di Alfonso M. Iacono
[da Storia, verità e finzione – edito da manifestolibri – euro 22]
È un’epoca confusa, questa. Non più difficile di quelle passate. Più confusa sì. E nella confusione accadono cose contraddittorie. Interessanti e stupide. Attraenti e ripugnanti. Nel campo dell’arte, le nuove tecnologie aiutano gli artisti a fare quello che devono fare, cioè a guardare con altri occhi e a far guardare con altri occhi. I vecchi temi, le fiabe, i racconti, la tradizione orale e la tradizione scritta, si mettono insieme a fare un viaggio in cui le cose si mescolano restando se stesse. Qui la memoria resiste per la semplice ragione che è rinnovata. Pinocchio o Amleto acquistano una dimensione diversa, ma senza perdere i loro tratti caratteristici. Si tratta anche di un esercizio di memoria, di quell’esercizio grazie al quale riconoscendo i tratti familiari di qualcosa che ci è noto, riusciamo a cogliere, anche proprio per questo, il mutamento di senso che le storie narrate ora comunicano. Il feticismo delle merci domina a tal punto che non ci accorgiamo di quanto ci sia entrato dentro, si sia naturalizzato, entrato nel nostro modo di essere. Esso domina il nostro attuale senso del mutamento.
La differenza che il pubblicitario ci fa cogliere tra una merce e l’altra che le è concorrenziale e che le somiglia, non ha propriamente a che fare con il mutamento. Si tratta invece delle differenza di quel gioco del mercato che sta condizionando tutto il nostro modo di vivere e di pensare, a cui soggiaciamo quasi senza rendercene conto. È il gioco del cambiamento debole, la finta orgia del nuovo, che si propone incessantemente come un valore e che, proprio a causa di quell’incessantemente, si è logorato. Il conformismo oggi ha i tratti del nuovo e del cambiamento. Viviamo l’epoca della caricatura della modernità. La finta orgia del nuovo uccide la memoria. Chi si ricorda della prima guerra del Golfo? Nessuno. Ogni tanto giunge sentore di qualcosa che ancora accade in Afghanistan. Ma qualcuno ha memoria di quella Guerra che l’occidente presentò come guerra di liberazione? E del Kossovo e della missione Arcobaleno? Tutto è nel calderone del già dimenticato. Tutto è confuso. Un tempo tornare al passato era ritenuto necessario per comprendere se stessi, ora al passato ci si va con veloci viaggi organizzati, vitto e alloggio compresi nel prezzo (vini esclusi), giusto il tempo di qualche veloce e fugace fotografia. Stiamo diventando tutti giapponesi. Statunitensi e britannici hanno fatto credere che Saddam Hussein avesse le armi nucleari. Fatta la guerra, si è scoperto che forse non le aveva. Ma ormai il gioco era stato giocato. Quello che colpisce e attanaglia la mente non è il senso dell’inganno, ma il fatto che l’inganno stesso è accettato quasi come un evento naturale. Non sconvolge nessuno. È come la corruzione: accettata ormai come parte delle cose di questo mondo. E così pure la perdita di memoria, grazie a cui gli impuniti hanno campo e gloria. Nel campo della comunicazione politica la perdita di memoria sta diventando sempre più uno strumento del fare politica. Il presidente del consiglio o il portavoce di un partito fanno una dichiarazione o rilasciano un’intervista i cui contenuti potranno essere corretti o smentiti qualche giorno dopo. Fra le parole e le cose non vi è più alcun legame. Nessuno si aspetta una corrispondenza fra esse, ma almeno un nesso dovrebbe pur esserci, e invece non c’è. Tuttavia il vero punto è che quando il politico di turno rilascia una dichiarazione, non vi è memoria. Non c’è più un filo che lega quel che aveva detto, corretto, smentito qualche giorno prima e quel che dice ora. Si ricomincia sempre da capo. E questo ricominciare da capo, questa perdita di memoria, questo frastuono di parole che cessa improvvisamente senza lasciare traccia, è l’espressione del crollo dei contenuti in favore del personaggio. L’aria di familiarità, il riconoscimento sono dati dalla fama del leader, che è sempre presente nelle case di tutti attraverso la tv. Presenze senza storia. O ci sono tutti i giorni o spariscono. Oggi, la metamorfosi che consensualmente stiamo vivendo e che da cittadini ci sta trasformando in sudditi, passa per la perdita della memoria, per l’ossessionante esibizione del nuovo, per l’assoluto prevalere del fascino personale del leader sui contenuti rispetto a cui vincolare patti, programmi, progetti. Il solo accennare a queste parole, patti, programmi, progetti, provoca strane sensazioni di vecchio, di desueto, di inessenziale. Oggi si può sputtanare pubblicamente chiunque facendo riferimento a contenuti che possono essere falsificati con tranquillità per la semplice ragione che nessuno andrà a controllare le fonti. Non c’è tempo, non c’è voglia, non c’è memoria.
