di Igino Domanin
[Redattore di Carmilla, ricercatore di filosofia teoretica a Milano, Igino Domanin è l’autore del celebrato libro di racconti Gli ultimi giorni di Lucio Battisti. Per la primavera 2007 è prevista l’uscita del suo primo romanzo, per i tipi Rizzoli, dal titolo tuttora misterioso. Il racconto che pubblichiamo è stato edito agli inizi di quest’anno sulle pagine de l’Unità]
Vengo da paesi remoti. Temperati. Dove soffia una brezza velocissima. Salmastra. L’aria scorreva su di noi come una mano carezzevole, che indugia e nutre.
Adesso il mondo è cambiato. Qui a Milano fa molto più caldo. Il sudore si appiccica ai nostri corpi. Come una pellicola. Adesiva.
Domenica mattina. Oggi non lavoro. La notte è stata afosa. Irrespirabile. Il sole adesso è acido e disfatto come un tuorlo d’uovo. Vado a fare la spesa. Fino alle 13,00 la grande distribuzione alimentare tiene aperti i propri esercizi.
Il supermercato ha subito un blackout. Giro per i suoi brevi dedali. I frigoriferi sono spenti e poco illuminati. Oppure come listati a lutto. Una tenda serra la vista. Con la coda dell’occhio scorgo, con curiosità, la fine macabra di quei prodotti alimentari. L’emmenthal ingrigito, benché sigillato nelle buste. L’occhio cupo di una trota che sembra stata deposta dall’onda di un corso d’acqua radioattivo.
Un blackout notturno ha spento le luci sulla città. Per dodici ore non c’è stata energia elettrica. I cibi sono morti nel frattempo. Faccio una piccola spesa. Compro alcune cose necessarie. Zucchero, acqua minerale effervescente, pane a cassetta. Una bottiglia di Rosso di Montalcino. Lo trovo conveniente. Non costa molto. In fondo è più morbido e meno tannico del Brunello. Si abbina perfettamente al sapore delle carni.
Mi piace accendere il climatizzatore. Uso il telecomando. Posiziono la temperatura verso un freddo abbastanza intenso e deumidificato. Indosso una polo di cotone piuttosto spessa. In questo modo posso cucinare e azionare il forno. Anche nel mezzo di un’estate torrida. In tal modo mi sento separato del tutto dalle condizioni di vita che sono al di fuori del mio orizzonte di vita. Non mi curo di quello che succede fuori.
Lunedì mattina. Entro in ufficio. Sfilo rapidamente davanti alla reception. C’è una stagista. Una biondina dall’aria pallida e striminzita. Passa tutto il giorno a rispondere al telefono. Sul tavolo rimane aperto per ore un libro. Un manuale di teorie e tecniche dei linguaggi televisivi. Ogni tanto fingo di corteggiarla. Prendo in mano il libro che ha davanti a sé. Alcuni paragrafi sono sottolineati. L’evidenziatore mette in giallo alcune affermazioni. Sono descritte le forme di organizzazione di un set televisivo.
“Posso interrogarti?”
“Non sei mica il mio professore… E poi non so niente!”.
“Sei un’illusa. Questi corsi universitari non servono a niente. Sono diventati troppo facili e superficiali… Quando avevo la tua età, invece….”
“Vabbè, vabbè…” .
In fondo sono contento che perda il suo tempo. Non potrebbe avere molte altre occupazioni degne di nota. La prima volta che l’ho vista mi aveva incuriosito. Adesso mi fa l’effetto di una pera cotta.
Il morso gelido del condizionatore. Mi punge. Ho un lieve pizzicore che fa su e giù per la schiena. Le gocce di sudore si asciugano. Ma non si detergono. Diventano chiazze di sporcizia. Veli d’irritazione sulla pelle. Mi appoggio alla mia sedia girevole. Detesto gli spazi aperti del mio ufficio. Ogni tanto infilo le cuffie del walkman. Sono uno straniero nel paradiso. La musica mi rilassa. Sono in mezzo a tanta gente che lavora insieme a me. Se chiudo gli occhi: tutto scompare. Sono solo.
