di Erminia Mattarelli. Testimonianza raccolta da Michela di Mieri

Partigiana.jpg[Dopo la prima puntata di questa autobiografia, il Circolo Arci Iqbal Masih ha ricevuto moltissime richieste del libro autoprodotto S’atâurn indrì (Si torna indietro). Storia della donna Erminia Mattarelli, di cui pubblicheremo altri stralci. Per accontentare una parte almeno dei lettori, è stato deciso di lasciare un po’ di copie del volumetto presso due librerie di Bologna: Trame, in Via Goito 3c, tel. 051/233333, e Modo Infoshop, in via Mascarella 24b, tel. 051/5871012. A queste librerie ci si può indirizzare per eventuali ordini. Si tenga presente che Carmilla non pubblicherà il testo integrale, per non ostacolarne la diffusione militante.] (V.E.)

Ricordo che quando ci fu la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, lui [Giuseppe Massarenti, n.d.r.] promosse la raccolta di grano e generi alimentari per aiutare quel popolo glorioso; io feci la mia parte: con un cassetto e la bandiera rossa andavo casa per casa a raccogliere le cibarie, e in premio ricevetti una medaglietta con la falce ed il martello che fu motivo di grande orgoglio per me.

Costruì un asilo e una scuola per tutti i figli dei contadini; non c’era l’ora di religione, ma c’era la mensa: del pane ed un piatto di pasta tutti i giorni. Così io ed i miei fratelli riprendemmo ad andare a scuola: Mario fece la 6^ elementare ed io e Argentina la 3^.
Finiti i tre anni di obbligo scolastico, cominciai ad andare a scuola da sarta da una grande antifascista, la Gelmina Bertoncelli, così per imparare un mestiere. Durante la lotta clandestina, così dura dei primi anni del fascismo, questa donna mi fu anche maestra di vita, perché lei ed i compagni mi utilizzavano come tramite, come staffetta: dovevo andare in zone vicine, con oggetti e lettere di cui non sapevo il contenuto, e consegnarle; quella fu una formazione indispensabile per la mia vita di partigiana di qualche tempo dopo. Verso la metà degli anni 20, dovette fuggire da Molinella, e raggiunse il suo compagno, Angiolino Cavazza, esiliato in Francia. Non la vidi più, e fu un’altra grande perdita per me, morale e politica… ma i suoi consigli, insieme a quelli di Massarenti, mi sono stati utili per tutta la vita.
In quegli anni crescevo molto velocemente, perché i sacrifici formano una coscienza profonda, insegnano a riconoscere il giusto dall’ingiusto… ed insieme cresceva un rancore che mi dava la forza per andare sempre avanti.
Poi venne il 1921 e con lui il fascismo , maledetto lui e chi l’ha voluto!
Le prime squadracce fasciste comparvero a Molinella in quell’anno; il loro obiettivo principale era di distruggere la nostra cooperativa, con l’appoggio dei padroni e la benedizione dei preti.
Alle prime elezioni comunali dell’anno, sempre il 1921, uccisero Gaiani, un deputato socialista…era appena uscito dal seggio. Chiedemmo di organizzare un corteo di protesta. Le autorità non diedero l’approvazione, ma noi manifestammo lo stesso; la parola d’ordine era “tutti in piazza!”… si svuotarono le campagne e le case, le strade erano piene di operai e contadini anche scalzi. Era una cosa impressionante, sembrava che nessuno avesse potuto indebolire quel popolo così grande, compatto. Vennero i fascisti: quando videro l’immensità della folla, silenziosa, ma con queste armi che facevano più paura dei mitra, fecero il giro della piazza e se ne andarono via senza fare nulla, non scesero neppure dai camion…lo rivedo ancora benché siano passati tanti anni. Allora, giù le internazionali, uno stuolo di bandire rosse esultanti, trionfanti, segno che questa gente era riuscita a mettere in fuga i banditi, perché quello erano i fascisti!
Fu un successo immenso, ma fu l’ultimo….
Venne il 1 maggio del 1921, l’ultimo. Ricordo, tutta la piazza gremita di lavoratori; ognuno con in spalla l’arma del suo lavoro, la falce, ognuno con il suo fazzoletto rosso attorno al collo, ognuno con il suo garofano rosso, che allora era ancora un simbolo di lotta. L’oratore ufficiale era Nullo Baldini; arrivarono gli squadristi in gran numero con alla testa i loro capi: avevano dei bastoni ed in cima c’erano infilzati dei ranocchi vivi, scorticati, come a dire “voi farete la stessa fine”. C’erano le guardie regie, che formalmente dovevano preservare l’ordine pubblico, ma di fatto erano lì solo per appoggiare e facilitare l’azione dei fascisti.
