di Cosimo Argentina
Pubblichiamo la Premessa e il Capitolo 1 del nuovo romanzo di Cosimo Argentina, edito dalla Editrice Effigie di Pavia (g.d.m.)
All’inizio fu una piccola spianata annegata nel fango in fondo a via Calabria; da una parte c’eravamo noi e dall’altra partivano le baracche Zaccheo, una sorta di zona franca a metà tra il villaggio medievale e una bidonville dove i gabbiani contendevano gli avanzi ai disperati.
Avevo cinque anni, era la fine degli anni sessanta e le fondamenta della casa di mia nonna erano deboli a causa di una tomba a camera dell’età magnogreca. Il custode di un deposito di vino che si trovava a pianoterra bestemmiava sempre all’indirizzo di quella tomba perché, diceva lui, quelli dell’ente archeologico non gli consentivano di lavarci le damigiane, lì dentro.
La notte le puttane accendevano fuochi sul limitare della spianata oppure legavano fazzoletti di stoffa alle maniglie delle porte delle baracche. I cani inseguivano i carretti e io me ne stavo seduto sul pavimento del balcone di mia nonna, la faccia incastrata tra due sbarre della ringhiera, a guardare Nerone e Bianca, due volpini, rincorrersi dalla mattina alla sera davanti a un contadino che, se gli calavi un cestino con una corda, ti vendeva l’insalata a 20 lire il mazzetto.
… un libro su Taranto…
… penso alla proposta dell’editore mentre pago 4 euro per tre mazzetti di rucola moribonda e per un cappuccio di lattuga pallida al mercato settimanale qui, a Bovisio, in Brianza…
Una puttana delle baracche Zaccheo era stata uccisa con cinquanta pugnalate e allora la polizia aveva fatto irruzione in quel mondo di ombre; poi le ruspe avevano triturato pareti di cartone, fucili mitragliatori nascosti sotto le vasche da bagno in cui mangiavano le capre, profilattici artigianali, dentiere rubate, unghie smaltate. Le puttane si spostarono su viale Venezia, le recchie finirono per battere in viale Virgilio e oggi, lì, al posto delle catapecchie, c’è un nuovo quartiere, le Bestat. Mia madre abita ancora lì, solo s’è ritirata di una manciata di metri; mia nonna è morta; quell’appartamento ha inaugurato una faida familiare. La vita continua, insomma.
« Ti va di scrivere un libro su Taranto?»
Io, Giovanni, l’editore, l’avevo conosciuto nel 1999 al mio esordio narrativo.
«Certo che mi va».
Ma poi quando mi sono seduto per scrivere, la cosa mi è apparsa la faccenda più titanica del mondo. È come scrivere su tuo figlio o sulla donna che ami; il bilancino va all’aria ma nello scrivere l’onestà è fondamentale, sicché ecco il mio tentativo.
Se sarò stato troppo morbido e struggente lo avrò fatto per amore e se sarò stato troppo velenoso e iconoclasta ciò sarà accaduto per troppo amore che a volte genera odio e sarcasmo e fobia.
«Ti lascio ampia libertà nello scrivere questo libro, Cosimo… vedi un po’ tu e poi ne riparliamo!»
Sono lontano quindici anni e mille chilometri da Taranto eppure ci respiro e a volte ci soffoco dentro, in quella città; perciò nello stesso istante in cui ho detto di sì all’editore centinaia di personaggi, scorci e voci si sono affollati all’uscio del mio lobo frontale per guardare dentro e sussurrarmi «oh, ‘mbà, fa’ ca nomme mitte in da sta cazze de storie»… «e io ci sono?»… «Mì, non puoi non mettermi dentro»…
Che manco vi devo mettere? Ci siete dentro fino al collo, belli, ma vorrei cercare anche qualcosa di nuovo perché un libro di memorie non ha senso e un libro su Taranto di stampo storico è stato fatto già decine di volte e pure molto bene. Vi metto, vi metto… siete tutti invitati, ma adesso fuori dai coglioni, lasciatemi in pace, lasciatemi pensare.
