di Alessandro Morera
FlashBack Settembre 2003:
Nel 2003, Marco Bellocchio presenta a Venezia Buongiorno Notte (un titolo bruttissimo per tutti coloro che, come Patti Smith, amano la notte: per tutti coloro che vivono la notte l’ossimoro giusto risulta esattamente ribaltato e cioè, Buonanotte Giorno): candidato dalla classe politica del paese, dai (re)censori cinematografici attivi sui quotidiani nazionali e sulle tv a vincere il Leone d’Oro. La giuria, essendo indipendente poiché composta da cineasti, attori, direttori di festival internazionali, critici e teorici affermatisi in tutto il mondo, assegna il premio per il miglior film a Il Ritorno, la bellissima opera cinematografica del russo Andrei Zvyagintsev.
Scandalo sulla direzione del festival di Moritz De Halden (nominato dalla destra pensando di ‘addomesticarlo’ ai propri umori e criticato ancor prima della sua nomina da tutta la sinistra, radical chic o meno che sia), Bellocchio, comportandosi come la maggior parte dei bambini italiani, privato del primo premio (precedentemente assegnatogli da tutte le istituzioni attraverso le loro raccomandazioni, ma non da una giuria prevalentemente composta da persone competenti e straniere, oltre che indipendenti) abbandona sdegnato la premiazione perché qualcuno ha meritato più di lui, iniziando così un tourbillon di dichiarazioni e di amore per il pubblico e per la critica italiana (ma rimembra ancor l’accoglienza che ebbe fino a qualche anno prima anche da coloro che lo volevano vincitore del festival a ogni uscita di un suo film?) contro i giurati del festival di Venezia (molti dei quali suoi colleghi). Facilitato in ciò dal tema scelto del suo film (l’affaire Aldo Moro), inizia a scrivere sui maggiori quotidiani italiani, scatenando inevitabili articoli di risposte anche da parte di chi critico cinematografico non è mai stato: un dibattito assurdo, spalmato sulle pagine de La Repubblica sembra aver riportato al centro dell’attenzione mediatica il cinema come arte. Intervengono nel dibattito dei “noti” (in tutto il mondo?!) critici cinematografici come Giuliano Ferrara e Gigi Marzullo, con contorno di nuovi critici improvvisati come Anselma Dall’Oglio e di critici che erano già vecchi sessant’anni fa come Gian Luigi Rondi (Ricorda ancora qualcuno la poesia appassionata che gli dedicò Pier Paolo Pasolini? ‘A G. L. Rondi’: “Sei così ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all’inferno e ti crederai in paradiso”).
FlashForward Settembre 2006:
Michele Placido, dopo il successo di pubblico e in parte di critica anche internazionale del 2005 di Romanzo Criminale, viene nominato come membro della giuria del Festival del cinema di Venezia. Alla faccia di Pasolini, ricorda bene l’insuccesso (critico e commerciale) del suo film del 2004 Ovunque tu sei, in cui era protagonista la figlia, presentato e fischiato a Venezia, un film obiettivamente orribile e ridicolo sotto ogni punto di vista, affermando come non porterà più un suo film al festival lagunare (disprezzando così anche il proprio ruolo di giurato, che però ha accettato di svolgere ben volentieri) e inveendo dalle pagine del Corriere della Sera e de Il Messaggero contro tutti i critici che non siano quelli riconosciuti dall’establishment mediatico (formato dal duopolio televisivo RAI-MEDIASET e dai maggiori quotidiani nazionali, con l’aggiunta di qualche settimanale nazional-popolare di successo). Una polemica subito ripresa, sulle pagine degli stessi quotidiani, da Franco Zeffirelli. Già tutto ciò basterebbe per affermare che il cinema italiano se li merita i critici improvvisati che elogiano la televisione mentre parlano superficialmente di cinema in programmi che ne affrettano la morte; che se li merita i Rondi, le Palombelli e compagnia varia, ma d’altronde anche la critica si poggia sull’oggetto della sua analisi (e con l’autore che ha prodotto il film) e, visti i comportamenti di alcuni di quelli che vengono considerati (spesso con eccessiva e ingiustificata enfasi) tra i maggiori rappresentanti del nostro cinema e i film da questi realizzati, non possiamo sperare in una critica cinematografica incisiva e capace di proporsi come spinta propulsiva per il rinnovamento di un cinema perennemente in agonia come quello italiano, un cinema che oscura qualsiasi tentativo di sperimentazione, che esclude ogni possibilità di innovazione sul linguaggio cinematografico, che elimina ogni prodotto non conforme ai canoni mediatici imposti dalla classe politica e culturale dominante in questa Italia cosi profondamente superficiale e rincoglionita dagli stereotipi trentennali imposti alla nazione con l’avvento delle reti televisive di MEDIASET.