Per ordine dei dirigenti socialisti di allora ci fu detto di tornare a casa, di non cogliere le provocazioni, di non reagire. Ci fu qualche protesta, ma lentamente quasi tutta la gente tornò a casa.
Quel giorno per la prima volta presi delle botte dai fascisti; io ed una mia amica, ribelle anche lei, non volendo tornare in silenzio a casa, continuammo a girare nel paese; in un angolo della piazza vedemmo una ragazza che veniva malmenata dagli squadristi, e tra le botte teneva ben alto il suo garofano rosso. Anche se non era che potessimo fare molto, corremmo in suo aiuto; io fui presa da un certo Erminio Amadori, di Molinella, mi picchiò sodo lesionandomi la spalla sinistra, e poi sberle a volontà: riuscimmo a scappare e a tornare a casa… solo allora sentii il dolore, ma la rabbia era più forte. Ricordo che mia madre non mi sgridò per nulla, ma con gli occhi pieni di lacrime accettava e comprendeva il mio carattere così libero…
Grazie alla linea della “ventata che passa” adottata dai dirigenti socialisti, si passò a un’offensiva inerme, passiva, che non giovò a niente. I contadini, nel giro di qualche anno, persero tutto quello che avevano conquistato in anni di lotte.
Fu un periodo di fuoco: cominciarono le botte da orbi quasi quotidiane, le persecuzioni, i sequestri di persona, i boicottaggi sul lavoro, l’olio di ricino. Non ti sentivi più sicuro né in casa né fuori; erano la miseria e la paura dell’incertezza che tornavano a trionfare.
Ricordo l’uccisione di Marani, sparato mentre scappava, davanti agli occhi di sua madre; Frazzoni si rifugiò su un albero tentando di scampare ad una esecuzione sommaria. Nel ’22 ci fu l’incendio degli uffici di collocamento. Il giorno 10 giugno del 1922, venne ucciso in piazza Marcello Cazzola, era una domenica, giorno di mercato, stava diffondendo La Squilla (giornale socialista). Pugnalarono Baraldi, che vendeva L’Assalto; lo fecero con freddezza, lasciandogli il pugnale conficcato nella schiena: prima di morire visse un anno in atroce agonia.
Una domenica andai in piazza; c’era il mercato ed io spianai un vestito nuovo, tutto bianco; avevo i capelli neri lunghi raccolti nelle trecce… mi sentivo una regina! Alcuni squadristi mi videro e mi riconobbero: mi diedero un sacco di sberle, mi strapparono il vestito, mi sciolsero le trecce e mi ricoprirono la faccia di nerofumo.Ero talmente scossa che non reagii né fuggii, ma feci avanti ed indietro per la piazza così conciata; sembravo una strega: i capelli sciolti arruffatissimi, piangevo e le lacrime mi facevano due solchi più chiari nel nero pece del volto… la gente mi faceva largo. Quanta rabbia mi si accumulava dentro!
Quelli furono anche gli anni in cui nacque il PCI , proprio in reazione alla passività del PSI.
I miei genitori appoggiarono la nascita del Partito Comunista. In casa mia c’erano sempre riunioni ed assemblee; gli adulti non volevano che io rimanessi ad ascoltare, ero troppo giovane e poi soprattutto ero una donna, di conseguenza dovevo uscire…ma io no, non stavo zitta; loro dicevano che ero una “sberra” ! Quando sentivo di dover dire una cosa, fosse anche il padreterno gliela dicevo! Ricordo che il 10 giugno del 23, il giorno del mio compleanno, chiesi a mio padre come regalo la tessera del PCI; c’era un signore in casa che avevo visto già altre volte: veniva a dare disposizioni. Mi guardò e si mise a ridere; gli chiesi perché rideva, e lui: ”Mo Ermina, te vut nà tessera…ma te ce l’hai già! Tè ti bele onna dal partè…con tott i servezz ch’te fè par noetar…te ti bele di nostar, l’è par quest ch’um scapa da reddar…!” (“Erminia, vuoi una tessera… Ma ce l’hai già! Sei già una del partito. Con tutti i servizi che ci rendi… Sei già dei nostri, è per questo che mi scappa da ridere…) Fu una gioia tanto grande per me, e mi diede il coraggio per affrontare tutte le prove a cui venimmo sottoposti in seguito.
Il 15 giugno del 1924 si consumò la tragedia più grande per Molinella: i fascisti, appoggiati dalle guardie regie, distrussero la cooperativa, bruciando e saccheggiando per un danno totale di tre milioni… per allora!