Monto la lampada nuova. Fa una luce molto potente. Nei miei cassetti ci sono dei taccuini colorati. Sul margine in fondo a ogni pagina, c’è il logo della mia azienda. Una zebra stilizzata. Nella savana corrono a branchi. Mi piacciono gli animali selvaggi. Sogno una vita primitiva. In un documentario ho visto una spiaggia deserta dove ci sono i leoni che dormono. Da bambino correvo per ore su spiagge. Nuotavo, tuffandomi tra cavalloni. Onde di spuma. Sono consapevole di aver vissuto momenti di vita favolosa. Tutto deve essere successo in quegli istanti. Ma il mio ricordo non è preciso.
Lunedì sera. Rimango ancora un po’ in ufficio. Siamo in tre. Restiamo al buio. Si sente appena il ronzio del condizionatore che vortica senza tregua. La lampada disegna un cono di luce, come un occhio di bue. La punto su un rapporto di marketing strategico. Si basa su una metodologia che sfrutta le prerogative dell’emisfero cerebrale sinistro. Left brain marketing.
Mi chiamano marketing manager, in realtà sono un impiegato. In quest’azienda tutti sono leader di qualcosa. Devo occuparmi di organizzare una serata in una discoteca costruita all’interno di una chiesa sconsacrata. Ci sono stato, in quel posto. C’è una nicchia a forma di conchiglia. In alto si trova una cupola dipinta con colori fluorescenti. Lanciamo sul mercato un nuovo smartphone. Un telefono intelligente, che sintetizza le prerogative dei palmari e dei cellulari. Ho sempre l’impressione che i servizi che vendiamo non interessino a nessuno. Non mi trovo a mio agio nel mondo del lavoro. Mi sembra che si raccontino un sacco di panzane, per nascondere la crisi gravissima in cui ci troviamo. Non so nemmeno più cosa significhi lavorare. Sto dentro al mio ufficio come a un guscio, perché non saprei dove andare. Non ho nessuno a casa che mi aspetti. Tanto vale restare qui. A fingere di interessarmi di qualcosa.
“Lo sai che tra un po’ tornano in funzione i Concorde?”
“Tecnologia europea! Uno dei più grandi flop…Si può andare da Parigi a New York in meno di tre ore. Ma chi è interessato a pagare cifre iperboliche per guadagnare tre ore di tempo. Tre ore in cui non sai che cazzo fare….”
“Ma il flop può diventare cult. Ci sono sicuramente persone che vogliono fare l’esperienza di stare nella pancia di questo gigantesco uccello supersonico….”
“Sono sicuramente degli stronzi…”
“Ma la cosa che pensavo era questa: Uno parte la mattina alle 10 e arriva New York alle 7 per via del fuso orario. Partecipa a un meeting verso le 9 ora locale. Al massimo si trattiene per una veloce colazione di lavoro. Torna a Parigi. Ci sono 6 ore di fuso che deve attraversare di nuovo. Più tre ore di viaggio. Se parte alle 13,00 da New York arriva a Parigi che è notte. Un pomeriggio intero è stato inghiottito!”
Le osservazioni del collega mi confondono. Lo saluto presto. Mentre uscivo: un’aria calda come un phon m’investiva. Sognavo del Triangolo delle Bermude. Luoghi dove si sparisce. Vuoto assoluto, che non è imprigionabile dallo spazio e dal tempo. Il cellulare squilla. Teresa m’invita a una festa per single nel suo appartamento vicino la Stazione. Non è la prima volta, né sarà l’ultima. Queste serate si ripetono continuamente. Non ho sulla rubrica nessuna che sia più di un’amica. Non so bene perché ci vado e cosa desidererei di diverso.
Lunedì notte. Passeggio nelle strade vicino la Stazione Centrale. La vecchia costruzione è un grande catafalco. Bianco come il gesso. Ma scolpito di figure. L’afa è grande. Cerco le vie. Cerco una direzione precisa.
