Ferruccio Parazzoli, nell’organizzare un premio letterario (l’Ambrosianeum), redige un saggio che finirà sulle pagine della rivista Vita & Pensiero. Fin qui, sembra il take di un’agenzia di stampa vigevanese. Invece il saggio di Parazzoli è talmente potente e deflagrante che, chi è riuscito a leggerlo prima della pubblicazione (noi di Carmilla tra questi), ha còlto immediatamente il valore devastante delle parole e dei sottotraccia che l’autore del recente Piazza, bella piazza (Mondadori) sussurra e grida al mondo della letteratura italiana. Parazzoli fa nomi e cognomi e molti ne escono con le ossa metà rotte. Perché il j’accuse di Parazzoli non riguarda affatto la qualità estetica delle opere e degli scrittori citati: riguarda invece la loro monodimensionalità, l’imbarazzante assenza di una tensione veritativa o, come dice lo stesso accusatore, “metafisica”.
Per la nostra letteratura è una questione centrale. Roberto Barbolini di Panorama se ne è accorto e Parazzoli è finito sul magazine con tre pagine tre dedicate alla questione sollevata dal suo saggio, che presto pubblicheremo integralmente su Carmilla.
Anzitutto la tesi: constatando i nomi e i titoli che la Demoskopea ha rilevato ai vertici dei “consumi” di lettura di quest’ultimo anno, l’impressione è che un elemento comune manchi ai vari
“… Melissa P., Moccia, Faletti, Baricco, Rossanda, Buttafuoco, Camilleri, Carofiglio, Vinci, Moccia, Moccia, Volo, Vinci, Volo, Faletti, Rossanda, Niffoi, Magris, Camilleri, Camilleri, Veronesi, Moccia, Volo, Casati Modignani, Camilleri, Camilleri (… fino alla fine di agosto), Veronesi, Pulsatilla, Moccia, Volo…”
– e l’impressione è che manchi l’autentica tensione veritativa, che i dispregiatori bollano di “massimalismo” e che invece Parazzoli connota col termine “metafisica”. Pronunciare questa parola, metafisica, dà la stura qui da noi, in una civiltà sottoculturata dove sopravvivono brandelli di cattolicesimo eterei ma assai difficilmente sradicabili, a fare l’equivalenza automatica: chi parla di metafisica sta alludendo alla religione. Non è così: Parazzoli cita Dostoevskij e Tolstoj, per parlare di “letteratura metafisica” e, quando giunge all’apice del suo ragionamento, si esprime in questi termini:
“Resta, tuttavia, l’incapacità, o l’impossibilità, di sfondare la parete invisibile, ma indubbiamente esistente, che immette nella dimensione che si spalanca oltre la fittizia realtà quotidiana (e che non ha neppure la dignità di Maya, Illusione, ma che è soltanto un sempre più povero imbroglio privo di novità e fantasia, come sono le immagini che lo ritraggono nei deprimenti spot televisivi, semmai arricchito di frequenti spunti horror); di tuffarsi (lasciamo perdere il vecchio modo di dire ,“alzare la testa”,che richiamerebbe la ormai incredibile immagine di un Cielo) oltre la parete e scoprire l’assurdo, lo stupore, lo scandalo di un’altra realtà, assai più vasta di quella materiale tra cui i corpi nascono, vivono e muoiono, con o senza frettolosi quanto edificanti riferimenti a un Dio”.
Non è dunque a una possibile rinascita della letteratura cattolica che si appunta l’intervento di Parazzoli. Che è, e non va dimenticato, tra gli ideatori del Manifesto avantpop italiano risalente al 1999 e qui pubblicato, laddove la tensione massimalista si esprimeva in una serie di auspici, secchi e quasi precettistici (era il tempo in cui aveva senso provocare), affinché la narrativa italiana riacquisisse quel potere di raccontare sul piano degli universali che l’intimismo e il sociologismo degli Ottanta e dei Novanta (con l’innesto del neo-neo-avanguardismo, autenticamente sociologico e profondamente minimale, dei “Cannibali”) aveva fatto di colpo evaporare.
Però un conto è lanciare nel ’99 un’accusa di “monodimensionalità” della letteratura (foss’anche mimetica a una eventuale monodimensionalità dell’Italia reale), altro conto è attaccare oggi su questo piano. Qui è necessario forzare Parazzoli a dire quello che, tra le righe del suo saggio, probabilmente c’è ma non viene detto (un movimento tipico della scrittura di questo autore). Va tenuto conto che Ferruccio Parazzoli, storico addetto ai lavori presso Mondadori da decenni ormai, una delle poche personalità di spicco intellettuale rimaste nell’editoria contemporanea a discriminare avendo vissuto altre stagioni attraversate dalla letteratura, ha della narrativa contemporanea una visione totale: ogni libro, ogni autore gli è perfettamente presente, con poetiche e rese stilistiche accluse. Considerando il fatto che dal ’96 si è creata una frattura, che Luther Blissett ed Evangelisti hanno permesso, a tutta una schiera di scrittori, di riappropriarsi di retoriche, immaginari e stili che rovesciano completamente quella mondimensionalità, come mai Parazzoli sembra non tenerne conto? Prendiamo il caso di Tommaso Pincio: sommamente ne Lo spazio sfinito, è emblematico di una rottura di quella parete trasparente a cui Parazzoli accenna. Recentemente Colombati, con il suo mostruoso Perceber, sembra avere incarnato esattamente quell’esigenza di sfondamento (a differenza di Pincio rendendosi metafisico in forza di un canone, quello talmudico e cabbalistico, che è esplicito negli apparati). E quindi perché rimarcare l’assenza di una letteratura tensiva verso l’inesplicabile, aperta agli immaginari misteriosi?