È un’epoca confusa. Produce attrazione e ripugnanza. Vecchi conformismi sono per fortuna saltati. Ma se ne affacciano di nuovi. La perdita di memoria facilita loro la strada. Non abbiamo più il coraggio di chiederci dove, per esempio, stia oggi il confine tra il terrorismo e la lotta di un popolo contro l’oppressione, anche perché non riusciamo a voltarci indietro nella storia per chiedercelo e ci basta sapere che noi, l’Occidente, la Democrazia, siamo dalla parte giusta, quella dove sta il bene e dove non alligna il male. Ma dobbiamo domandarci: cosa vi è di democratico, di giusto, di buono in una perfetta visione del mondo dove il senso della critica si dissolve nei mille rivoli di un fiume che non scorre, dove non vi è più spazio per guardare con altri occhi?
La memoria oggi si annebbia nello spazio televisivo di pochi giorni, ma tutto cominciò con la Guerra del Golfo. Saddam Hussein invase il Kuwait e l’Onu diede il via libera alle truppe americane ed europee allo scopo di rimettere le cose al posto giusto. Nessun dubbio: Saddam e il suo regime erano colpevoli, avevano violato — ed era vero —, un diritto: l’Iraq doveva essere punito. Poi vi fu la tragedia del Kossovo. Venne deciso l’«intervento militare umanitario» e così fu. Poi giunse terribile e inaspettato l’11 settembre del 2001, a cui seguì l’intervento militare in Afghanistan. Poi di nuovo l’Iraq, questa volta senza l’Onu e con un’opinione pubblica mondiale generalmente ostile, preoccupata e spaventata di fronte a una guerra preventiva che gli Stati Uniti e l’Europa hanno fatto in nome della democrazia, della libertà, dell’occidente, ma soprattutto in nome degli stessi Stati Uniti, neo portatori di una missione apocalittica e dunque, con buona pace dei teorici della fine della storia, nuovi depositari dell’incedere della storia universale. Il profeta Daniele aveva visto nel sogno di Nabucodonosor il succedersi di quattro imperi universali, la cui identificazione fu disputata e contesa per secoli da filosofi, da nazioni e da imperi. Ora sono gli Stati Uniti gli ultimi portatori, armati e tecnologici, liberi e democratici, del destino della storia, un destino dove il riconoscimento degli altri tende sempre più a doversi produrre in un deserto.
A ben guardare la successione delle guerre in questi anni recenti, non può sfuggire un elemento. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu ingiusta, l’aggressione dei Serbi nei confronti dei kossovari fu ingiusta, l’11 settembre fu ingiusto, i Talebani in Afghanistan furono ingiusti. La guerra degli Stati Uniti è stata contro azioni ingiuste da parte di regimi dittatoriali e del terrorismo. Per questo molti ritennero che in Kuwait come nel Kossovo, come in Afghanistan si doveva intervenire. E vi credettero. Credettero cioè che l’intervento americano fosse l’unica soluzione adatta a risolvere delle tragedie umane, sociali, politiche. Il rimedio appariva peggiore del male. Ma non si tratta solo di questo. L’attuale guerra contro l’Iraq è il risultato di un’escalation che, in modo costante, sta vedendo realizzarsi una nuova strategia politica e militare degli Stati Uniti per il controllo e il dominio sul mondo. Con la guerra umanitaria nel Kossovo gli Stati Uniti ottennero uno stravolgimento del ruolo e dell’identità della Nato. Ora, con questa guerra, l’Onu ha ricevuto un ulteriore colpo di maglio. Dopo la caduta del muro di Berlino l’assetto mondiale era destinato naturalmente a mutare, ma questo mutamento sta prendendo le truci fattezze di un governo come quello statunitense che, assieme a quello britannico, in nome della democrazia, della libertà, dell’umanità fa guerre illegittime, preventive, intrise di un terribile mélange di manicheismo (il bene contro il male) e di crudo interesse (cominciare a «mettere ordine» in Medioriente), di un inquietante intreccio tra desiderio di vendetta dopo l’11 settembre e voglia di riaffermare assai realisticamente e concretamente la propria potenza.
