[Di Amélie Nothomb continua a perpetuarsi il culto in vita: sono centinaia di migliaia i lettori europei che la seguono a ogni uscita, e in Italia va sottolineato il fatto che nel 2005 sono usciti a suo nome, tra novità ed edizioni economiche, ben sette titoli. Presentiamo l’incipit di Antichrista (edito da Voland due anni fa) e, a seguire, un articolo di Cesare Martinetti per La Stampa, dedicato proprio ad Antichrista e agli effetti di culto che l’autrice belga ha sortito nei lettori continentali]
TUTTI I LIBRI DI AMÉLIE NOTHOMB
Il primo giorno la vidi sorridere. Subito desiderai conoscerla.
Sapevo bene che non sarebbe accaduto. Di fare un passo verso di lei, no, non ne ero capace. Aspettavo sempre che fossero gli altri ad avvicinarsi a me, ma nessuno lo faceva mai.
Era questo, l’università: credere che ti saresti aperta sull’universo e non incontrare nessuno.
Una settimana dopo i suoi occhi si posarono su di me.
Pensai che li avrebbe distolti molto in fretta. E invece no: rimasero lì e mi squadrarono da capo a piedi. Non osai sostenere quello sguardo: mi mancava la terra sotto i piedi, facevo fatica a respirare.
Poiché la cosa continuava, la sofferenza divenne intollerabile. A prezzo di un coraggio senza precedenti, piantai i miei occhi nei suoi: lei mi fece un piccolo gesto con la mano e rise.
Poi, la vidi parlare con dei ragazzi.
L’indomani, venne verso di me e mi salutò.
Contraccambiai e tacqui. Odiavo il mio imbarazzo.
— Sembri più o giovane degli altri — osservò.
— Lo sono, infatti. Ho compiuto sedici anni un mese fa.
— Anch’io ho sedici anni. Compiuti da tre mesi. Non l’avresti mai detto, confessa.
— È vero.
La sua sicurezza compensava i due o tre anni che ci separavano dagli altri studenti.
— Come ti chiami? — mi chiese.
— Blanche. E tu?
— Christa.
Quel nome era straordinario. Meravigliata, tacqui di nuovo. Lei vide il mio stupore e aggiunse:
— In Germania è abbastanza comune.
— Sei tedesca?
— No. Vengo dai cantoni dell’Est.
— Parli tedesco?
— Certo.
La guardai con ammirazione.
— Ciao, Blanche.
Non ebbi il tempo di salutarla. Era già in fondo alle le scale dell’anfiteatro. Una combriccola di studenti la invocò a gran voce. Raggiante, Christa si diresse verso il gruppo che la chiamava.
“È integrata” pensai.
La parola aveva per me un significato enorme. Io non mi ero mai sentita integrata nella benché minima cosa, e verso chi lo era provavo un misto di disprezzo e gelosia.
Ero sempre stata sola, e non mi sarebbe dispiaciuto se fosse stata una scelta. Ma non lo era mai stata. Sognavo l’integrazione, anche solo per poi concedermi il lusso della disintegrazione.
Sognavo soprattutto di diventare amica di Christa. Avere un’amica mi sembrava incredibile. Tanto più se l’amica era Christa… ma no, impossibile persino sperarlo.
Per un attimo mi chiesi perché quell’amicizia mi sembrasse così desiderabile. Non trovai una risposta chiara: quella ragazza aveva qualcosa, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse.
Ero appena uscita dalla città universitaria quando una voce gridò il mio nome.
Non mi era mai accaduto nulla di simile, e la cosa mi gettò in una specie di panico. Mi voltai e vidi Christa che mi raggiungeva di corsa. Era straordinario.
— Dove vai? — mi chiese, accompagnandomi.
— A casa.
— Dove abiti?
— A cinque minuti da qui.
— Quello che ci vorrebbe per me!
— Perché? Tu dove abiti?
— Te l’ho detto: nei cantoni dell’Est.
— Non dirmi che torni là ogni sera.
— Sì.
— È lontano!
— Sì: due ore di treno all’andata e due al ritorno. Senza contare i tragitti in autobus. È l’unica soluzione che ho trovato.