FlashBack Settembre 2004:
L’atteggiamento di Gianni Amelio nel 2004 al Festival di Venezia dove ha presentato Le chiavi di casa, sembra così risultare come qualcosa di straordinario in questo panorama cosi sguaiato e isterico, mentre in realtà denota solamente un atteggiamento normale, rivelando quel che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti (e ancor più sotto quelli degli addetti ai lavori), quel che più scontato non si può: riconoscere che ha vinto un bel film, anche se non è il proprio, è riconoscere sia il valore del giudizio di colleghi internazionali, sia l’utilità e la vera funzione di un festival di cinema: quella di riuscire a dare visibilità (attraverso i premi) a film meritevoli che difficilmente il grande pubblico avrebbe conosciuto se non avessero ricevuto tali attenzioni nei festival stessi.
Ecco, un panorama cinematografico nel quale anche personalità di spicco cadono in polemiche personali e cambiano atteggiamento a seconda o meno del successo di pubblico e/o di critica di un proprio film è un panorama desolante, agonizzante, al quale non bastano di certo gli incassi su territorio nazionale di tre quattro film all’anno (benigni, verdone, veronesi, vanzina, oldoini, pieraccioni, muccino e aldo giovanni e giacomo) per uscire dal profondo stato di coma nel quale si trova, come non bastano i due tre film che ogni anno presentano qualche nuovo giovane autore acclamato come il messia che risolleverà le sorti del nostro cinema dopo un paio di premi all’estero, mentre poi tutti i nuovi autori si smarriscono al massimo dopo il terzo o quarto film; una tarantella che sentiamo ripetere più o meno da circa venti anni, senza che nulla cambi veramente.
Presa diretta 24 Ottobre 2006:
Sentire la stampa e gli addetti ai lavori che si lamentano della troppa offerta di film alla Festa del Cinema di Roma fa sorridere, soprattutto pensando ai tanti appassionati che hanno potuto seguire eventi interessantissimi al di là della premiére e del red carpet delle star hollywoodiane, avendo un’ampia possibilità di scelta, andando cosi incontro anche ai bisogni del pubblico più attento ed esigente, il quale, seppur non maggioritario, è comunque molto numeroso in Italia. Come fanno sorridere le polemiche nazional-popolari tra il Festival di Venezia e la Festa di Roma, polemiche come abbiamo visto cavalcate non solamente dai politici; in fin dei conti, in Italia, dopo tanti anni, per un paio di mesi non si è fatto altro che assistere a una grande offerta di cinema, con conseguente interesse da parte del pubblico, il quale per una volta non si è sentito l’ultima ruota del baraccone cinematografico tipico di ogni festival (o festa) di cinema.
In un paese dove gli spettatori cinematografici sono in continuo calo anche a causa della poca disponibilità degli esercenti a proiettare film che non siano americani o che non siano comunque grandi produzioni pubblicitarie, in un paese dove il 90% della popolazione in casa ha solamente la televisione in chiaro dominata dal duopolio peggiore della televisione mondiale (eccezion fatta per il Burkina Faso, dove però i film non vengono interrotti dalla pubblicità), risulta veramente ridicolo lamentarsi della moltitudine di offerta cinematografica al festival di Roma, o addirittura, come affermato da un giovane regista come Paolo Sorrentino, che “la manifestazione di Roma non è stata utile al cinema” (una tra le tante dichiarazioni assurde e del tutto incomprensibili rilasciate dal regista nell’intervista a La Repubblica del 23 ottobre 2006): sembra davvero che in Italia gli addetti ai lavori, almeno la maggior parte, siano completamente distaccati dalla realtà della vita quotidiana, della gente comune (motivo per il quale il cinema italiano non riesce più, salvo rare eccezioni, a raccontare la contemporaneità attraverso forme e strutture cinematografiche universali, come accadeva fino alla fine degli anni ’70), come se fossero alieni incapaci di osservare oltre il proprio ombelico, attenti solo a preservare il proprio orticello a discapito dell’interesse generale della cinematografia italiana e di tutte le numerose persone semplicemente appassionate di cinema.
Allora, almeno che ci siano milioni di festival e di feste di cinema, che la nostra nazione diventi strapiena di feste e di festival di cinema: viva Venezia, viva Roma, ma anche viva Torino e Udine, nonché Taormina e i tanti altri medi e piccoli festival che si svolgono sulla nostra penisola, con la speranza che ne nascano ancora di manifestazioni cinematografiche di livello internazionale, magari un giorno si farà anche un festival internazionale anche a Napoli, perché no?!
La festa del cinema di Roma nel complesso ha funzionato, pur avendo qualcosa da aggiustare come ammesso dagli stessi organizzatori: in questo senso fanno ben sperare per il prossimo anno le dichiarazioni del Presidente Goffredo Bettini dove afferma che “nel 2007 organizzeremo proiezioni separate per gli spettatori paganti e per gli accreditati….dato il successo di questa prima edizione raddoppieremo il mercato, aumenteremo gli spazi, le proiezioni e i servizi.” (Il Messaggero 24 Ottobre 2006). Sorge quindi spontaneo chiedersi: Chi ha paura della diffusione del cinema? Di certo non il pubblico!