di Mirko Del Medico
Questa città sta diventando finta, una città di cartapesta buona per le marionette.
I motivi sono molti ma, a mio avviso, la giunta capitolina ne è responsabile in buona parte.
Credo che in questa città sia giunta l’ora dei consuntivi. E lo dico dopo 15 anni di amministrazione di centrosinistra!
E’ ora di vedere quali sono i risultati di questo percorso, dove ci ha portati e cosa ci lascerà quando, inevitabilmente, questa città sarà governata dall’altro schieramento politico (se non altro è una questione di grandi numeri, prima o poi dovrà succedere).
Tenendo ben presente che questo è l’ultimo mandato per Veltroni e ciò gli permetterà di fare molto e con decisione, oppure poco e blandamente; se però il buongiorno si vede dal mattino….
Il punto centrale è come si intenda oggi il concetto di città, o per meglio dire di metropoli. Sì, perché nonostante si possano fare tutti i paragoni che si desiderano, quelli con Cofferati e il suo stile da sceriffo per esempio (da cui Veltroni può uscire più o meno decentemente), i problemi che affliggono Roma sono in parte diversi da quelli che affliggono città di provincia (il che non vuol dire “provinciali”).
Io a una città cosa chiedo?
Servizi, naturalmente, quelli che possano rendere la vita nella metropoli meno stressante, faticosa, odiosa; ne va della qualità della mia vita se per raggiungere un qualsiasi posto nella mia città impiego tre ore con l’auto e due e mezza con il trasporto pubblico. Che sia per
lavoro, per svago, per compere, per qualsiasi cosa… è un elemento fondamentale della qualità della mia vita che, allo stato, si divide in due: quando sto sull’autobus e quando sto per strada. Il rapporto per ora è paritario, il mio tempo è diviso quasi equamente tra queste due attività, con una leggera pendenza verso la prima.
Si sa, Roma è una città complessa e difficoltosa anche nella possibilità di infrastrutture: abbiamo un sottosuolo che somiglia a una forma di Emmenthal. Ma mi viene spontanea una domanda: possibile che in 15 anni non si siano trovate alternative al trasporto sotterraneo? E ancora, possibile che in centro i mezzi pubblici, più o meno, funzionino e in periferia no? Possibile sorbirsi da cinque anni la propaganda veltroniana in merito alla modernizzazione delle linee periferiche?
Tratta Termini-Pantano, la più sconnessa e dis-funzionante della capitale. Dove sono le macchine promesse da Veltroni, quelle provenienti dalla Spagna? Per ora non ce n’è traccia, salvo poi sapere che a Madrid le macchine le hanno comperate da noi, targate Ansaldo-Brera.
Forse gli spagnoli sono più lenti nella fabbricazione di quelle da venderci. (Ah! Vandana Shiva lo diceva che forse il capitalismo è un po’ malato…)
Ma, ancora, non è questo il punto…
Il punto è che questa città non è più una città, sono due!
Prendiamo Venezia. Venezia non è più la città dei veneziani da molto tempo, i suoi abitanti
sono i turisti, tutto è fatto per i turisti, la città è organizzata e ruota intorno al turismo. Togli il turismo, Venezia muore perché non c’è più un tessuto cittadino in grado di sostenerla in vita.
A Roma, fino ad ora, era sembrato non toccasse in sorte questa fine; adesso la faccenda invece si sta complicando e i progetti veltroniani per questa città appaiono chiari.
La modernità per una metropoli, secondo la vulgata veltroniana, sono i grandi eventi, la pubblicità, la moda, il richiamo internazionale, le copertine su Time, il cinema stile hollywood, le star dell’NBA a Caracalla. Tutto, naturalmente, concentrato nel centro, ovvio.
Il turista, di massa o di nicchia come può esserlo quello degli addetti ai lavori di un festival internazionale del cinema, ringrazia.
Figuriamoci! A Roma non mancano occasioni di divertimento!
Soldi; questi ci vogliono per organizzare simili eventi. Risorse.
La domanda, legittima, è: a cosa queste risorse sono state sottratte? I senza casa sospettano (che malanimo!) che con quelle risorse si sarebbero potuti risolvere in parte i loro guai. Ingenui….
Eppure a Roma ci sono esperienze come quella del cineclub Grauco, esperienza trentennale, che non ha i soldi per portare avanti il suo percorso e la sua offerta, volontaria, non retribuita.
Se si guarda anche la cornice di questo “bellissimo” quadro, si notano dei particolari non secondari che si configurano come il classico altro lato della medaglia.
La città è divisa in due, la periferia va allargandosi, i cittadini della capitale sono espropriati della propria storia, quella fatta dai quartieri popolari (Testaccio, Trastevere, San Lorenzo, per limitarmi alle zone una volta di mia frequentazione), dai piccoli esercizi commerciali, dalle sale e dai ritrovi culturali già di per sé pochi, ora anche difficilmente raggiungibili.
