o il silenzio o
tutt’e due: «Io non capire». È in virtù di questo non capire, vero o finto, che
molti migranti riescono a entrare e restare in Italia. Si dirà: certo, ma nei
Centri di permanenza temporanea. Certo, ma intanto sono arrivati dove volevano,
poi si vedrà. Le opportunità possono essere poche o molte, secondo i casi, ma
loro se le giocano tutte, e sulla loro pelle, in senso stretto e ampio. Non va
mai dimenticata la dimensione di vera e propria guerra che
caratterizza la condizione migrante – tanto è vero che nei programmi di
governo (tutti) si parla esplicitamente di «lotta ai clandestini» – che
significa «guerra ai migranti» – e ancora di più non va dimenticato il
fatto che i migranti la combattono con i mezzi che hanno, se non si vuol cadere
nel vittimismo e nella difesa dei diritti umani.
Così come combattono allo stesso
modo un’altra guerra, quella contro il supersfruttamento nelle nostre
fabbriche. Abbiamo impiegato un bel po’ di tempo e fatica per capire come mai
una certa parte di migranti avesse così difficoltà a imparare la lingua
italiana e disertasse i nostri corsi serali. Poi alcuni di loro ce lo hanno
chiarito: se non si capisce, non si capisce bene che cosa il capo richiede, si
perde tempo e si lavora meno. La lingua italiana non è solo la lingua della
questura, è anche la lingua del padrone. La sottrazione al potere va di pari
passo con la sottrazione allo sfruttamento.
E c’è anche una terza strategia
di difesa, esattamente opposta: «adesso che conosco meglio la lingua e posso
rispondere a le domande riesco anche a difendermi»: l’appropriazione della lingua straniera. In queste parole non c’è nessuna
commozione o nostalgia per la propria madre lingua, nessuna tenerezza o crisi
per la perdita delle ‘radici’, che pure produce sofferenza e spaesamento,
nessuna rivendicazione di identità, ma la chiara, nuda, dura
consapevolezza della necessità di avere uno strumento in più per difendersi. E
non c’è nessuna paura dell’assimilazione, nessuna sottomissione, perché la
lingua del potere, dello sfruttamento, la lingua dell’imperialismo o
dell’impero, del colonizzatore, è anche la lingua delle lotte, delle
strategie di resistenza e di sovversione; e perchè ogni lingua è un coacervo di
lingue in movimento, che si incrociano, si differenziano, si
contraddicono. Non c’è bisogno di nessuna teoria o programma di meticciato (che
comunque condivide implicitamente i presupposti fondamentali del
multiculturalismo). Le lingue sono da sempre meticce, come le ‘culture’, se
esistono, e si meticciano in continuazione, perché da sempre la gente vive,
lavora, si muove, lotta e parla e crea costellazioni linguistiche
nuove o riutilizza forme antiche in nuove concatenazioni. La globalizzazione
non fa che accelerare e ampliare questo generale intricato scambio di tutto con
tutti, in cui ognuno, secondo la singolarità del proprio percorso di vita e
nelle costrizioni della situazione data
(per non cadere nell’equivoco della globalizzazione come generale liberazione),
cede, acquista, conserva, dimentica, ricorda, manipola, stravolge, inventa,
entra, esce ed eventualmente rientra, ma con diverse esigenze, in ambiti e
contesti di cui modifica in qualche modo i presupposti. E lo fa in barba a
tutte le leggi e tutti gli interventi di chi pretende di ‘regolare’ entrate,
uscite e forme di vita. Pratica la libertà di movimento. È il caso di evocare
l’ombra inquietante di Hobbes? «Libertà significa, propriamente, l’assenza di
opposizione (per opposizione intendo impedimenti esterni al moto) […]. Infatti
di una qualsiasi cosa legata e circondata al punto di non potersi muovere che
entro un certo spazio determinato dall’opposizione di un corpo esterno, diciamo
che non è libera di andare oltre».[12] Il migrante va oltre il corpo
esterno che è lo Stato e gli Stati, e così facendo mette in crisi l’idea stessa
di cittadinanza e sovverte i criteri politici di perimetrazione e controllo
dello spazio.