E’ che il discorso di Parazzoli è duplice. Da un lato egli accenna al mercato: cita la Demoskopea e mette l’accento sulla lettura come “consumo”. Domanda, dunque, che le opere a tensione metafisica si impongano a livelli di popolarità ampi. Q di Luther Blissett continua a essere, in questo senso, un antesignano importante: è precisamente ciò che ci si auspica.
Il secondo ragionamento che emerge dai rilievi di Parazzoli è una domanda: perché le opere che sfondano la parete della monodimensionalità non afferiscono a diffusioni pari a quelle di Faletti? Qui la risposta va strappata alla lingua di Parazzoli e, se non erro, potrebbe essere: perché queste opere tensive vanno costruite appropriatamente. L’affondo parazzoliano non tiene affatto conto della scrittura come esito di una fumosa ispirazione dai cieli. Parazzoli è un mestierante egli stesso della scrittura, sa che è l’artigianato il punto nodale e l’intenzione iniziale ciò che lega il nodo. Fa riferimento, cioè, a una pratica immaginifica che, tenendosi ancorata all’impulso a sfondare la materia, sia conscia e capace di utilizzare una retorica ben precisa. Questa retorica è l’allegoria: un’allegoria, per dirla banalmente alla Auerbach, che sia anagogica – cioè che proietti il lettore verso l’inesplicabilità, essendo la letteratura un’arte che giunge ai suoi livelli più alti quando è ambigua, quando rovescia i precetti ideologici di partenza per immettere l’umano nella zona buia della non conoscenza, dello stupore e dell’incanto. Non c’è Dio che tenga: qui si parla di una propensione alla domanda sulla totalità, anche della specie, che la letteratura ha sempre praticato, da Eschilo a Shakespeare fino a Eliot.
Un’osservazione non così collaterale: l’atto d’accusa di Parazzoli è, paradossalmente, il contributo critico più cristallino finora formulato intorno a Petrolio di Pasolini: che è il libro italiano (non romanzo: libro) che si pone fuori dai generi, sfonda la poetica dei generi, distrugge le trovatine della critica novecentesca e si richiama ai canoni del tempo che fu, considerando i canoni come esponenti ritmici e poetici di archetipi non rassicuranti, che non siano ingabbiati nelle celle allestite da strutturalisti e post-strutturalisti alla Propp. Fare un romanzo è, a un certo livello, facile. Se io mi appoggio a figurazioni sempre esistite nelle strutture letterarie (che so?, opposizione amico-nemico, oppure la coppia amica eroe-antieroe) ho un risultato meccanico che potrebbe garantirmi l’uscita dalla monodimensionalità. Non basta. Creare è porsi domande senza risposta sui temi universali, scrivere come se di tutta la storia umana non rimanesse che un codice, il proprio libro, dove sono annidate le eterne domande, eternamente vivificate dagli scrittori, che alludono a quel Regno dei Cieli dentro di noi che nessun prete, nessun filosofo, nessun semiologo è mai riuscito a spiegarci, mentre qualunque grande scrittore ha dilatato all’altezza del nostro encefalo, del nostro sterno, dove batte il muscolo cardiaco senza che noi sappiamo perché batta, quando ha iniziato a battere, perché continui a farlo e quando e come smetterà di sistolizzare.
L’appello di Parazzoli è diretto non a chi sta da anni lavorando a questa che potremmo definire “poetica delle poetiche”: in Italia c’è chi lo sta facendo. E’ diretto a chi non lavora in questo senso, accontentandosi della muccinizzazione, della falettizzazione, della veltronizzazione di un’arte che risale ad ancestrali primati che, in cerchio intorno al fuoco, raccontavano il falso per spiegare il vero e viceversa. Ed è rivolto a chi, pur avvertendo la necessità tensiva dello sfondamento, deve a ogni costo imparare a usarne la grammatica.
Seguendo le indicazioni di Parazzoli, il risultato sarà una letteratura italiana internazionale, che deborda dalle geografie perché tocca gli universali umani, che non sono i sentimenti e l’espressione delle psicologie singole o comuni, ma qualcosa di più profondo. La mia sensazione è che siamo prossimi alla realizzazione di questo appello.
I prossimi anni saranno sorprendenti.