di Alessandra Daniele
Lo scopo della fantascienza non è prevedere il futuro. Al contrario di quanto sembrano credere i suoi principali detrattori, la sf, quella vera, parla per metafore innanzitutto del presente, esasperandone le tendenze dominanti – a volte fino all’iperbole allegorica – per farle risaltare, svelarne le autentiche dinamiche, e le radici che affondano nell’eterno substrato inconscio dell’umanità. Proprio per questo diventa così spesso profetica, come un uomo che dalla cima d’una montagna riesca a vedere più in là di chi resta a valle, per il merito d’essersi scelto il miglior punto d’osservazione, la visuale più ampia.
Frederik Pohl, classe 1919, tra i fondatori dell’sf moderna e in particolare di quella sociologica, è uno di questi uomini. Gia negli anni ’50 la sua narrativa, sempre caratterizzata da acute analisi e sarcasmo corrosivo, diceva di più sull’attuale delirio ultracapitalista di molti recenti trattati d’economia, e preannunciava la globalizzazione bellica del warfare fino alle inquietanti risonanze profetiche de Le navi di Pavlov (“Slave Ship”, 1957).
Lo faceva col genio beffardo così ben rappresentato dal suo fulminante racconto Il tunnel sotto il mondo (“The tunnel under the world”, 1954) il cui protagonista, in un incalzante crescendo di rivelazioni sconvolgenti, si ritrova spogliato di tutto ciò che ha, che è, o che crede di essere, fino a un ultimo colpo di scena di magistrale perfidia, sul quale aleggia – sinistra come una versione maligna dello spirito santo – la pubblicità.
Ed è la mano ben visibile del Mercato a plasmare gli scenari interplanetari de I Mercanti dello spazio (“Space Merchants”, 1953) scritto da Pohl insieme all’ottimo collega Cyril Kornbluth (1923-1958) autore raffinato, anticipatore nei suoi racconti di interessanti sperimentazioni stilistiche, e non meno sarcastico di Pohl. Nel loro capolavoro a motivare e dirigere la conquista dello spazio non sono gli ideali retoricamente sbandierati da molte ingenue utopie (e molta astuta propaganda) bensì la logica famelica del profitto, unica legge che domina e pervade tutta la società. Una dittatura del mercato anche psichica, che anticipa scenari cyberpunk, e alla quale si oppone soltanto un coriaceo nucleo di ”passatisti” per certi versi non meno reazionari. Mentre l’onnipresente pubblicità satura l’immaginario individuale e collettivo con la potenza invasiva e necrofora di una metastasi terminale. Inevitabile riconoscere in questa allegoria sf lo specchio dello scontro epocale tra le due ”anime” degli USA, quella dalla vocazione rurale e isolazionista, e quella industriale e bulimicamente espansionista che ne è uscita vincente. Uno scontro cominciato nel il XIX secolo, il cui risultato era già ben visibile nel 1953, e che oggi lo è ancora di più, nel nostro presente, a livello planetario. Della nefanda brutalità d’un classismo tecno-economico da basso impero Pohl e Kornbluth parleranno poi in Gladiatore in legge (“Gladiator-at-law”, 1955), preconizzando anche le attuali sadiche derive mediatiche. Di segno solo in parte diverso è l’altra illustre collaborazione di Pohl, quella con Iack Williamson (classe 1908) inventore del termine (allora fantascientifico) “ingegneria genetica”, e altro pilastro della sf, col quale Pohl firma Le scogliere dello spazio (“The reefs of space”, 1963) riuscendo ad associare perfettamente il più classico sense of wonder alla più incisiva critica politico-sociale tipica della distopia e di quella sf sociologica che negli anni ’50 della Golden Age fa capo soprattutto a Galaxy. La mitica rivista diretta da Horace Gold che vanta fra le sue firme oltre a Pohl autori come Asimov, Sturgeon, Sheckley, e Philip K. Dick. Sebbene impegnato a tutto campo sullo scenario della letteratura fantastica anche come apprezzato curatore di riviste, antologie e collane, Pohl è soprattutto un narratore instancabile, dallo stile asciutto e dall’immaginazione multiforme, capace di produrre saghe vaste e articolate come quella degli Heechee, iniziata col vertiginoso La porta dell’infinito (“Gateway”, 1977) e di cesellare piccoli taglienti gioielli, come l’inquietante racconto Che ci provino le formiche (“Let the ants try”, 1949). Di costruire un intero nuovo mondo, beffardo riflesso rovesciato del nostro, ne Il pianeta Jem (“Jem”1979), come di scandagliare la singola psiche tormentata di un uomo alienato dalle alterazioni cyber-genetiche, in Uomo più (“Man Plus”,1976). Un maestro, la cui stessa vita è un paradigma della storia della letteratura sf, come testimonia la sua ironica autobiografia The way the future was (1978).
Pare che negli anni ’30 una delle principali cause dell’uscita di Frederik Pohl dal partito comunista USA sia stata l’ostilità dei dirigenti verso la sua passione per la fantascienza, considerata allora infame spazzatura destrorsa. Meno male che adesso i tempi sono cambiati..