Non solo, ma i modi di
appropriarsi della lingua del potere e dello sfruttamento, eventualmente degli
stessi enunciati, per rifunzionalizzarli e rompere le concatenazioni di domande
e risposte fatte per far obbedire e obbedire, possono essere molti e diversi. I
cartelli che i migranti, in maggioranza Latinos, portavano nella manifestazione
negli USA tempo fa – WE ARE AMERICAN – e il fatto che cantassero
l’inno nazionale americano non devono trarre in inganno: nessun assoggettamento
alle parole d’ordine costituite, alla lingua dominante, nessuna sottomissione
all’American way of life, nessuna
accettazione dei suoi presupposti giuridici, nessuna assimilazione. Tutto il
contrario. WE ARE AMERICAN – che il riferimento fosse consapevole o no
– richiama immediatamente le primissime parole del Preambolo della
Costituzione americana, «We, the people of the United States…».[13] Ogni
americano ‘vero’ avrà sentito un’eco della costituzione nei cartelli. Qual è il
senso di tutto questo? Evidentemente non l’essere o la volontà di essere
‘americani’ nel senso stretto del termine, in senso ‘etnico’ o ‘culturale’,
perché i concatenamenti di enunciati impliciti di cui si parlava prima non
ammettono questo. Ogni americano e ogni Latino sa che non è così: leggi, discorsi e pratiche dicono e fanno
esattamente il contrario. L’enunciato WE ARE AMERICAN esprime proprio invece la
tensione tra questi presupposti impliciti e la volontà di riferirsi ad altri
presupposti impliciti, ad altra pratica discorsiva, ad altre parole d’ordine,
il cui senso è diverso: noi siamo americani e contemporaneamente non lo siamo,
lavoriamo qui come americani, ma nello stesso tempo non lo siamo, noi vogliamo
essere americani come voi dal punto di vista dei diritti, ma non lo siamo, noi
parliamo come voi americani – infatti usiamo la stessa lingua: WE ARE
AMERICAN – ma non lo siamo: perché? L’uso della lingua americana per
enunciare una verità che vera non è, o meglio che è mezza vera e mezza falsa,
introduce una frattura nel WE, nel noi inclusivo, che rimanda al ‘voi’
americani che siete inadempienti, rimanda a quella parte di menzogna nella
nostra affermazione, al torto, all’inadempimento di cui NOI – WE –
chiediamo conto a voi, qui ed ora, perché VOI siete responsabili di quella
parte di menzogna, e non noi. E anche qui, per non rimanere solo sul piano
delle pratiche discorsive, questo corto circuito ha senso politico solo perché
quei cartelli erano portati da Latinos in una manifestazione, cioè si
congiungevano ed erano parte integrante, non separabile, di una pratica di
lotta, un dire che è contemporaneamente un fare, e solo in quella circostanza
aveva quel senso; in altre circostanze avrebbe avuto altro senso, magari di
semplice accettazione dello stato esistente o volontà di sottomissione o di
assimilazione.
E, ancora, se per esempio
avessero scritto, come pure alcuni cartelli dicevano, SOMOS AMERICANOS, l’uso
dello spagnolo avrebbe immediatamente neutralizzato la portata politica dello
slogan: già per il fatto di usare la ‘loro’ lingua, i Latinos sarebbero apparsi
subito fuori dal WE, dalla costituzione americana intesa non come punto di
approdo, non come volontà di inclusione in uno spazio giuridico dato e
accettato, ma come orizzonte contingente
– qui ed ora – in cui quella rivendicazione acquistava
senso politico; e sarebbe diventata rivendicazione identitaria, ‘etnica’,
‘culturale’, come si vuole, qualunque cosa, ma non rivendicazione politica sovversiva. Che, tra l’altro, assomiglia stranamente, ma forse
non tanto, all’enunciato «On est ici, on est d’ici» – «Siamo qui, siamo
di qui» – dell’Organisation politique di Badiou.
Bastano queste strategie per
‘cambiare il mondo’? Sinceramente non lo so, anzi sembra proprio di no. Ma in
ogni caso ci sono, lavorano, e soprattutto non assomigliano alle forme
classiche della sovversione che ci sono familiari. Sarà comunque il caso di
pensarci su?
La relazione è stata
presentata nel convegno «Diamo seguito…», organizzato presso la sala del
Consiglio Comunale di Pescara il 3 ottobre 2006 dai Cobas-Scuola di Chieti e
Pescara, nel primo anniversario della morte di Lino Sersante, amico e
comunista.
[1] Alain Badiou,
L’etica, Pratiche Editrice, Parma 1994,
p. 28.
[2] Gilles Deleuze – Félix Guattari, Mille Piani, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana
fondata da Giovanni Treccani, Roma 1987, p. 111.
[3] Ivi, p. 110.
[4] Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1994, p. 86.
[5] Ivi, p. 87.
[6] Agostino Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci Editore, Roma 2006, p. 83.
[7] Louis Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 193.
[8] Judith Butler, Corpi che contano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1996, p.
111.
[9] Jacques Derrida, Breve storia della menzogna, Alberto Castelvecchi editore, Roma 2006, pp. 19 s.
[10] Ivi, p. 25.
[11] Deleuze –
Giattari, op. cit., pp.107 s.
[12] Thomas Hobbes, Leviatano,
Editori Riuniti, Roma 1982, pp.144 s.
[13] La Costituzione degli Stati Uniti d’America, a cura di G. Sacerdoti Mariani, A. Reposo, M.
Patrono, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1985, p. 75.