Massarenti fu costretto a fuggire perché lo volevano uccidere, e protestare e denunciare era completamente inutile.
Al nostro negozio fu affidato il compito di sostituire il più possibile le funzioni della cooperativa distrutta. La gente veniva anche dai paesi vicini a comperare da noi, ma la roba non bastava per tutti e pochi avevano i soldi per pagare…in breve, Molinella tornò di nuovo ad essere il paese degli accattoni.
Eravamo in agosto, sempre del ’24, e una sera a casa bussò il prete di Molinella, don Primo Angelini, al merito fascista, anima maledetta, un uomo che di cristiano non aveva niente. Venne ad avvertire la mia famiglia che se non l’avessimo finita di dare da mangiare ai lavoratori, e non avessimo preso la tessera del Fascio, l’avremmo pagata cara…questo fu il messaggio che il prete ci portò da parte degli squadristi. Avevamo paura, eravamo soli: chi cacciato, chi fuggito, ma non volevamo cedere, o aderire al fascio o scappare.
Pochi giorni dopo, quelle minacce si tradussero in realtà.
Il 14 agosto arrivò la spesa del nostro negozio: olio, zucchero, farina, roba per i maiali, grani. Verso sera eravamo tutti in cortile… una volta si faceva il “trebb”, come una conversazione: stavamo lì, in questo prato, e si scherzava, si rideva, si viveva, ecco, era solo quello il modo di vivere. Arrivarono i fascisti in una ventina, guidati dal capitano delle Brigate Nere Francesco Forlani, un vero boia. Tutto quello che era arrivato per il negozio fu buttato in mezzo al cortile: diventò tutto un pastone inutilizzabile. Noi prendemmo le botte, tutti: a mio padre, che stava contando i soldi di cassa, gliene diedero tante e gli rubarono i soldi, £. 500; mia sorella, la buttarono sotto un tavolo e la presero a calci.
Fu una notte tremenda. Anche se i vicini avevano paura a frequentarci troppo, andarono comunque a chiamare un medico, un vero compagno, il dott. Tonini, che passò la notte con noi.
Il giorno dopo ero nel negozio a fare la bada a quel poco che era rimasto. Venne Forlani tutto gentile, sembrava un damerino! Voleva il ritiro della denuncia fatta da mio padre per il furto dei soldi (la legge dei fascisti dava il beneplacito per uccidere e bruciare, ma non potevano rubare, era considerato un reato grave). Mi chiese di far firmare a mio padre una controdenuncia che lui aveva già pronta; al mio netto rifiuto, da dolce divenne brusco e cominciò a prendermi a schiaffi. Non c’era nessuno lì con me, ma, sia i miei genitori, sia i vicini, sentirono tutto. Mentre se ne andava tutto stizzito mi disse: “son venuto una volta, ritornerò e ti distruggerò, comunista d’una bolscevica!”; avrei volato dalla gioia, perché lui stesso mi diede la conferma che la mia scelta era stata quella giusta. Andai a trovare mio padre, a letto; era commosso, mi disse: “Ermina, conservati sempre così”… certi momenti non si possono dimenticare.
Passò una settimana.
Una sera venne don Primo, accompagnato da due fascisti, a chiedere di nuovo se mio padre prendeva la tessera del fascio. Al suo secco diniego se ne andarono.
L’ indomani il comando fascista aveva decretato 48 ore di coprifuoco per poter fare un “censimento purgativo”, quindi nessuno poteva uscire o anche solo stare alla finestra.
La sera dopo, domenica 22 agosto, io ero su in camera da mio padre che l’assistevo e gli facevo compagnia, stavo così bene con lui! Parlavamo tanto: lui mi dava dei consigli, c’era tutto da imparare ascoltandolo. Mia madre era rimasta giù a rassettare; mia sorella era andata a casa del suo compagno, anche lui un perseguitato che aveva già preso delle botte; mio fratello era scappato già da un po’, stava nell’Agro Pontino a bonificare le paludi. Molti esuli emiliani si erano rifugiati, là presso il principe Boncompagni di Vignola. Il principe aveva trovato il modo di guadagnare da tutte queste tragedie: faceva bonificare ai rifugiati le sue immense e malsane terre paludose e non permetteva ai fascisti di entrare nelle sue proprietà intralciando i lavori. Si assicurava così manodopera esperta, copiosa e disperata, quindi disposta a lavorare per una paga quasi nulla. D’altra parte, gli esuli potevano essere sicuri della sua protezione e avere salva la vita, cosa che, per il momento, poteva bastare.