— E ce la fai?
— Vedremo.
Non osai farle altre domande, per paura di metterla a disagio. Senza dubbio non aveva i mezzi per pagarsi un posto in città.
Arrivate davanti al mio portone, la salutai.
— Abiti con i tuoi? — chiese.
— Sì. Anche tu vivi con i tuoi genitori?
— Sì.
— Alla nostra età è normale — aggiunsi senza sapere il perché.
Scoppiò a ridere come se avessi detto qualcosa di assurdo. Me ne vergognai.
Non sapevo se ero sua amica. Secondo quale criterio, necessariamente misterioso, ci si riconosce amici di qualcuno? Io non avevo mai avuto un’amica.
Per esempio, lei aveva riso di me: era un segno di amicizia o di disprezzo? A me, aveva fatto male. Perché già ci tenevo, a lei.
Approfittando di un istante di lucidità, me ne chiesi il perché. Il poco, pochissimo, che sapevo di lei giustificava il mio desiderio di piacerle? O era per la miserabile ragione che, unica della sua specie, lei mi aveva guardata?
Il martedì, le lezioni cominciavano alle otto del mattino. Christa aveva delle occhiaie enormi.
— Hai l’aria stanca — osservai.
— Mi sono alzata alle quattro.
— Alle quattro! Ma non avevi parlato di due ore di treno?
— Non abito proprio a Malmédy. Il mio paese si trova a mezz’ora dalla stazione. Per prendere il treno delle cinque, mi devo alzare alle quattro. E anche a Bruxelles, l’università non è mica dietro alla stazione.
— Svegliarsi alle quattro del mattino è disumano.
— Hai un’altra soluzione? — mi disse in tono infastidito.
Mi voltò le spalle e se ne andò.
Mi odiai a morte. Bisognava che la aiutassi.
La sera parlai di Christa ai miei genitori. Per raggiungere lo scopo, dissi che era mia amica.
— Hai un’amica? — mi interrogò mia madre sforzandosi di non mostrare troppo stupore alla notizia.
— Sì. Posso ospitarla da noi il lunedì sera? Vive in un paese nei cantoni dell’Est e il martedì si deve alzare alle quattro per venire a lezione alle otto.
— Non c’è problema. Metteremo la brandina in camera tua.
L’indomani, a prezzo di un coraggio senza precedenti, ne parlai a Christa:
— Se vuoi, il lunedì sera puoi dormire da me.
Mi guardò con radiosa meraviglia. Fu il momento più bello della mia vita.
— Davvero?
Rovinai subito la situazione, aggiungendo:
— I miei genitori sono d’accordo.
Scoppiò a ridere. Avevo detto un’altra cosa assurda.
— Allora vieni?
Il vantaggio si era già invertito. Non le stavo più facendo una cortesia: la supplicavo.
— Sì, verrò, — rispose, con l’aria di intendere che era per farmi un piacere.
La cosa non mi impedì di esserne felice e di attendere il lunedì con ansia.
Figlia unica, poco portata per l’amicizia, non avevo mai ospitato nessuno a casa mia, tanto meno a dormire nella mia stanza. La prospettiva mi spaventava di gioia.
Il lunedì arrivò. Christa non mi rivolse sguardi speciali. Ma la constatazione che aveva uno zainetto con le sue cose sulle spalle mi inebriò.
Quel giorno, le lezioni terminavano alle quattro del pomeriggio. Attesi Christa ai piedi dell’anfiteatro. Ci mise una vita a congedarsi dalle sue numerose relazioni. Poi, senza fretta, mi raggiunse.
Fu solo quando uscimmo dal campo visivo degli altri studenti che si degnò di rivolgermi la parola, con un’amabilità forzata, come per sottolineare che mi stava facendo un favore.
• Tutti pazzi d’Amélie
di Cesare Martinetti
«Buongiorno – scrive Christophe – sono alla ricerca di due informazioni: che musica ascolta Amélie? E qual è il suo the preferito?»