DOVE SI TROVA E DI COSA E’ FATTA TARANTO
La prima cosa che mi viene da dire è che Taranto non è in Puglia ma è a Taranto. Gli spartani approdarono a Saturo e allo scoglio del Tonno e si piazzarono lì e solo lì perché era soprattutto del mare che avevano bisogno, del mare, di conche accoglienti e di una costa facile da difendere. ‘Sta faccenda degli spartani sembra sia vera ma su questo lembo di storia si sono aggrappate mille leggende fatte di dei marini infuriati, Taras che arriva mezzo morto su una spiaggia e Falanto che sacrificando un tot di capretti ad Apollo riesce a strapparsi alle onde assassine e a finire sulla sabbia calda del litorale a lui sconosciuto. Anche geograficamente ha un senso quello che dico: Foggia, Bari, Brindisi e Lecce formano un cordolo nel tacco dello stivale che dà le spalle allo Ionio e respira l’aria dei Balcani mentre Taranto se ne sta là, isolata, nel semicerchio bulinato di scogli del golfo.
Quanto alla composizione organica, beh, è una città di carne pregiata e articoli da discarica, ‘sto posto qua. E’ un sacco di polpa, ossa, muscoli e tessuti, calcinacci, palpebre, testicoli, asfalto, nuvole, cocci di bottiglia, treruote, gas, sterco, polvere ficcati in abbondante pelle per dar vita a un corpo.
E’ una città fatta di frattaglie, insomma, ed è anche una città di facce.
Facce che s’accumulano, s’incastrano, facce che si arrampicano sulle vecchie torri saracene fa’ che devono ricoprire di cartilagini il pianeta.
Carne umana più che cemento armato, insomma. Le panchine di ferro che ad esempio in Brianza o in Veneto o a Genova sono ormai da anni terreno di conquista degli immigrati a Taranto sono ancora il regno dei corpi dei vecchi tarantini. E dei giovani come lo sono stato io che con i miei compari ero in grado, in via Polibio, di restare seduto sul cofano di un’alfetta per ore ad aspettare che tutto passasse.
Ma Taranto è fatta anche di voci e rumori. Quando torno — spesso ma non spesso come vorrei — e vado a fare un giro al mercato Fadini mi piace ascoltare le mani che sciabordano dentro le tinozze di acqua salata e cozze e vongole e a volte chiudo gli occhi e sento i sapori che escono da quelle lingue e dagli scoli delle pescherie. Mi graffiano la gola, quelle voci roche e stridule, mi spezzano l’equilibrio; sono serpi che mi s’annidano dentro le scarpe da passeggio e una sull’altra edificano una sorta di torre babelica che altro non è che l’essenza della città.
Esistenze. Togli quelle e non resta niente. Se osservi gli anonimi balconi della periferia troverai poche sciatte note architettoniche ma in compenso il sale nella minestra lo metteranno cosce e unghie rosse che rompendo la coerenza di ringhiere imporrite e prive di sponde daranno la stura allo spettacolo urbano. E saranno senza dubbio le tette poggiate alle balaustre coi capezzoli che hanno già dato che potranno dirti qualcosa dei quartieri, dei pittaggi o del versante della città in cui ti trovi.
Le bocche senza denti… eccola qui un’altra immagine da consegnare a ‘sto scritto.
A Taranto c’è ancora molta gente che una volta perso un dente non corre dal dentista a farsene ficcare in bocca uno nuovo. Ci sono queste labbra volgari, sensuali, spartane e, oltre, chiostre irregolari, con fori bui all’altezza dei molari e dei premolari e quando ridono — e lo fanno spesso — le bocche ti fanno quasi tenerezza perché appartengono a un tempo remoto, vecchio e antigenico. L’alito ne risente, ma i menti sollevati e i nasi che puntano per alcuni istanti il cielo sono i due capi di conche mobili fatte di lingue spesse e sorrisi improbabili che non finiscono mai.
E poi gli occhi.