Qual è il nesso fra guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo da un lato e democrazia e libertà dall’altro? Perché un nesso, per quanto atroce, dovrà pure esservi. Quanto più forti e rigidi appaiono i messaggi che dividono il mondo tra bene e male, tanto più angosciante è il dubbio che guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo stiano spaventosamente intrecciandosi con le nostre parole sacre, cioè democrazia e libertà. Possono convivere? Temo di sì. Anzi, stiamo entrando dentro questa strana convivenza. Certo, dipende dal tipo di democrazia e dal tipo di libertà. Ma il punto non è soltanto questo. Lo è, ma non soltanto. Il fatto è che stiamo entrando sempre più dentro un sistema di vita dove le libertà istituzionali tendono a intrecciarsi con una subliminale perdita delle autonomie collettive e individuali, dove il culto del successo, dietro la sua apparente dinamicità, stilla messaggi spietati e autoritari, dove il ritorno delle gerarchie rappresenta il contrassegno della perdita dell’eguaglianza nelle sue varie forme (economiche, culturali, psicologiche, istituzionali), dove la paura, accentuando oltre ogni dire il bisogno di rassicurazione, spinge i cittadini verso il ritorno ad uno stato di minorità. Si accentueranno processi che si muovono verso una sempre più forte divaricazione fra ceti forti e ceti deboli. E il prevedibile irrigidimento dei fondamentalismi islamici spingerà l’Occidente a irrigidire i propri fondamentalismi e viceversa.
Michel Foucault aveva distinto fra liberazione e pratiche di libertà, riflettendo proprio sul problema, esploso in modo particolare nel XX secolo, secondo cui i movimenti politici che in nome della liberazione avevano effettivamente liberato i loro popoli e le loro nazioni, giunti al potere, padroni della parola liberazione, finivano con l’impedire, di fatto, — è una considerazione già espressa da Hannah Arendt — ogni opposizione che volesse ottenere obiettivi di libertà. Come si fa a lottare in nome della libertà, quando la parola libertà appartiene a coloro contro cui viene opposta? Foucault sosteneva che, proprio per questa atroce contraddizione di cui soffrivano i paesi e gli stati socialisti e nazionalisti, a cominciare da quelli del cosiddetto Terzo Mondo, era necessario attuare comunque pratiche di libertà proprio dove la liberazione si mostrava compiuta.
Credo che il problema si ponga oggi anche per i paesi d’Occidente che fanno della democrazia e della libertà i loro valori più sacri. I movimenti che attuano pratiche di libertà ci sono già. Sono i grandi movimenti mondiali no global, sono coloro che in tutto il mondo lottano e manifestano contro le guerre e i devastanti effetti collaterali della cosiddetta globalizzazione.
È in tale cornice, ma in una chiave indiretta (come si conviene a una riflessione che non si presenta a tesi predefinite, ma intende restare aperta) che sono qui discussi i temi dell’autonomia e della storia a partire da alcuni angoli visuali che vanno da quello della rete di potere nelle considerazioni di Primo Levi sulla zona grigia e il problema della semplificazione della storia a quello del rapporto tra Occidente e Oriente di fronte al tema epistemologico e politico dell’autonomia, dalle contraddizioni dell’universalismo e della storia universale al sacro non religioso e al feticismo come legami tra potere e conoscenza di fronte alla questione dell’altro, dai concetti di cambiamento e irreversibilità al tema della verità nella storia, dai Greci in rapporto ai selvaggi al ruolo dell’utopia tra antichi e moderni.
Sono convinto che se ci si muovesse esclusivamente all’interno della politica (di quella politica che sempre più oggi si mostra come amministrazione del potere, piuttosto che come critica e pratica del progetto e del cambiamento) non si sarebbe in grado di operare una riflessione critica sul significato filosofico-politico di concetti quali autonomia, potere, storia. Penso che una riflessione siffatta debba oggi prendere le mosse da una ricerca sugli aspetti filosofici, storici, antropologici che stanno, per così dire, intorno alla politica, fuori di essa, in tensione con essa.