Vorrei compiere un’opera che l’etica protestante (quella di mercato, intendo) considera inammissibile come il peccato originale: vorrei fare l’insider. E vorrei farlo in maniera discreta, senza rivelare alcunché di segreto di quanto ho personalmente vissuto in qualità di giurato alla 63ma Mostra del Cinema di Venezia. Vorrei, in pratica, spiegare quanto già il titolo di questo intervento enuncia. Si tratta di una presa di posizione: la Mostra di Venezia è il punto più all’avanguardia dell’intellettualità che emerge in Italia – e dico che emerge grazie agli stranieri soltanto e a un’illuminata direzione artistica.
Ciò che ho visto mi ha lasciato attonito: scomparso immediamente il senso di isolamento intellettuale che soltanto certi amici italiani (quasi tutti scriventi in questo luogo) tamponano, sono stato risucchiato in un vortice in cui l’umano ha un valore primario e l’arte un senso compiuto, pregnante e commovente.
Per questo semplice motivo mi sembra assurdo che la cultura dell’evento (e del mercato: nel senso della vendita dei titoli ai distributori) spinga il futuro premier italiano a organizzare a Roma una concorrenza che è snob al contrario, poiché i giudizi naturali che vengono lanciati dall’organizzazione della Festa del Cinema a Roma sono di un tenore inaccettabile: Venezia sarebbe elitaria, tesa a una valorizzazione del film d’arte e intellettualistico a cui “la gente” (questa odiosa categoria diventata stabile patrimonio della sinistra italiana) se ne strafrega per noia e incomprensibilità. Il semplice fatto che il budget di partenza delle due manifestazioni veda Roma premiata dai privati con una somma doppia rispetto a quella di cui dispone la Biennale – beh, la dice lunga su come si muovano gli interessi.
A fronte di questi interessi, che in due settimane di full immersion tra registi provenienti dal mondo arabo, dall’Africa, dal Giappone e da Hollywood mi si sono rivelati come il motore unico e ambitissimo della distribuzione delle pellicole, Venezia non oppone affatto una sorta di scelta terzomondista. Ho visto 23 film in 9 giorni e posso garantirvi: non c’è partita. Non c’è partita con Opera Java, l’immenso capolavoro che traduce in immagini mozzafiato il Ramayana in un musical contemporaneo, e non c’è partita rispetto a qualunque opera cinese [a sinistra, il vincitore del Leone d’Oro con Still Life, il cinese Jia Zhangke) a cui io abbia assistito (quella che la mia sezione ha premiato mi ha fatto venire i lucciconi agli occhi: evento mai capitatomi davanti a un film in più di trent’anni di esistenza), così come non c’è partita di fronte al capolavoro Darrat, praticamente la saga tragica degli Atreidi nel deserto del Ciad, e nemmeno di fronte a un lentissimo film algerino come Roma Wa Lantouma c’è partita. La cinematografia italiana e americana devono misurarsi col fatto che si trovano a raccontare storie che non sono più umane, perché è perduta la totalità del fenomeno umano in queste lande del declino e dell’insorgenza dell’economico.
Unica eccezione, David Lynch. Non si è trattato solo di un premio alla carriera, quello conferitogli, né di un riconoscimento alla resistenza della supposta Arte contro l’Invasione dei Media o lo Strabordare della Merda Occidentale, ma di un riconoscimento all’esplorazione di territori che, forse, tra vent’anni ci saranno più chiari. Il suo Inland Empire è un film eccessivo per lunghezza, per idiosincrasie, sbagliato e difettoso sotto molti punti di vista – ma è la cosa più notevole e stravolgente che io ho visto in due settimane da spettatore privilegiato. E’ un requiem a se stesso e alla sua cinematografia: mentre scorrono i titoli di coda, in penombra, alle note di un allegro jazz che si tramuta automaticamente in danse macabre danzano tutti i protagonisti dei film che Lynch ha girato finora. Che alluda a una sua possibile morte fisica imminente o a una morte spirituale, Inland Empire è un’opera testamentaria e per questo è estrema, se ne fotte di qualunque struttura (laddove Mulholland Drive ancora dava la sensazione che fosse ricomponibile una struttura: e non lo era), effettua una catabasi in cui le ossessioni di Lynch sono sì presenti, ma a un livello che si percepisce come superficiale. E’ l’unica opera d’arte occidentale che ho visto sugli schermi della leggendaria Sala Grande (leggendaria a ragione: non va scordato il fatto che quella di Venezia è la più antica mostra del cinema del mondo intero).