Taranto sa di occhi smarriti. A volte le donne portano grossi cerchi alle orecchie e in mezzo a ‘sti anelli d’oro finto ecco spuntare il marrone bosco o il verde muschio di pupille inconcepibili.
Gli occhi, sempre gli occhi… quelli aiutano assai a comprendere Taranto.
Se guardi gli occhi dei pescatori, soprattutto di quelli anziani che ormai se ne stanno seduti davanti alle nasse con in testa veli da sposa fatti di gabbiani, capisci che dentro c’è tutto l’azzurro fiero che hanno fottuto al mare in albe di vetro. Oltre all’azzurro hanno ereditato le ossa storte e l’odore del pesce tra le dita dei piedi. Si fanno le sigarette, i vecchi pirati, ma sembra che non le fumino mai… restano lì, le cicche, in bilico sulle labbra spaccate ad ardere come lumini a San Brunone, come pezzi di cera smoccolati sulle punte di ferro di votive nella cappella dei santissimi medici, mentre davanti ai loro piedi le sementi spaccate e succhiate via dalla lenticchia legnosa formano un tappeto crocchiante che viene spazzato all’alba dalla saggina elettrificata.
Occhi, sempre e ancora occhi.
Quelli dei ragazzi di sette anni che nascondono sotto le cornee i mappini sventagliati in famiglia, le mani tra le cosce di pederasti meritevoli della santa inquisizione e favole di nonne sempre meno nonne e sempre meno cantastorie, ma che lo sono state, Dio Mio se lo sono state.
Gli occhi si trascinano dietro non solo le storie ma anche il metodo per imparare a raccontarle. Sono vere e proprie lezioni che si possono seguire standosene ad ascoltare i vecchi del quartiere che soprattutto in passato sputavano sulle mattonelle spaccate e facevano ballare i denti immersi nel sugo delle gengive con faccende che gli scivolavano dalle labbra fa’ che erano bava e parole tutt’uno.
Parlavano di Taranto e mentivano facendola diventare la più bella fogna del pianeta; raccontavano dei bagni regina Elena giù, abbasso al lungomare e di Cinzella, una puttana dagli occhi verdi che sciancava le cosce sulle vie cicatrizzate della città vecchia dove gli uomini s’infilavano come ladri senza speranza e dove le donne come Cinzella spanavano valvole mitraliche e sturavano arterie ostruite da iniezioni di cozze gratinate e birra Raffo…
Per me sono state una vera e propria palestra, le strade del mio quartiere, dove i grandi ti dicevano le cose e tu all’inizio manco c’avevi voglia di starli a sentire, ma poi qualcuno parlava di quella notte, della notte dell’11 novembre del ’40 e degli aerosiluranti che avevano fatto il tirassegno con le navi della marina militare alla fonda al largo della città. Oppure c’era sempre qualcuno che ti raccontava di bare di bambini che venivano calate con le corde dalle case della città vecchia e la gente le bersagliava, ‘ste bare, coi confetti ricci e le madri rischiavano di spaccarsi la testa e qualche parente restava ferito e la gente continuava a bersagliare.
Insomma tiene polpa e tufo, Taranto. E’ un porto e come tale ha offerto e offre riparo a un tot di gente, gente perbene e criminali d’importazione. Molti sono venuti a pascere da queste parti; molti sono partiti con le pezze al culo dai loro monti o dai loro luoghi sperduti e arretrati e son venuti qui a piantare l’albero del pane. Ricompense? Zero. Riconoscenza? Manco per niente. Mica la memoria è cosa da coltivarsi. Vi basti pensare che Taranto è gemellata con Brest, in Francia e che il nome di ‘sta città è legato a un famoso film di Fassbinder e a un libro di Jean Genet. Pensate al film… quello s’è beccato, Taranto, nei secoli, senza elefanti e re dell’Epiro che tenessero.
leggi qui la recensione a Cuore di cuoio, il precedente romanzo “tarantino” di Cosimo Argentina
vedi qui una video-intervista a Cosimo Argentina