di Stefano Bonaga
Le testimonianze — tutte — hanno prossimità non solo etimologica con il martirio. Non sono tali infatti senza richiedere un prezzo. Nel caso di una testimonianza di una vita cara, seppur filosofica, il prezzo del ricordo si paga con la moneta del dolore. E il dolore è cattivo consigliere, comunque poco elegante perché fa appello costitutivamente al risarcimento, all’ombra della logica mute e plebea della perdita e del guadagno. Nella testimonianza la parola parla d’altro, come nel sogno il desiderio dislocato. E dunque la testimonianza è anche il luogo dell’ibridazione fra l’assenza resa presente, e il presente della perduta esistenza che di là ritorna. Questa complicazione, la speranza delle piegature che fanno la consistenza della testimonianza, dovrebbero rendere diffidenti insieme il testimone e i destinatari delle sue parole. E così è per me e questo è l’inevitabile limite di un ricordo volontario.
Che tuttavia venga fuori qualcosa di Roberto Dionigi è un intento sano, perché la salute del pensiero, così come lo ha caratterizzato, è la sua più bella eredità. Dunque, subito, il pensiero in questione.
I suoi scritti se rappresentano a sufficienza la lucidità, non ne rivelano abbastanza la mobilità e la rapidità, né fino in fondo la necessità e la pervicacia. Paradossalmente, una banale aneddotica è più esplicita a questo riguardo. Se da un lato Roberto Dionigi pensava alla velocità del fulmine, senza che si producesse mai alcun cortocircuito, le sue parole emergevano con la precisione di un rigore anticipato dal pensiero, come significanti di significati pre-elaborati. Nel discorso i vincoli logici inchiodavano le frasi all’asse dell’argomentazione con la precisione ossessiva dell’acribia. La stabilità delle parole aveva l’effetto di una convergenza di fattori di velocità in equilibrio. Il suo modo di studiare era altrettanto impressionante. Lo vidi lavorare, prima su Husserl e poi su Lenin, in questo modo. Procuratisi tutti i testi accessibili dell’autore, dopo mesi di studio si trovava con migliaia di pagine di appunti: essi finivano nella spazzatura appena terminati. Ricominciava una seconda lettura, con relativi appunti. Destinati all’immondizia. Solo gli appunti della terza lettura sopravvivevano. Ho chiamato impressionante questa procedura, perché essa è sintomo di una capacità di disfarsi del lavoro eseguito che è una sfida alla prudenza, alla tutela, al risparmio intellettuale di cui non conosco altri esempi.
Il pensiero era in Dionigi il terreno della sfida esistenziale. Il corso del pensiero, non lo spirito astratto del pensiero: non il logos ma il theorein, la pratica incorporata nella fisica dell’organo del pensare, e dunque insito nella relazione di sistema ambientale, di parole e di cose, di segni ed eventi. Pensiero materiale, servo dell’adeguatezza non meno che della coerenza e incapace di mentire. D’altro canto, nell’al di qua del discorso, nella conversazione, le sue frasi erano sincopate, ellittiche, saltavano passaggi, implicavano premesse, fino al fenomeno quasi comico del risuonare di una successione ipotattica di particelle logiche il cui riempimento semantico era compito dell’interlocutore. Così come il suo studiare era lento, il suo pensare era condannato alla velocità dell’insofferenza per la stasi, il già detto, il va da sé, il si sa che, il compiaciuto. Un pensiero in atto, un pensiero-squalo senza riposo, un pensiero insonne. Poiché la salute del pensiero è la sua malattia, il suo non essere mai adeguato a se stesso, dunque non la sua fisiologia ma la sua patologia, Dionigi scoppiava della salute del suo pensiero infermo. Del valore delle opere di Roberto Dionigi sono unici giudici i suoi lettori: habent suo fato libelli.
Ma ciò di cui si parla qui è del suo bios philosophos: un pensiero all’altezza della vita, una vita all’altezza del pensiero. Dunque non pensiero che vincola il pensiero secondo un paradigma formale, o la vita che vincola la vita secondo un paradigma materiale, ma la vita che vincola il pensiero e il pensiero che vincola la vita, secondo un paradigma etico. L’ethos singolare del pensiero, il suo stile — o il suo stylum, come direbbe Derrida — è un compito che comporta la necessità dello stile di prolungare la vita con il pensiero e il pensiero con la vita. Conosco commentatori di de Sade che gridano all’ingiustizia del mondo se la moglie è appena attratta da un amico, teorici della scelleratezza e praticoni del conformismo, che fanno del pensiero un vezzo, un ornamento femminile o un richiamo per gonzi. Roberto Dionigi, pensatore del tragico, manteneva la misura del suo pensiero nell’esperienza tragica del vivere.
Lo stile determina liberamente la misura di questo accordo. Lo stile è il terreno su cui si misura la grande salute di cui parla Nietzsche. E poiché si lascia in eredità solo ciò che si è posseduto in prima persona, questa eredità di stile — l’immanenza pura di una vita — nelle parole di Deleuze — è il dono filosofico più prezioso che ci ha lasciato Roberto Dionigi.
alcuni link su Roberto Dionigi:
i suoi libri
Il mestiere di filosofo
Dionigi, cocktail e filosofia