Verso le dieci arrivarono… alla loro guida c’era Chiesa, il capo della Brigata Nera di Budrio; tra loro ce n’era uno giovane che doveva ancora saldare un debito di un credito che mio padre gli aveva concesso al negozio. Cominciarono col fare una perquisizione buttando per aria tutto; ce n’erano due o tre talmente bestiali, scalmanati, che insultavano e davano lo schiaffettino per provocare. Poi “interrogarono” mio padre: due fascisti cominciarono a picchiarlo che era lì infermo a letto. Corsi per difenderlo, potevo fare ben poco, ma quello che avrei preso io non avrebbe preso lui.
Lì io esplosi, non potevo e non volevo più frenarmi: feci funzionare la mia energia di sedicenne, sentivo una tale forza dentro! Mi aggrappai al più bestiale: denti e unghie funzionavano in pieno; mi avvinghiai e gli sfigurai il volto, non lo mollavo, lo mordevo; lui urlava, urlava e non riusciva più a difendersi, perché io avevo tutto che ribolliva dentro di me, e se anche mi picchiava io non sentivo il male. Quando allentai la presa, questo qui fuggì via come un cane giù per le scale!
Io e mia madre, con i nostri corpi tentammo di difendere mio padre. Fu inutile: loro erano in tanti, poi erano animali, non erano più esseri umani.
Ridussero mio padre in una condizione poco sperabile di sopravvivenza: aveva un braccio rotto, un trauma in testa e tutti i postumi delle “visite” precedenti ancora più aggravati.
Se ne andarono, ma dissero che sarebbero ritornati la sera dopo, e di non sperare su un aiuto dai socialisti, che già gli avevano detto che non si sarebbero compromessi troppo con noi: proprio quelli che dicevano “è una ventata che passa” e che ci avevano tanto pregato perché tenessimo aperto il negozio!
Io non sapevo più resistere con mio padre ridotto in queste condizioni… lunedì 23 lo vidi piangere per la prima volta, e per l’ultima lo vidi vivo. Non chiesi niente a mia madre, perché era inutile chiedere, non si potevano dire certe cose.
Ricordo che i vicini si misero d’accordo con uno del nostro cortile, Angiolino, un compagno, e, nonostante il coprifuoco, nascosero mio padre, alla sera col buio, in un posto sicuro, dentro lì nel cortile.
I fascisti vennero a mezzanotte, guidati dal tenente dei Carabinieri Ricci, era alto come una patata! Rovistarono dappertutto; Ricci disse: “ lo troveremo, statene certe, lo troveremo e pagherà!”. Questo fu il saluto della buona notte fatto da un maresciallo dei carabinieri, e non dai fascisti!
Noi passammo una notte di pura angoscia…c’era lì con noi una compagna, l’Amedea Bernardi, che era venuta per farci compagnia, per non lasciarci sole e disperate.
Al mattino tutti ricominciavano a vivere: le finestre si aprivano, la gente usciva per le strade. Noi aspettavamo una voce, una notizia, un segno di vita per mio padre.
Mia madre uscì ed andò in cerca di qualcuno che gli potesse dire qualche cosa… niente, nessuno ne sapeva niente.
Io pure feci il mio giro. C’era, vicino al nostro cortile, una stalla che era di proprietà di Pompeo Ungarelli, una canaglia fascista; solo lui aveva la chiave per aprirla dal di fuori. Questo qui si alzava sempre tardi, e invece quella mattina lì, caso strano, si era alzato presto. Erano le 8,30. Arrivai lì davanti: c’era la stalla aperta e questo qui che urlava e strillava; io gli dissi: “mo c’set da ruier, sta ban zett e vergagnett!” (sapendo che era un fascista). Guardai dentro, e vidi attaccato ad un filo della trave della sua stalla, mio padre, morto, impiccato, però con i piedi appoggiati a terra. Non si può, non so, non si può diventare matti, non si diventa neanche assassini, ma in certi momenti bisognerebbe esserlo.
Intanto era arrivata anche mia madre. Volevamo scioglierlo, ma i fascisti, che non avevano abbandonato il campo e ci controllavano, non ci lasciarono staccare mio padre dal laccio di ferro. Chiusero la stalla, dettero la chiave al padrone, e per 38 ore lasciarono mio padre lì attaccato, senza che noi potessimo fare nulla… per fortuna aveva i piedi appoggiati per terra, sennò si sarebbe staccata la testa dal collo.
Dopodiché arrivarono le autorità di Budrio: lo slegarono, lo misero dentro ad una bara e fecero una cavalcata di corsa, solo loro coi fascisti dietro: lo portarono all’obitorio di Molinella.

(2 – CONTINUA)