Gomorra di Roberto Saviano e L’impero di Cindia di Federico Rampini. Due testi a confronto che analizzano realtà apparentemente distanti ma accomunate dalla velocità come criterio di produzione e distribuzione.
C’è un paradosso, noto come “dei due gelatai”, di solito usato come critica ai sistemi politici bipolari. In una spiaggia ci sono due gelatai, che devono decidere dove installarsi. Logica e interesse dei bagnanti vuole che i due si posizionino a un quarto di distanza dalle due estremità, affinché ogni bagnante sia equidistante da uno dei due. Che invece si posizioneranno al centro della spiaggia per contendersi la porzione centrale dei bagnanti, giacché quelli lontani dal centro non hanno altra scelta che alzarsi e percorrere una distanza doppia, se vogliono un gelato.
Così facendo i due venditori hanno stabilito che il centro è il punto di convergenza degli interessi, delle aspettative e delle merci disponibili, dei quali la periferia è mancante: chi abita in periferia deve ricollocarsi al centro o persistere nelle proprie carenze. Questa definizione spaziale della relazione centro-periferia può servire come punto di partenza per la lettura incrociata di due testi che ci costringono a rivedere le nostre credenze sulle periferie interne ed esterne: Gomorra di Roberto Saviano e L’impero di Cindia di Federico Rampini, entrambi editi da Mondadori nella collana Strade Blu. Un «viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra» il primo, scritto da un giovane giornalista-narratore napoletano; il secondo un viaggio nell’economia e nella società di India e Cina da parte di un affermato giornalista.
Cos’hanno in comune Scampia, Secondigliano, Casal di Principe con le economie globali asiatiche? I luoghi comuni che ne deformano l’interpretazione, innanzitutto: il camorrista alla “Mi manda Picone” fa il paio con l’indiano come fachiro impassibile. La realtà è invece che la camorra è stata la prima a intuire le potenzialità dei processi di globalizzazione, di sgretolamento dell’ordine mondiale nato a Yalta, di rivoluzionamento dei processi produttivi e distributivi: i camorristi sono i primi ad andare in Cina a studiare i distretti industriali, a pianificare, a stringere accordi; i primi ad acquistare depositi di armi ad est dopo la caduta del Muro, e a pagarne la custodia per anni. Si inseriscono nelle dinamiche produttive realizzando un “just-in-time” stratificato per livelli di qualità, dalla moda esclusiva – fu cucito da un sarto della camorra l’abito di Angelina Jolie alla cerimonia degli Oscar del 2001 (a sinistra) – alle griffe di prestigio, agli outlet, sino alle copie di decrescente qualità, all’interno di un sistema fondato sulla rapidità di esecuzione. Come sulla velocità si basa l’offerta di servizi che l’India, attraverso la rete, è in grado di offrire al mercato americano: prenotare un albergo, comprare lezioni di matematica o assistenza tecnica, riparare i bachi di sistema costa meno se ci si rivolge, via web, all’India – e lo stesso vale per i servizi ospedalieri.
La velocità, quindi la determinazione temporale, sembra essere il criterio di produzione e distribuzione che, prendendo il posto della distribuzione spaziale, rende possibile una forma sistemica di accumulazione neo-capitalistica nel napoletano – dove la camorra non è imbrigliata dalla pesantezza e dalla rigidità delle cosche siciliane – come nell’Asia centro-meridionale, dove Cina e India ripartiscono il mercato globale: software e servizi all’India, hardware e tessile alla Cina. I due libri condividono gli stessi strumenti interpretativi: l’intuizione della velocità temporale, l’analisi secondo schemi di complessità sistemica, un certo fiuto per la via percorsa a doppia direzione dalle merci e dal denaro – cioè dalla circolazione allargata. Napoli è il luogo in cui si inverano le metafore sulla globalizzazione come “guerra di tutti contro tutti”, India e Cina i luoghi in cui lo stato di cose presente è solo il punto di partenza, il deposito potenziale di energie per la continua distruzione creatrice esaltata da Schumpeter. Ma anche la camorra pratica, al proprio interno, la teoria delle innovazioni: continua frammentazione del Sistema in fazioni, rapidissima rotazione di capi, bassa età media dei camorristi: a quarant’anni sono già fuori dal giro, soppiantati da una nuova generazione e costretti a faticare nei cantieri. Sarebbe lungo un elenco dei luoghi comuni, dei punti di vista dati per scontati, delle leggende metropolitane sfatate dai due autori: i rapporti tra cinesi di Cina e cinesi d’Italia, la liberazione delle strade di New Delhi dalle vacche, la pianificazione ecocompatibile delle nuove città cinesi, l’industria della bufala come anello dell’economia camorristica – e si potrebbe continuare a lungo.
Rampini e Saviano, va detto, sono osservatori preparati e dotati di un buon bagaglio culturale. Ma sono anche osservatori empirici, che fanno interagire la teoria con l’osservazione diretta: sono insomma dei veri storici, se è vero che l’etimologia di “historeo” significa “vedere con i propri occhi”. Il loro approccio sperimentale (quella sinergia tra teoria ed empiricità cui Ratzinger nega il valore di scienza) consente loro di andare oltre il muro compatto delle totalizzazioni – i napoletani, i cinesi, gli indiani – per cogliere le molteplici singolarità: gli individui in carne ed ossa, le molte Cine, le enormi differenze che convivono in India. Ogni singolarità diventa a sua volta simbolo di realtà più generali, collettive: psicologie, pratiche, abitudini, modelli. La “condizione femminile”, presa ad esempio, diventa in entrambi i libri una sfaccettata galleria di figure non catalogabili entro facili stereotipi: le ragazzine napoletane che si fidanzano giovanissime coi camorristi per “avere la mesata” e le donne di camorra, feroci guerriere uscite dai film di Tarantino; le imprenditrici cinesi e le ragazze indiane che coniugano liberazione sessuale e morigeratezza nei costumi. Riprendendo l’immagine della spiaggia, scopriamo che nelle periferie snobbate dai gelatai si sono insediati nuovi venditori con nuove merci – forse quegli economici kebab che, riferisce Rampini, sono considerati un’invasione dagli esosi ristoratori veneziani. Come in un’anamorfosi, lo spazio si è incurvato, ed ora al centro vediamo le periferie, e viceversa. Questa curvatura di prospettive ci costringe a fare i conti con i processi di globalizzazione, sui quali entrambi gli autori hanno qualcosa da dirci: che la camorra non è un fatto locale, e che la si combatte solo se alla lotta locale (quella sociale e quella istituzionale) si accompagna la lotta alla globalizzazione capitalistica, all’asservimento degli spazi di vita al ritmo del tempo della circolazione, delle esistenze alle merci. Che l’India va forse considerata come il laboratorio possibile di una globalizzazione diversa, come il tentativo di far convivere le differenze e le moltitudini all’interno di una democrazia giovane ma vitale, come dimostrano l’originalità degli studi indiani su globalizzazione, l’economia mondiale ed etica – ma anche l’atteggiamento di legittima ed altera sufficienza dell’opinione pubblica indiana verso i neo-colonialisti alla Bill Gates.
Questa recensione è stata pubblicata su Liberazione del 23.09.2006