«Lei – risponde Agnès – beve un the extra strong e so che lo compra da Mark&Spencer…». «Amélie – aggiunge Lisa – preferisce the keniani e indiani, molto forti e so che li lascia in infusione per almeno dieci minuti». «Per quel che riguarda la musica – dice invece GlyCeriNe – lei adora, anzi a-do-ra Bjork, ma non so se le piaccia anche David Bowie…».
Ma chi è questa Amélie di cui i ragazzi parlano in una delle tante chat che lampeggiano su internet? Amélie Nothomb – cliccare su www.mademoisellenothomb.com – che ogni anno, a fine estate, da dodici anni, celebra il rito del suo nuovo libro. L’ultimo si intitola Antéchrista e in qualche settimana di vita ha già venduto 230 mila copie. È la storia di una ragazzina in difficoltà nella vita: «Avevo sedici anni. Non possedevo niente, né beni materiali, né conforto spirituale. Non avevo amici, né amori; non avevo vissuto niente. Non avevo idee, non ero nemmeno sicura di avere un’anima. Il mio corpo era tutto quello che avevo».
La ragazzina si chiama Blanche. Solitaria, bruttina e infelice, cerca e ottiene l’attenzione di un’altra ragazzina, Christa (che poi nel corso del racconto si sdoppia nell’alter ego Antéchrista), che è il suo rovescio: bella, brillante, disinvolta, seduttrice. Blanche se la porta a casa, la presenta ai genitori che ne restano conquistati e le affidano il compito di insegnare la vita al loro sgraziato anatroccolo. Introdotta nel santuario della cameretta di Blanche, Christa si spoglia nuda per indossare i vestiti dell’amica. E’ la mimesi di un gioco erotico e di una scoperta, ma anche l’esercizio di un potere.
La ragazza chiede a Blanche di fare altrettanto. Lei resiste: «Quando si hanno sei anni spogliarsi è niente, quando se ne hanno ventisei è un’ abitudine. A sedici, spogliarsi è un atto di violenza insensata». Poi, senza capire perché, obbedisce: «Sedici anni di solitudine, di odio di se stessi, di paure inesprimibili, di desideri insoddisfatti, dolori inutili, collere incompiute, energie inespresse erano contenute in questo mio corpo…che non s’era mai mostrato al sole, bianco come il mio nome, fragile, ripiegato verso l’interno di me…»
Storia minima, triste, inquieta, perdente. Facile riconoscere dietro Blanche Amélie che adesso ha 36 anni ma tuttora assomiglia a Mercoledì, la ragazzina della famiglia Addams, una streghetta dark con cappellaccio nero, gonnellona nera, guanti a mezze dita neri, stivaletti neri con i lacci tipo Doc Martens, visetto bianco, pallido come se fosse infarinato, labbra di rossetto scarlatto a forma di cuoricino.
Mademoiselle Amélie Nothomb è un’icona e insieme un fenomeno letterario e sociale. Il suo primo libro, Hygiène de l’assassin, (Igiene dell’assassino, in italiano nelle edizioni Voland che hanno tradotto quasi tutti gli altri libri di Amélie) è comparso nel 1992 e ha venduto più di mezzo milione di copie; il secondo, Sabotaggio d’amore, 450 mila; Stupeur et tremblements, (Stupori e tremori, Guanda 2006) nel 1999, ha fatto il pieno: più di un milione di copie e un film (2003) di Alain Corneau interpretato da Sylvie Testud che nelle prime due settimane di programmazione ha avuto 240 mila spettatori.
Amélie Nothomb è nata a Kobe, Giappone, nel 1967. Suo padre, erede di una grande e nobile famiglia belga, ambasciatore, l’ha trascinata in giro per il mondo: dopo il Giappone, Cina, Stati Uniti, Laos, Bangladesh. Un’infanzia isolata, racconta lei, a spasso per il mondo eppure letteralmente «tagliata fuori dal mondo». Solo a 17 anni Amélie sbarca per la prima volta nella «sua» città, Bruxelles. Incontra la nonna che la scruta ben bene e poi le dice: «Spero che tu sia intelligente, perché sei talmente brutta…».