Immerso in conversazioni – che costituivano per me bombole d’ossigeno emotive e cognitive – con i membri della mia giuria (il massimo regista arabo vivente, Youssri Nasrallah; il profondissimo regista del Grande silenzio, Philip Gröning; la distributrice giapponese Keiko Kusakabe; il regista italiano che sta a Hollywood, Carlo Carlei) e con altri intellettuali e artisti di varia estrazione (tra tutti, lo scatenato Guillermo Del Toro, regista di Hellboy), mentre dunque ero immerso in cotanta beatitudine, mi faceva uno strano effetto misurare i giudizi dati su Ciak o sui quotidiani dai critici nostrani: che bello il film in cui una è identica alla regina d’Inghilterra, che emozionante Bobby Kennedy raccontato a metà, che straordinaria epopea quella allestita da Amelio… Tutto fuori bersaglio, davvero: lo dico sinceramente. Il canone è perduto, le formichine vagolano disperse e solitarie, avendo perduto le tracce olfattive e magnetiche che riportano al formicaio (tra i giudizi, ovviamente, Lynch stroncato perché è dura stare tre ore a contatto con un tentativo di pervenire al vuoto della verità, esattamente come in letteratura faceva Burroughs…).
La regia del direttore artistico Marco Müller è stata sapiente al punto tale che non c’è stato giurato, attore, persona che partecipasse ai vari concorsi o premiato che non l’abbia ringraziato in privato e in pubblico: per questo miracolo dell’incontro. Perché l’incontro con queste persone provenienti da ogni cantone del pianeta è stata la chiave dell’esperienza: ho ricevuto tanti “no” alle mie teorizzazioni banalmente occidentali, ho goduto di un’attenzione privilegiata alla mia storia personale e a quella collettiva a cui afferisco – elementi che MAI mi sono stati permessi in Italia, se non nel corso di telefonate notturne o di incontri in approssimativi locali bolognesi.
Cosa emerge, in definitiva dalla Mostra di Venezia? Emerge a mio parere che l’attuale finzione è finita, che l’occidente è incapace di narrare, che esso concepisce le storie come puro racconto lineare e non coglie l’immensa profondità (mitopoietica, allegorica, di semplice incanto) che è racchiusa negli scrigni delle storie stesse. Emerge che o si cambia marcia – non solo al cinema, ma in qualunque arte – oppure ci troveremo nella situazione di osservare lo zoo piccolino degli artisti resistenti che si beano dello Stile e cincischiano con il narcisismo di chi a torto si autopercepisce come “resistente” rispetto a una realtà che è totalmente incapace di includere nelle sue retoriche. Perché non si tratta di un problema di realtà, anche se c’è un problema di realtà: l’occidentale, e l’artista occidentale medio e mediocre soprattutto, non coglie più il tragico perché ritiene il proprio presente un tempo non tragico (al massimo, la tragedia è la crisi dei quaranta-cinquantenni…), mentre in verità siamo nell’occhio del ciclone tragico. Si tratta soprattutto di un problema di immaginario da ricostruire completamente. Sarò più radicalmente bologico: qui bisogna rialfabetizzare rispetto alla semplice percezione: il benessere ha permesso che la percezione delle cose e dell’umano si volatilizzasse, a vantaggio di una melma che si regge su finti canoni tradizionali, su ipse dixit che vengono apparentemente negati e poi sono bellamente spiattellati in faccia a chi cerca nuovi sentieri, a chi prova a fare (cioè rifare) la Nuova Cosa che attende di essere trascinata nel mondo per immagini, parole, suoni, voci, sguardi, ritmi, pensieri, silenzi, assenza di pensieri.
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