C’è un tunnel, un po’ sudicio, che corre sotto i binari. Pare un antro cavernoso, con le illuminazioni che emanano una luce simile alle fiaccole. Più avanti c’è il mercato del pesce. Dall’asfalto si levano odori di colla. Mi dirigo verso il party di Teresa. Vive in un palazzo di un secolo fa. Uno stabile che le agenzie immobiliari definiscono Vecchia Milano. Teresa si vanta molto del proprio acquisto. Consiglia a tutti d’investire nel mattone. Soprattutto se si tratta della prima casa.
“Non è molto grande, ma sono riuscita a comperarlo…”
“I tassi in questo periodo sono vantaggiosi. I mutui costano poco”.
“Fate attenzione però alle spese…Sembrano convenienti, ma ti applicano penali salate per l’estinzione e costi notarili esorbitanti…”
Non ho intenzione di comperare una casa. Ho investito i miei soldi su una polizza vita agganciata alle borse internazionali. Lascio fare il mio destino ai mercati. Non riesco a immaginare che invecchierò. Non vado fiero della mia gioventù.
Alcuni coetanei conversano sui pericoli della concorrenza cinese. Sono stati a Kowloon. Un posto straordinario, che galleggia nell’arcipelago di Hong Kong. Hanno visitato palazzi che in Europa non esistono. Sono spaventati dalle prospettive. Il prezzo per unità dei prodotti cinesi è cinque-sei volte più basso. Può esistere un capitalismo che sia nello stesso tempo liberista e protezionista?
“A me quello che fa incazzare dei cinesi è che ti tirano scemi sulla firma dei contratti!”
“Lo so, lo so. Soprattutto quel loro calendario di merda. Quando l’accordo commerciale è stato raggiunto ti parlano dello yin e dello yang e non firmano. Robe da pazzi.”
“Ci tengono sulla graticola. Anche perché sanno che in realtà non hanno bisogno di noi. Io, per esempio, mi occupo di cucine. Loro mi hanno risposto che le cucine se le fabbricano loro a un costo irrisorio. Al limite sono sempre loro che possono produrre qualcosa per te. E’ un gioco asimmetrico…”
Mi fermo qui ancora per poco. Chiedo a Teresa di prenotarmi un taxi. Non c’è nessuna donna che m’interessi. Fanno gli stessi discorsi che sento per ore nei corridoi della mia azienda. Non potrei convivere con una collega. Preferisco riposarmi. Vado a letto presto. Domattina ho un appuntamento telefonico verso le 9,30. Devo essere in ufficio senza ritardi.
Lunedì notte. Sono coperto da un lenzuolo che mi protegge dal soffio gelido del climatizzatore. Sono al buio, tengo ancora un po’ gli occhi aperti. Ho nostalgia di vecchie discoteche del Sud. Con raggi laser e luci stroboscopiche. Dove andavo a ballare con le mie compagne di scuola. Al pomeriggio. Danzavamo per ore. Mi piaceva osservare le ragazze sotto l’effetto di quelle illuminazioni psichedeliche. Mi ricordo che facevano le boccacce. Ho sempre concepito il rapporto con le donne come un gioco. Un po’ d’amore, un attimo, un uomo semplice, un gesto, una poesia che basti per venir via. Felicità è una canzone pazza che cantare mi fa. Detesto andare oltre.
Mi calo nella coltre del lenzuolo. Dove fa sempre più buio e più freddo. Sento che sta per venirmi una crisi di panico. Mi succede ogni tanto. La combatto con i farmaci. La tengo sotto controllo. In quegli istanti mi pare di non respirare più. Le gambe vanno per conto loro e il petto si gonfia come pieno di gas. E’ atroce, ma in genere dura poco.
Ho fatto l’abitudine. So con certezza che le cose per me non cambieranno.
Sono solo nel mio letto. Vivo come una talpa. Scavo un buco nero.