Fino a tre anni di età Amélie non ha detto una parola; poi, l’altra nonna – più compassionevole – le mise in bocca un cioccolatino (bianco) che le ha sciolto la lingua. A scuola, a Tokyo, unica non giapponese, i compagni e le compagne l’hanno spogliata completamente per vedere se «era bianca dappertutto». Suo padre, uno dei pochissimi non giapponesi a saper intonare l’antico Canto del No, le imponeva di ascoltarlo: quattro ore nella posizione tradizionale, in ginocchio, appoggiata sui talloni. Dopodiché, tra i tredici e i sedici anni, non ha più mangiato. L’anoressia, un’esperienza speciale: «Il corpo scompare a poco a poco, trascinandosi dietro l’anima e lo spirito…»
Insomma il vero romanzo di Amélie è la sua vita. Un serbatoio infinito di cicatrici che hanno germogliato nei libri personaggi non comuni, eccessivi, rabbiosi, gravi, voluttuosi, spesso al limite della ragione in cui il corpo e/o la corporeità sono una presenza ossessiva. Corpi che, generalmente, soffrono o – come Blanche di fronte a Antéchrista – si muovono maldestri.
Nei libri di Amélie i brutti sono veramente brutti, i grassi troppo grassi, i magri spaventosamente magri: corpi martirizzati, dentro e fuori, che restituiscono le esperienze di questa ex ragazza con la faccia da bambina che ha costruito su questa fenomenologia quasi punk la sua leggenda esistenziale. Per scrivere, racconta, ha bisogno di scuotersi dentro, di innescare una certa tensione: non dormire, non mangiare: «Più sento la fame e più sento il piacere fisico della scrittura…la scrittura mi ha insegnato a ridare al cibo la sua vera funzione: quella del semplice carburante». Che cibi? Frutti marci e the, «nero come l’inferno».
Fu vera letteratura? I critici, naturalmente, sono divisi. Chi dice che si tratta di trash, chi ne parla come di capolavori. L’Académie française ha premiato Stupeur et tremblements. All’origine, come quasi sempre, ci fu un rifiuto. La giovane Amélie aveva inviato il suo primo manoscritto a Gallimard, dove l’editor Philippe Sollers glielo restituì a giro di posta. Alla maison Albin Michel invece l’hanno tenuto e pubblicato dando il via al fenomeno letterario Nothomb.
Le Monde le ha dedicato un’inchiesta-ritratto piuttosto accurata. «Ci sono i cliché – ha scritto la critica Raphaelle Rerolle -, c’è la leggenda, ma non è tutto: Amélie Nothomb è una persona veramente singolare che è riuscita nel prodigio di piacere a un gran numero di persone». Non è quello che vogliono tutti gli scrittori?
I suoi lettori, poi, sono la prosecuzione del fenomeno. A loro lei si dona, anima e corpo, con infinte sedute di chiacchiere e dediche che sembrano ricompense. Li chiamano i fous d’Amélie, i folli di Amélie; o les péplautes, come dice lei dal nome di uno dei forum in cui dialogano su internet, «péplum»; o ancora, più banalmente, i «nothombophiles». Adolescenti? Si’, ma non solo. Figlie, ma anche mamme, liceali ma anche universitari, insegnanti, impiegati. Forse, come le varie Amélie che agiscono nei suoi libri, persone che sono a disagio e si sentono vittime, nella vita o in ufficio, come accade in Stupeur e tremblement in cui Nothomb racconta le umiliazioni subite in un anno di lavoro realmente vissuto in una grande impresa giapponese, dove è stata assunta come interprete ed è finita a lavare i gabinetti. A tutti loro Amélie dice: «Il boia non è il più forte».
Vanno ai suoi incontri imitandone il look dark: maglioni neri, cappelli neri, scarponcini nere. Le scrivono. Sanno tutto di lei. E quando non sanno, domandano sui forum, come quel Cristophe che voleva giusto sapere il the che beve Amélie. E c’è sempre qualcuno che risponde: «The nero, come l’inferno». La scrittura, racconta, l’ha aiutata a sopravvivere. I suoi libri aiutano a loro a vivere.
[da La Stampa, 6 novembre 2003]