Il tessuto cittadino, spostandosi in periferia, si sta frammentando e atomizzando, la sempre sbandierata delocalizzazione non è mai stata portata a termine e procede con una lentezza esasperante.
La gente si sposta, i servizi rimangono a Roma.
Il mio non è un discorso passatista, questa situazione del resto non è neanche nuova (molti la denunciarono quando iniziò, molti studenti negli anni ’60, molti altri nei ’70, alcuni di questi ora siedono in consiglio comunale), il fatto è che si sta accentuando a dismisura.Non voglio accettare la scusa che sia il mercato a dettare le regole, la politica c’entra eccome!
E’ la politica che si deve occupare dell’abitazione, del diritto alla casa; è la politica che dovrebbe tracciare dei sentieri perrimodellare questa città, e lo sta facendo, ma sbagliando!
L’integrazione in questa città è una chimera, l’unica cosa che ci salva è il disinteresse che nutriamo l’uno nei confronti dell’altro, qui in periferia, ammassati come bestie, e forse il pensiero di condividere in fondo la stessa sorte; ma la guerra tra poveri è dietro l’angolo.
Le attività culturali veltroniane in periferia sono specchietti per le allodole. Prendiamo il Teatro di Torbellamonaca, il cui direttore artistico è nientepopodimenoché Michele Placido.
Se vai in quel teatro in occasione di qualsiasi rappresentazione, ti accorgi che di Torbellamonaca non c’è proprio nessuno!
Il risultato di questa esperienza è che i soliti pochi si spostano dalla periferia alla periferia alla ricerca di quello che gli abitanti della periferia stessa non apprezzano perché non conoscono. Colpa degli abitanti di Torbellamonaca?
Io non voglio affatto andare ad abitare a Piazza Navona. Io vorrei raggiungerla facilmente, meglio di quanto faccio ora, e trovare fermento culturale e non, trovare quel tessuto cittadino di cui parlavo e percepire il legame che c’è tra la città e i propri abitanti! Vorrei trovare multiculturalità, integrazione, che non sia turistica ma stanziale… Chi ha mai visto un lavoratore rumeno a Campo de Fiori? Forse si dovrà volgere lo sguardo in alto, proprio lì su quel palazzo che sta ristrutturando.
In cosa si misura la modernità di una metropoli?
Ci sono molti modi per riappropriarsi del maltolto, seppure il mercato impedisca di andare ad abitare a Piazza Navona.
Rione Monti, centralissimo; nasce l’Angelo Mai, l’ennesima occupazione a Roma. Con una differenza, è in pieno centro.
Il quartiere respira per un poco la modernità, per come la intendo io.
L’Angelo Mai è in fase di sgombero, i residenti sono divisi, Veltroni si aggrappa alla divisione e va avanti. Del resto là dovrà nascere una scuola. Io sento puzza invece di speculazione, a Roma i palazzinari sono una forza capace di sostituire i direttori dei giornali.
Questo è l’esempio lampante di cosa Veltroni intenda per metropoli, un teatrino di cartapesta.
Il padre del buonismo all’italiana sa quando c’è da dare pugni, e lo fa. Nonostante la sua aria da imperatore romano, da pontefice della cristianità (alcuni giornalisti amici mi raccontano di scene di giubilo al suo passaggio), il nostro si è adoperato in questi anni per fare della cultura dall’alto, massmediatica e spettacolare, l’unico esempio di percorso fattibile in questa città. Se esperienze altre ci devono essere, ebbene, che siano relegate in periferia.
Il centro è tabù, è roba da Cinecittà, buona per i set e per i remake
della Dolce Vita.
Per chi non abita a Roma forse sarà difficile da comprendere, ma in
questa città, sotto i lustrini e le luci al neon, si respira un’aria
mortifica e stantia.
Ad agosto a Focene, sul litorale romano, è morto un ragazzo, si chiamava Renato Biagetti.
Morto per mano fascista. Non il fascismo organizzato, nonostante a Roma se ne vedano tante di organizzazioni neofasciste.
E’ un fascismo strisciante, è un regresso umano e culturale, è il frutto dell’equidistanza scelta dal regime veltroniano per affermare la sua Pax, quella che nega il conflitto nonostante questo sia vivo e vegeto e covi sotto le ceneri della città.
Renato non era un militante, poteva essere un nostro amico, uno dei nostri figli, in cerca di divertimento, ammazzato con ripetute coltellate da due bambini a stento maggiorenni, non inquadrati politicamente a loro volta.
E’ il frutto avvelenato del veltronismo, che ogni giorno che passa somiglia sempre più a una coltre scintillante in superficie ma plumbea nell’essenza.
E’ la causa del degrado che in questa città porta 30 persone a sparare contro immigrati romeni e a dar fuoco a un bar, loro ritrovo; per faide tra balordi, si dice.
Tempo di consuntivi. Da una parte Renato, dall’altra il fallimento della modernizzazione di questa vecchia baldracca che è la città di Roma.